Il giudice sul mulo Periodico perenne di linguaggi letterari.

domenica 29 luglio 2007

Apprezza meglio un nettare la più crudele arsura (seconda parte)

di Norberto Giffuri

Ma una speranza c'era. Si chiamava orizzonte. Lontano, sopra il dorso ocra di un colle, si attorcigliavano nubi a spire, si annunciava tempesta. Trascorsero minuti infiniti. L'ombra avanzava lungo la valle, veniva da sud, lesta, silenziosa, incontro a me. Accelerai pregustando l'abbraccio, la frescura del suo corpo dentro la mia pelle. E l'abbraccio arrivò. Il sole venne inghiottito da un budello di nembi. Il sollievo era immenso, inebriante. L'ombra mi cinse i fianchi, mi coccolò e mi carezzò il viso con il suo respiro umido. Le prime gocce scesero come una benedizione. Lungo il solco teso della mia bocca, nella mia gola ardente. Folate di vento sostenevano il mio cammino, ora più sicuro. Infine un colle, una curva, le prime case, dei volti umani: contadini che rientravano dalla campagna sotto la minaccia dei primi lampi. Poi in fondo ad una stradina, stretta tra una chiesa e un muretto a secco, sotto un perticato incorniciato dall'edera, una taverna.
¡Senorita, un poquito de agua por favor!

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liberamente ispirato da un articolo di Laurie Lee, Sotto il solleone Spagnolo, in Questa meravigliosa Europa, Selezione del Reader's Digest, 1976, Milano.


venerdì 20 luglio 2007

Apprezza meglio un nettare la più crudele arsura (prima parte)

di Norberto Giffuri

Camminavo oramai tra tre ore. La strada tagliava la valle, una lunga lama bianca piantata tra le scapole della pianura del Duero. Il calore era insopportabile. Il cielo diafano s'era fatto sole tutto: impossibile dire da dove i raggi venissero a proferire la loro condanna. La luce opaca riverberava sulla pelle butterata dei colli lontani, tra le braccia tese delle spighe di grano tra i quali si insinuavano le teste rosse dei papaveri, lungo il corpo secco degli alberi scuri e contorti. Avanzavo nella morte apparente del mezzogiorno. Mi accompagnava soltanto il frinire delle cicale, un ronzio intenso, costante, infinito. L'impressione era quella di trovarsi accanto sempre lo stesso ciuffo d'erba gialla, la stessa traccia di serpente disegnata nella polvere rossa della strada. Polvere rossa che si attaccava ai capelli, correva lungo la schiena, si posava tra le dita dei piedi esausti. Vidi gocce d'acqua dondolare mollemente sulla punta degli steli d'erba, dopo un acquazzone primaverile. La campagna verde della mia terra dove i salici sfiorano con dita gracili il corpo sinuoso dei ruscelli. Vidi passeri sguazzare nelle pozze d'acqua bassa. Mani chiuse a ricevere il fresco dono cristallino di polle alpine. Nel mio delirio avanzavo e avanzavo, trascinando i piedi nella terra riarsa.

Scrisse Emily Dickinson:
Più dolce appare il successo
a chi mai lo conobbe
apprezza meglio un nettare
la più crudele arsura [...]

Solo nella più completa disidratazione conobbi la sete.

(continua)


lunedì 2 luglio 2007

Le isole fortunate

di Asincheraglia

N.B. Si racconta il processo creativo del poeta Fernando Pessoa

Pensò con molta lentezza e senza attenzione.
Una raccolta superficialità coagulava i pensieri.
Erano le nuvole bianche che macchiavano il cielo, disegnando sbuffi e curve irripetibili.
Poi, gli occhi incrociarono l’acqua infinita e si chiusero con il ritmo blando dei flutti.
Il sonno era svanito nella passeggiata, e nell’orizzonte che rimaneva lontano, come la frase inespressa del brusio delle onde.
Come un salto, come una discesa improvvisa, il clima che abitava il petto, i polmoni, si precipitò in un respiro corto. Così, un sospiro accordò il ritmo del cuore con il sapore di salsedine.
Affilando lo sguardo, rifletteva e smetteva di farlo, schiudendo e chiudendo la penna in un gesto ipnotizzante.
Forse, si sentì perfino stupido. Etimologicamente stupido.
Certamente intuì.
Seduto sui ciottoli, tolse distrattamente il cappello che, appena poggiato, si liberò mosso dal vento.
Rimase incastrato fra un grosso masso grigio e sassi freschi e umidi quasi neri. L’acqua si spezzava sugli scogli in mille trini che, volando sul cappello, lo bagnarono a gocce.
Fernando osservò curioso, sorridendo.
In quell’istante, gli occhi si fecero per un attimo ingenui, sentendo una nota senza suono.
Tentò di ascoltare, invano.
Solo dopo aver verificato il sottofondo di una voce, udibile senza rumore nell’incoscienza del silenzio e nella finzione delle parole, dischiuse definitivamente la penna. Colse un foglio paglierino come neve sporca. Respirò del tabacco leggero, denso, creativo nelle figure fumose.
E scrisse.