L'esame di latino
di Ezechiele Lupo
Camminavo lungo una via del centro in compagnia del mio cane, un terranova sul grigio verde, vecchio ma arzillo, e mi coprivo la bocca con la sciarpa a righe comprata di fresco in quel negozio che vende solo prodotti made in Scotland: adoravo quel negozio, ora sono anni che non ci vado ed evito finanche di passarci davanti. Sono l’amministratore delegato della B****** C******* e D****, come lo ero tre anni fa in quel pomeriggio di febbraio quando camminavo col mio terranova grigio verde. La strada luccicava per la pioggia che da giorni sembrava scendere sempre regolare. Il solito viavai di macchine, l’odore della polvere, la cappa: era un pomeriggio assai banale, assai civettuolo, in questa città civettuola (volendo), e assai brutto. Dentro un vecchio cappotto nero di due taglie più grandi (sicuramente non confezionato su misura come lo era invece il mio), apparve in fondo ad un vicolo, tra ‘l muro d’una cattedrale e una vetrina da profumeria, un uomo alto e magro: in testa mi sembrava portasse una berretto nero ma era ancora lontano. Procedevamo in direzioni opposte e, me ne rendevo perfettamente conto, quell’uomo camminava nel mio stesso modo: un po’ ondeggiante ma con spalle alte, dritto, sicuro, passi ampi ma ondeggianti. Eravamo ormai a pochi metri e lo vedevo bene: sotto il braccio destro teneva un cartone dal quale tirava fuori dei giornaletti, mi pareva, che offriva ai passanti, i quali sistematicamente lo schivavano. Giunti uno di fronte all’altro mi accorsi che era vecchio, o comunque più vecchio di me; era strano avrei detto avesse avuto la mia età.
Mi disse: “Che bel cane che hai, che bel colore, è un grigio verde, come si chiama?”
“Deifobo.” Risposi io, non molto convinto; ma sì, si chiamava Deifobo. Quello continuava: “E’ proprio bello. E’ un terranova vero? Sì, sì, si vede. Che bei cani. Anche io l’avevo un terranova poi ho dovuto darlo via.”
Ero incuriosito: “Perché?”
“Mi costava troppo.” Ci fissammo: lui guardò la mia sciarpa di cachemire, io la sua gola raggrinzita, secca e ispida di una barba incolta e grigiastra, lui il mio perfetto cappotto da tremila euro, io il suo bucherellato paltò di terza quarta mano, lui il mio cane, io il suo cane che non aveva più. Ricominciò a parlare: “Comunque… vuoi comprare questo libricino? Ci sono delle storie, è carino.” Il mio lavoro consisteva ancora nel cercare storie, e gli detti un’occhiata: erano poche pagine, forse fotocopiate, due o tre racconti brevi, una pagina di poesie, una specie di pezzo di attualità, che sembrava messo lì a chiudere un lavoro che si presentava pessimo, e verso il quale scoprii di non nutrire alcun interesse. Quell’uomo, con le sue scarpe zuppe, vecchie e sformate mi guardava con la stessa familiarità con cui guardava Deifobo: in me vedeva qualcosa di già vissuto. Non avevo tasche libere per il libercolo, avevo freddo e conoscevo una pasticceria calda come la cioccolata con panna che ci avrebbe potuto garantire. Così feci la mia proposta: “Non mi interessa quello che vendi. Ma se hai freddo e fame, ti offro qualcosa per scaldarti e sfamarti, e mi parli del perché hai ceduto Deifobo.” Non era scemo, era un poveraccio, un barbone, ma non uno scemo. Accettò e ci incamminammo verso la pasticceria.
(continua...)
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