Il giudice sul mulo Periodico perenne di linguaggi letterari.

domenica 28 giugno 2009

Non siamo pronti forse? - ultima parte

di Ezechiele Lupo

Fu in quel momento che G***** lo toccò per la prima volta con intenzione: la mano scivolò lentamente con passetti piccoli leggeri e solleticanti sulla coscia di lui. Lui era immobile, fermo sulla sedia di un baretto qualunque su una spiaggia, in un giorno di tempo incerto: lasciò che G***** raggiungesse zone impervie nel suo basso ventre, lasciò che G***** imparasse da sola la via. Di colpo G***** si ritrasse con una risata fragorosa; il suo corpo fremette e la sua testa crollò all’indietro, scostando i lunghi capelli neri e lasciando a disposizione il seno evidente e perfetto. Poi si alzò e andò in bagno. Lui si ritrovò troppo solo. Guardò verso l’acqua e tutto gli parve scuro, passato e poco emozionante. Raggiunse G***** nel bagno ambosesso del baretto. G***** gli prese la mano e sognò per un attimo che quella fosse l’unica cosa che avrebbe voluto: stringergli la mano e sentire l’innamoramento di lui decrescere. Ma non si accontentò: si baciarono in un modo tradizionale per due amanti in un bagno pubblico. I vestiti non erano vestiti e tutto diventò subito molto liquido per entrambi: G***** spinse con cura l’eretta qualità di lui nella parte del proprio corpo più accogliente, e lì, in piedi contro la porta del bagno, provarono un agostano orgasmo. Durò tutto pochi minuti, probabilmente secondi, ma non staremo certo qui a questionare sulle capacità sessuali di lui. G***** tirò su col piede sinistro lo slip del costume e riposizionò il reggipetto. Uscirono entrambi accaldati e con la nausea. Grande sorpresa, eufemisticamente parlando, fu incontrare lei: in piedi rigida e con gli occhi gonfi. Tutto il peso poggiava sul piede sinistro mentre la gamba destra era piegata dietro l’altra, il copricostume leggero aderiva all’umida pelle. Le cadde il telefono dalla mano. Lui la guardò dietro gli occhiali neri prima di voltarsi verso il bagno e vomitare. G***** sgattaiolò di lato e con passo deciso si sedette al tavolo, come un qualsiasi capo di Stato. Lei urlò come si potrebbe gridare per tutti i problemi del mondo e fuggì chissà dove. Lui si sentì preso per la maglietta e sballottato fuori dal bagno; attraverso gli occhiali da sole, un cinquantenne obeso gli sputava in faccia insulti in un dialetto assurdo, di una lingua che conosceva bene. In pochi secondi si trovò ad immaginare sé stesso da vecchio. A volte l’espiazione fa certi scherzi.

Era estate quell’anno in S******* e il litorale al tramonto una buona scusa per passeggiare con i mocassini neri in riva al mare. Lui lavorava da qualche anno per una grande compagnia australiana: i film degli aerei fungevano da valido svago e la voce sempre diversa dell’hostess che lo svegliava, una dolce compagna. Spesso armeggiava con il proprio telefono per cercare di scaricare questa o quella canzone: ma rare volte ci riusciva. Amava provare i ristoranti cinesi di ogni città in cui sostava. Sovente usciva con altri come lui per una birra alla sera: non amava la birra, ma c’è di peggio, no?
E così quell’agosto camminava con i suoi vecchi occhiali da sole, la giaccia nella mano destra, la borsa del laptop nella sinistra, la cravatta nel taschino e la camicia bianca slacciata: il suo addome non aveva risentito del tempo, o almeno non era impresentabile. Il mare riverberava sempre gli stessi colori: rosso, arancione, giallo, ma in fondo era solo luminescenza. In silenzio e timidamente il sole lasciava l’emisfero, e già tirava un’aria fresca. Si fermò un attimo e guardò all’orizzonte; che emozioni poteva suscitare la normale curvatura della terra? Riprese a camminare, ma pochi passi dopo si voltò a causa di una percezione: la percezione della presenza di lei. Ed infatti la vide arrivare con il suo copricostume leggero e con in mano un paio di infradito, la sua andatura talvolta buffa e i capelli portati più lunghi e legati in una coda, una borsa da mare a tracolla e dei vecchi occhiali da sole, per proteggersi dai bassi ed obliqui raggi. Era effettivamente lei che gli veniva incontro. Nessuno dei due ebbe, per quei pochi secondi che li dividevano, il minimo dubbio sulla volontà di vedersi ed abbracciarsi dopo gli anni passati nella dimenticanza. Si salutarono con gioia ed allegrezza e si strinsero forte: il corpo di lei era sempre fresco. Lui tremava un pochino e la gola gli doleva, forse gli si stava per chiudere. Gli occhi gli dolevano, ma ce li aveva bene aperti.
“Allora come stai? Che ci fai qui?” chiese lei sorridendo. Lui ebbe la possibilità di constatare l’esattezza dei suoi denti: se li ricordava uno per uno.
“Sono qui per lavoro: alloggio all’H*****. Sai la laurea e tutto. Insomma lavoro per una compagnia australiana.”
“Ah che bello, no?”
“Oh sì certo. Questo è accaduto: sono contento… Ho studiato per questo. Poi viaggio un sacco, mangio un sacco cinese…” disse giocherellando con il bottone della giacca. Lei si passò un dito sulle labbra e non disse nulla.
“Tu invece che fai? Sei in vacanza?”
“Sì, sono in vacanza, ma non faccio questo nella vita. In realtà non faccio molto. Ho lavorato per due anni in uno studio, poi… boh, non so, ho avuto paura di correre e ho passato un anno senza lavorare. Ho abitato con mia sorella. Poi ho trovato un posto manageriale, però molto tranquillo: mi piace e… insomma. Sono contenta anche io.”
L’ombra dei loro corpi si protendeva verticalmente sulla sabbia e all’altezza della testa si incrociava, si congiungeva. “Viaggi molto quindi?” chiese lei reggendosi su un piede solo.
“Beh sì abbastanza. Però sono anche spesso in ufficio… e…” lei guardava in alto e non sembrava ascoltarlo.
Lui si avvicinò, alzò la testa e vide sopra di loro degli uccelli indefiniti. Il suo cuore si sfilacciava: lei era sempre la persona per cui valeva la pena commuoversi. Improvvisamente lei abbassò lo sguardo e lo vide fissare il cielo. Gli uccelli si gettarono all’orizzonte perché non c’era più nulla da vedere. Si guardarono per un attimo o forse si specchiarono soltanto nei vecchi e rispettivi occhiali da sole.
Prima di salutarsi, lui le disse: “Conosceremo la nostra felicità”.
Fine

venerdì 26 giugno 2009

Non siamo pronti forse? - terza parte

di Ezechiele Lupo

La sortita al baretto aveva avuto l’effetto di ristorare T******, e calmare G*****. Ora G***** vedeva remota l’eventualità di possedere in qualche modo il ragazzo sulla spiaggia: si sorprese persino di averlo solo pensato. L’indissolubilità di quel rapporto sarebbe stato lo scudo contro cui le sue lance di seduzione si sarebbero infrante. Ma le possibilità della storia rimangono sempre valide, prima che il discorso le scremi, scegliendone una sola e seguendo quella fino ad un termine arbitrario, contro il quale ogni lettore dovrà scontrarsi, volente o nolente.
L’aria si fece più opprimente, le nubi coprirono gran parte della volta e, piano piano, cominciò a cadere la pioggia. Lui si mise seduto e guardando dritto davanti a sé, oltre gli occhiali da sole, pensò e disse: “Piove… porca vacca…” In pochi minuti si scatenò un violento acquazzone e molti corsero a ripararsi, teli-mare sulla testa e zaino in spalla, sotto la tettoia del piccolo bar, nel patio coperto. Ben presto i più rapidi presero posto ai tavoli e approfittarono per mangiare qualcosa. C’era un tavolo con quattro sedie all’estrema sinistra della piccola terrazza e lei si precipitò, con i capelli bagnati e sorridendo per la situazione, ad occupare con la borsa e l’asciugamano, due sedie. Lui la vide scattare: le sue gambe si muovevano veloci tra i tavoli e scivolavano come dita lungo una tenda di seta. Appena lui raggiunse il tavolo per sedersi, lei alzò la mano in direzione dell’entrata del baretto come per salutare qualcuno: stava effettivamente salutando T******. Lui e lei furono immediatamente raggiunti da T****** e G*****: “Che fortuna che siete riusciti a trovare un tavolo, noi non siamo stati altrettanto veloci… comunque ci sediamo anche noi?” chiese T******, giunto senza maglietta e con i capelli fradici.
“Certo, perché no… Ciao io sono…” lui disse il suo nome, che risuonò distintamente e grandioso nelle orecchie, nello stomaco e nell’utero di G*****. Ora G***** conosceva il nome del “ragazzo che ama”, e quel ragazzo sarebbe stato suo.
G***** cominciò a parlare del suo lavoro: era una gallerista e pittrice a tempo perso. Tre o quattro anni fa, e chi se lo ricordava?, aveva esposto qualche schizzo, proprio nella città di lui e di lei:
“Sì, non so se avete presente? No? Comunque è poco importante. Per me è un hobby, forse anche meno di una passione?”
“Perché?” chiese la ragazza amata tagliando la piadina al prosciutto crudo.
“Come perché?” ribattè sorridendo G*****, torcendosi le mani sotto il tavolo.
“Ah… no niente… intendo dire: perché è meno di una passione?”
“Non lo so, forse perché non credo di avere il fuoco sacro dell’arte. Voglio dire: mi piace. Infatti il mio lavoro consiste nel vivere con gli artisti, parlare con le gallerie, ma… come dire? Potrei fare questo, ma anche altro… viviamo in un'epoca così frammentaria: scegliamo sempre tutto e mai nulla, insomma...”
Mentre diceva queste cose gesticolava leggiadra usando le proprie sinuosità come naturale accompagnamento alle parole: la musica era il suo corpo. Aveva piena coscienza delle sue mosse, e se T****** era indaffarato a non pensare, G***** studiava meticolosamente le reazioni del “ragazzo che ama” ai suoi continui richiami. Ogni tanto faceva cadere una spallina del costume, lasciando intravedere una porzione soddisfacente di pelle bianca; contraeva la nuda pancia piatta e si rilassava contro lo schienale della sedia, in una posizione di accoglienza, come in attesa di qualcosa che le venisse incontro.
La conversazione scivolò veloce su altri interessantissimi argomenti. Poi smise di piovere. La temperatura non si era per nulla rinfrescata, anzi il temporale aveva lasciato una cappa d’afa molto noiosa. In più il sole era coperto e il mare un po’ mosso. Lui era leggermente irritato per la situazione: non trovava particolarmente piacevole la compagnia, anche se percepiva una sorta di pulsione nei confronti di G*****: non ne conosceva il motivo, ma la fisicità di G***** era una specie di refugium peccatorum. Ad un tratto si volse verso la sua ragazza e le prese la mano: era fresca. Lei lo guardò strabuzzando gli occhi e fece una delle solite facce buffe. Lui sentì come un irrefrenabile benessere e sollievo, qualcosa per cui commuoversi davvero sotto le lenti scure. Alla vista della mano di lui in quella di lei, una stretta forte come anelli di una catena di titanio, G***** capì di non poter resistere all’eccitazione.
In quell’istante iniziò a rotolare una biglia di vetro verso un terrificante baratro: il telefono di lei cominciò a squillare. Lei sospirò, lui lasciò la sua mano, ma solo per accarezzarle la nuca, cercando di scioglierle un nodo tra i capelli.
“Scusa ma devo rispondere…”, prese il cellulare e disse: “Pronto… ok, ora basta… no, ascoltami tu… è tutta colpa mia…”
Sì lui lo sapeva bene. Era tutta colpa sua. Sua era la colpa di aver incontrato un folle, di lei la responsabilità di averlo fatto entrare nel loro contesto, e sempre sua la colpa… beh di quello che aveva fatto. Lui cominciò a pensare che nulla più gli sarebbe davvero importato dopo di lei, che dopo di lei avrebbe disperso la propria tenerezza in milioni di piccole briciole, come schegge infrante di schegge infrante di altre schegge infrante: il suo cuore di sarebbe sfilacciato, lasciando il posto al nulla affettivo.
Ora lei alzava sempre più la voce. T****** e G***** fingevano molto bene di non ascoltare: G***** finse di far capitare per sbaglio la caviglia sottile contro quella di lui. Lui ebbe freddo: la caviglia di G***** era caldissima e liscia. Ora G***** si stava accarezzando la coscia con un movimento ipnotico del corpo. Lui era stanco di ascoltare e dimenticare: “Stai un po’ urlando…” disse all’improvviso alla propria ragazza.
Lei si voltò di scatto, ma oltre gli occhiali da sole di lui non vide nulla: “Hai ragione, mi alzo, vado in spiaggia e ti giuro: sarà l’ultima volta.” Gli posò la mano sulla guancia, lo baciò sulla bocca e si alzò. Si diresse verso la spiaggia con il cellulare all’orecchio e le lacrime negli occhi.
Lui fu tentato di rincorrerla più volte nei minuti che seguirono, ma G***** cominciò a parlargli frastornandolo: dietro gli occhiali da sole vedeva il seno di G***** procedere sempre più verso di lui. Le loro ginocchia si scontravano e si strusciavano. T****** era una figura in lontananza, un commensale assente, un invitato alla performance. Ma ad un tratto disse: “Chi viene a farsi un bagno?” Lui lo guardò alzarsi, vide i suoi addominali palestrati, rise dentro di sé e rifiutò. Avrebbe voluto essere con lei, voleva raggiungerla, abbracciarla, sentire le sue mani sui suoi occhi; ma rimase solo con G*****.
(continua...)

martedì 23 giugno 2009

Non siamo pronti forse? - seconda parte

di Ezechiele Lupo
“Scusami… mmh… come cazzo si dice?” Come cazzo si dice lo voleva pensare ma in realtà lo disse.
Lei rispose subito: “Si dice scusami… siamo connazionali…”
“Ah… per fortuna, cioè mi spiace di averti tamponato.” Disse T****** grattandosi i nerissimi capelli all’altezza della bassa fronte. Era abbronzato ed alto: gli addominali parlavano di giorni di palestra invernale.
“No niente, anche io guardavo… guardavo su.”
“Su?”
“Sì il cielo… boh vabbè. Ciao…” Disse il suo nome.
“Piacere T******.” Il problema ora era, come al solito, uscire dal pantano del da quanto sei qui?, ti piace qui? Il narratore ovvierà omettendo.
Lui aveva inforcato gli occhiali da sole e giaceva nell’aria, cercando, con l’ultimo romanzo di Baltazàr João, di farsi ancora più ombra. Ma era scomodo e questo gli dava un gran fastidio. Ad un tratto piovve, anzi no: era lei che gli strizzava i capelli addosso. Lui uscì dal romanzo, la guardò ridere sotto gli occhiali e disse: “Come fai a stare così tanto in acqua?”
“Boh… è che tu vuoi nuotare a basta. Ti fai la tua nuotata e poi per te è finita lì.”
“Mi devo tenere in forma lo sai…” Lei non disse nulla e si sdraiò sull’asciugamano. Subito lui posò Baltazàr e accostò la spalla alla sua: era fresca. Poi, puntandosi sul gomito, le venne un po’ sopra per baciarle le labbra. Squillò ancora il telefono, e ancora ebbero paura: lei vide la paura spandersi sulla fronte di lui come alito su uno specchio. Lui vide negli occhi di lei le vecchie spaventose indecenze.
G***** vide T****** uscire dall’acqua con passo deciso, ma fece finta di non notarlo: continuò a scarabocchiare il disegno di una rupe rocciosa, che avevano visitato il giorno prima, sdraiata a pancia in giù con il costume slacciato, reggendosi sui gomiti. Quando T****** piombò al suolo con molta stanchezza per la lunga nuotata, G***** provò un certo malessere.
“Ho incontrato due dei nostri… cioè una sola. E’ una ragazza, ma mi ha detto che è qui in vacanza con il suo ragazzo. Mi sono imbattuto in lei mentre nuotavo vicino la riva… guarda mi pare siano là in fondo, li vedi? Vicino a quegli ombrelloni rossi.”
G***** volse la testa nella direzione indicata e lo vide: stava baciando la sua ragazza. Quella doveva essere la ragazza incontrata in acqua, quella era una ragazza amata. Senza parlare riprese a disegnare, guardando ogni tanto il mare. I suoi glutei si contraevano e si rilassavano ritmicamente come meccanici pistoni: si stava forse eccitando disegnando una rupe? T****** intraprese una lotta con il celeberrimo gioco dei bagnati: il sudoku. Dopo poco ne uscì stremato e svogliato.
“Andiamo al baretto? Ci prendiamo un the freddo o qualcosa del genere? Io ho sete.” Disse T****** per lenire le ferite morali. G***** lo guardò negli occhi: voleva dire no, ma disse sì. Alzandosi ricompose il proprio reggiseno e occhieggiò la ragazza amata: era al telefono, mentre lui leggeva un libro. In un tempo piccolo, infinitesimo, il volto occhialuto di lui crollò a destra, in direzione di G*****. G*****, benché sicura di non essere la causa di quello spostamento del punto di vista, constatò con gioia che sì: si stava proprio eccitando.
Non vedeva nulla. Non riusciva a leggere ancora Baltazàr. Lei era al telefono da trenta secondi, ma a lui sembravano sempre gli stessi trenta secondi ripetuti da settimane, mesi persino. Lei alzava la voce, era agitata, continuava a muoversi pur stando seduta con le gambe incrociate: una frenesia angosciosa. Il mare ballottava leggermente ora. Lui le sentiva dire parole nette e pulite: basta ti prego, non chiamarmi più. Poi la conversazione si interruppe, lei si chinò leggermente su di lui: “Ha usato un numero diverso… ti prego…”. Lui si tolse gli occhiali da sole. I loro occhi nocciola afferravano tutto lo spazio che separava le loro bocche: uno spazio pieno di scambievole devozione.
“Non importa davvero, non mi importa. Non penso sia importante, veramente. Noi siamo qui, vogliamo stare qui insieme…” disse lui cancellando per la milionesima volta dalla mente il tradimento di lei.
“Io voglio stare qui: è molto bello.” Disse lei armeggiando con la sabbia dietro la testa di lui.
“E allora: secondo me quello che si fa si può fare e non ci sono alternative o possibilità. Il presente è sempre reale. Siamo qui insieme ed è l’unica cosa che potevamo fare. No? Te l’ho già detta tante volte la mia teoria. Ogni cosa che facciamo, se la facciamo, è perché non esiste alternativa. Sì mi pare che così suoni bene…” rise abbastanza compiaciuto. Rise anche lei e lo abbracciò ancora una volta. Una nuvola coprì il sole mentre lui prendeva gli occhiali: era tutto reale e presente. Era tutto reale e presente.
(continua...)

lunedì 22 giugno 2009

Non siamo pronti forse? - prima parte

di Ezechiele Lupo

Una serie continuata di curve accompagnava la vettura azzurra lungo una discesa dolce dolce verso la costa occidentale.
Prima a destra, poi a sinistra il barcollio generoso della strada declinava dagli altipiani giù verso le spiagge costiere; ogni tanto tra le rocce a sbuffo, l’impervia mediterranea, generosa vegetazione bassa, scorciava la vista un lembo di acqua azzurra, come un pareo senza valore, il cui colore decresce dal blu al bianco, con gradualità. Sopra, il sole delle dieci d’un agosto benaugurante illuminava il cielo scintillante. Dai finestrini aperti entrava un gran rumore: il vento frascheggiava tra il suo copricostume leggero e le sue magliette celesti. Due paia di occhiali da sole rendevano il tutto più sopportabile, sia per lui, che per lei.
Distante qualche centinaia di metri più in basso T****** e G***** stendevano due teli mare sulla sabbia bianca: processo che avveniva in quel momento con cura, sfidando, ancora vestiti, l’afa del golfo di P*******. Con lo sguardo rivolto al mare chiaro e freddo, T****** sedeva in attesa della protezione solare, che lo schermò poco dopo, condotta dalle mani di G*****, intorno alle sue spalle.
Intanto la monovolume parcheggiata sull’ultimo tornante prima del camminamento pietroso, già diventava un forno mobile. Lui e lei scendevano con gli occhiali scuri, mano per mano, lungo il camminamento che lui aveva giudicato meno impervio. Un piede in fallo e una vacanza rovinata. Il mare senza onde pareva una meta luccicante e bellissima, un obiettivo ricco di calma; gli alti alberi frondosi e tropicali appoggiati alla base della costa rocciosa avrebbero assicurato un’ombreggiatura perfetta per le ore post meridiane: le ore dello stordimento corporeo. Ad un tratto il cellulare di lei squillò tra gli sterpi. Si fermarono, lui la guardò come spaventato, lei ricambiò lo sguardo, prese il cellulare e disse “E’ mia madre…”, e infatti non rispose. Lo mise nella borsa da spiaggia e accarezzò con la stessa mano la guancia di lui; poi si avvicinò e lo baciò: “Che palle era mia madre…” ripeté lei sorridendo. Lui la baciò ancora. Vennero superati nel camminamento da tre o quattro tedeschi bianchi e rossi alternati come in una caprese difficilmente digeribile. In quei giorni i loro fisici raggiunsero il massimo splendore: erano giovani bianchi caucasici, abbronzati e un po’ scottati, asciutti e magri (lei con le giuste forme, lui non certo un palestrato), con l’avvenire negli occhi nocciola e qualche concreta ambizione incatenata a concrete paure. Sensibili, quanto basta per vivere in questo tempo senza soffocare, alle sollecitazioni del “mercato delle cose”; rivolti alla ricerca di una genuinità anche un po’ snob, ma senza ipocrisie. Un buon vino al ristorantino economico ed accogliente, una pasta col pomodoro fresco nella casetta affittata per due settimane, qualche dolce al cioccolato/pere, un film scaricato da internet alla sera e guardato sul laptop nel piccolo patio, tra la brezza del dopo cena e frequenti abbracci sotto il lenzuolo bianco, scosso dal fremere dei loro bacini. Un caffè con dei biscotti e una spiaggia ogni mattina.
Mentre lei stendeva il suo asciugamani sulla sabbia, lui era già in dirittura bagnasciuga: poi ricordandosi di avere ancora gli occhiali da sole, tornò indietro. Lei lo guardò dal basso, ed in ginocchio, si tolse il copricostume rivelando un due pezzi bianco e rosso, per nulla volgare. “Andiamo a fare un bagno?” disse lui togliendosi gli occhiali da sole, “Ora?” chiese lei, “Non siamo pronti forse?” e le tese la mano in un gesto come di benedizione. Lei si sollevò tenendo i piedi sull’asciugamano e lo abbracciò: era fresca.
Erano nell’acqua da qualche minuto e lui era già al largo: amava nuotare oltre le boe, quando c’erano. Il riverberò del sole, la trasparenza acquatica dell’acqua mostravano l’immagine del corpo di lei nell’atto di liquefarsi: era solo un’impressione. Guardò a riva verso le loro cose, lo zaino verde di lui, e la sua borsa del mare, “chi me l’ha regalata quella borsa?” pensò per un attimo; poi si voltò a causa di una percezione: la percezione della presenza di lui. Infatti lo vide procedere ad ampie bracciate, inabissarsi sciogliendosi come olio nell’acqua, e ricomparire davanti a lei. “Ciao… posso tirarti giù il costume?”
“No, è tutto trasparente. Vieni qui…”, lo cinse ancora con le braccia intorno alle spalle, prendendosi i gomiti con le mani: era fresca. Lui la prese per la vita, la sollevò facendo aderire i corpi bagnati e cercò di trascinarla al largo.
“No dai, stiamo qui. Un po’ così…” chiese lei. Forse era possibile farlo.
“Oh… certo. Posso cercare di salvarti la vita tipo bagnino?”
“No. Stai fermo qui.”
Si separarono dopo qualche minuto e lui tornò a sdraiarsi sul telo. Lei si distese tra il piattume del mare, vicino alla costa. Poi T****** la colpì ad un braccio mentre nuotava uno scomposto crawl. Lei si sommerse per un attimo e riemergendo si guardarono negli occhi.
(continua...)

venerdì 12 giugno 2009

Una beffa

di Ezechiele Lupo

Voce del mattino,
voce di mondo marziano,

perso nel mattino.

Tu in alto, così in alto
che sembri sola.
L’ombra della dimenticanza
ha i capelli biondi.

Un bacio tra un cassetto
ed un mattino;
Ignara di me che, persa,
ti abbandoni al futuro.

Piccola cosa è la supponenza

Ti resto sempre avvinghiato,
come un gatto al suo pagliericcio
Sempre meno, sempre meno e meno.

Sbiadisce l’infuso di me in te.