Non siamo pronti forse? - ultima parte
di Ezechiele Lupo
Era estate quell’anno in S******* e il litorale al tramonto una buona scusa per passeggiare con i mocassini neri in riva al mare. Lui lavorava da qualche anno per una grande compagnia australiana: i film degli aerei fungevano da valido svago e la voce sempre diversa dell’hostess che lo svegliava, una dolce compagna. Spesso armeggiava con il proprio telefono per cercare di scaricare questa o quella canzone: ma rare volte ci riusciva. Amava provare i ristoranti cinesi di ogni città in cui sostava. Sovente usciva con altri come lui per una birra alla sera: non amava la birra, ma c’è di peggio, no?
E così quell’agosto camminava con i suoi vecchi occhiali da sole, la giaccia nella mano destra, la borsa del laptop nella sinistra, la cravatta nel taschino e la camicia bianca slacciata: il suo addome non aveva risentito del tempo, o almeno non era impresentabile. Il mare riverberava sempre gli stessi colori: rosso, arancione, giallo, ma in fondo era solo luminescenza. In silenzio e timidamente il sole lasciava l’emisfero, e già tirava un’aria fresca. Si fermò un attimo e guardò all’orizzonte; che emozioni poteva suscitare la normale curvatura della terra? Riprese a camminare, ma pochi passi dopo si voltò a causa di una percezione: la percezione della presenza di lei. Ed infatti la vide arrivare con il suo copricostume leggero e con in mano un paio di infradito, la sua andatura talvolta buffa e i capelli portati più lunghi e legati in una coda, una borsa da mare a tracolla e dei vecchi occhiali da sole, per proteggersi dai bassi ed obliqui raggi. Era effettivamente lei che gli veniva incontro. Nessuno dei due ebbe, per quei pochi secondi che li dividevano, il minimo dubbio sulla volontà di vedersi ed abbracciarsi dopo gli anni passati nella dimenticanza. Si salutarono con gioia ed allegrezza e si strinsero forte: il corpo di lei era sempre fresco. Lui tremava un pochino e la gola gli doleva, forse gli si stava per chiudere. Gli occhi gli dolevano, ma ce li aveva bene aperti.
“Allora come stai? Che ci fai qui?” chiese lei sorridendo. Lui ebbe la possibilità di constatare l’esattezza dei suoi denti: se li ricordava uno per uno.
“Sono qui per lavoro: alloggio all’H*****. Sai la laurea e tutto. Insomma lavoro per una compagnia australiana.”
“Ah che bello, no?”
“Oh sì certo. Questo è accaduto: sono contento… Ho studiato per questo. Poi viaggio un sacco, mangio un sacco cinese…” disse giocherellando con il bottone della giacca. Lei si passò un dito sulle labbra e non disse nulla.
“Tu invece che fai? Sei in vacanza?”
“Sì, sono in vacanza, ma non faccio questo nella vita. In realtà non faccio molto. Ho lavorato per due anni in uno studio, poi… boh, non so, ho avuto paura di correre e ho passato un anno senza lavorare. Ho abitato con mia sorella. Poi ho trovato un posto manageriale, però molto tranquillo: mi piace e… insomma. Sono contenta anche io.”
L’ombra dei loro corpi si protendeva verticalmente sulla sabbia e all’altezza della testa si incrociava, si congiungeva. “Viaggi molto quindi?” chiese lei reggendosi su un piede solo.
“Beh sì abbastanza. Però sono anche spesso in ufficio… e…” lei guardava in alto e non sembrava ascoltarlo.
Lui si avvicinò, alzò la testa e vide sopra di loro degli uccelli indefiniti. Il suo cuore si sfilacciava: lei era sempre la persona per cui valeva la pena commuoversi. Improvvisamente lei abbassò lo sguardo e lo vide fissare il cielo. Gli uccelli si gettarono all’orizzonte perché non c’era più nulla da vedere. Si guardarono per un attimo o forse si specchiarono soltanto nei vecchi e rispettivi occhiali da sole.
Prima di salutarsi, lui le disse: “Conosceremo la nostra felicità”.