Il giudice sul mulo Periodico perenne di linguaggi letterari.

martedì 26 febbraio 2008

Senza titolo

di Ezechiele Lupo

Oggi la borsa è crollata.
Sei l'investimento sul mio futuro
Tanto che forse ti ho investita
Ti ho svestita tante volte
che sembravi me
o simile a me.
Ti vendo per non perdere di più
Ti ho pagata a venti
sei scesa a due.
Una bella fregatura, non trovi?

venerdì 22 febbraio 2008

Tredici aprile

di Norberto Giffuri

Una luce fioca colava a perpendicolo dal cielo plumbeo fino al suo volto smorto. Era un giornata d’aprile, tenacemente fredda, vagamente scialba. Come se una coltre di apatia avesse fatto velo sulle cose del mondo. Come se le statue della piazza fossero più immobili del solito. Come se l’inverno non volesse declinare e si concedesse un ultimo slancio.

Camminava svelto nella piazza vuota verso un edificio grigio, squadrato, tozzo. Un mostro dell’edilizia anni settanta spuntato in pochi mesi tra le vecchie case di mattoni dai balconi di legno. C’erano stati dissensi quando fu costruito ma nessuna protesta formale. Trentanni dopo era stato oramai digerito dal gusto estetico dei cittadini. Un graduale annerimento all’altezza della prima fila di finestre con inferriata gli aveva conferito un aspetto industrial che gli era valso addirittura la stima di taluni omiciattoli amanti dei paesaggi post-nucleari da film con protagonista l’ultimo uomo sulla Terra.

Camminava accompagnato dalle sue occhiaie e dalle sue paturnie, mani in tasca. Davanti al portone del tetro edificio sostava un capannello di persone. Al suo arrivo troncarono la conversazione avviata e gli sorrisero. Una donna anziana, infagottata in una scialle bianco che pareva quasi una sposa decrepita, gli si accostò e lo salutò ricordandogli con atteggiamento materno di votare bene – proprio così disse.

Lui ricambiò il sorriso, un poco interdetto, non disse nulla e si infilò nell’atrio. La grande stanza era tagliata a metà dall’ombra proiettata da una balconata interna che correva lungo il lato destro della sala. Non c’erano indicazioni, nessun cartello. Si avvicinò all’imbocco del corridoio principale che si apriva nella parete opposta all’ingresso. Esitò qualche istante, indeciso sull’opportunità di proseguire per il corridoio. D’un tratto un rumore di passi ruppe il silenzio. Da una porticina che non aveva notato, proprio sotto la balconata, nella zona meno illuminata dell’atrio, usciva una bizzarra congrega di persone. C’era un panciuto ometto elegante e raffinato che portava un fiore bianco all’occhiello, uno spilungone con una giacchetta quadrettata e una cravatta rossa, una donna piuttosto giovane e procace che sfoggiava un vestito verde e un signore basso dall’espressione tremendamente seria accompagnato da un giovane di bell’aspetto che lo reggeva sottobraccio.
Si avvicinarono e lo salutarono calorosamente. L’ometto panciuto gli poggiò una mano sulla spalla e gli disse che era in gran giorno, che la sua scelta sarebbe stata importante per il paese e che il futuro si prospettava roseo. La donna si accostò, sorrise, gli sussurrò all’orecchio di avere fiducia in lei e che sarebbe stata la soluzione ideale per i tanti problemi dello stato. Fu poi il turno dello spilungone che gli si parò davanti e con un tono sommesso gli ricordò i suoi meriti passati. Infine il giovane, con una parlantina frizzante, cercò di convincerlo dell’opportunità di un cambiamento radicale. Il signore austero si limitò a fissarlo con uno sguardo che pareva di rimprovero.
Poi prese nuovamente la parola l’ometto grasso e gli disse di seguirlo. Il gruppetto lo scortò attraverso il corridoio fino ad uno stanzino dove una cabina era stata collocata nel centro. Di nuovo silenzio. Con un cenno del capo lo spilungone lo invitò ad entrare porgendogli nel frattempo una matita e una scheda.

Entrò ed aprì la scheda. C’erano cinque simboli e cinque nomi accanto. L’indecisione lo stava consumando. Sudato ed impacciato decise di non apporre nessun segno. Richiuse la scheda con le mani tremanti. Uscii dalla cabina. Il gruppetto era scomparso. Uno scatolone munito di fessura era stato posizionato sul lato della stanza. Ci infilò la scheda e a passo veloce imboccò il corridoio, poi l’atrio. La signora sul portone lo salutò nuovamente, con estrema cordialità.

Quattro giorni dopo gli capitò di ripassare dalla piazza. Era sera, i lampioni illuminavano i suoi passi incerti. Passando davanti ad una locanda sentì all’interno un gran trambusto, risa, schiamazzi. Incuriosito decise di entrare. Si sarebbe concesso un bicchiere di rosso, di quello buono, se lo meritava, dopo una giornata di lavoro. Appena varcata la soglia li vide. L’ometto panciuto, lo spilungone, la donna procace, il giovane e il vecchio compunto. Il baccano proveniva dal loro tavolo. Il vecchio non era più tanto serio: dondolava sulla sedia e alzava un calice verso il soffitto. La bella donna versava spumante mentre il giovane la abbracciava baciandole il collo. L’ometto grasso era stravaccato in un angolo, rubizzo e gaio. Lo spilungone tagliava una bistecca di carne cotta al sangue con occhi carichi di appetito.

Lì per lì gli parve doveroso porgere i suoi saluti. Si avvicinò, si tolse il cappello e rigirandoselo tra le mani augurò al gruppetto una buona serata. Nessuno lo notò, continuarono a gozzovigliare. Ripeté il saluto, questa volta sporgendosi verso il tavolo. Il giovane allora lasciò la donna, lo spilungone smise di masticare e alzò lo sguardo, l’ometto girò la testa dall’altra parte e il signore austero lo fulminò con uno sguardo truce.

Dopo qualche secondo di imbarazzo, decise di ritirarsi. Due passi indietro, una rotazione e rapido infilò la porta. Rimise il cappello e sollevò il bavero della giacca mentre le prime gocce di pioggia bagnavano la strada.

sabato 16 febbraio 2008

Caducità

di Liège Bastogne

dio (o chi per lui) non mi ha creato
per sentimenti fuori il misurato
mai felice, semmai allegro
né infelice, al massimo triste

amore **
salute ***
lavoro **
fortuna ***

non lasciano in me segni indelebili
quanto dovrebbero
i movimenti astrali
di solitudine eterna

così, tra questa
immensità s’annega il pensier mio
e il naufragar m’è indifferente
in questa labile placenta di superficialità.

martedì 12 febbraio 2008

C'è Omeopatia tra di noi - ultima parte

di Nepomuceno Sadda

Vi chiederete: come hai risolto con la tua ragazza? Magari non ve lo chiedete affatto ma io ve lo dico lo stesso.
Pochi giorni dopo il litigio di cui sopra mi capita di trovarmi nella sua camera da letto, solo. Lei era andata a far compere lasciandomi a tu per tu con il suo pc posseduto da tutti i virus, malware e spyware catalogati nel database della Norton e con l’ordine tassativo di rimetterlo in salute perché doveva continuare la tesi. Mentre operavo sul moribondo l’occhio mi è, ahimé, cascato sul comodino dove poggiavano spaurite delle piccole fialette e una bottiglia di vetro.
Lo so che state pensando che sono davvero un bastardo. Avete presente quel prurito sulla punta delle dita? Quel strano formicolio al basso ventre? Non ho resistito alla tentazione, ho peccato, Padre. Sono corso in bagno con bottiglie e bottigliette, le ho svuotate nel lavandino e riempite nuovamente con acqua, pura cristallina acqua degli acquedotti brianzoli. Poi ho allungato le magiche essenze con un filo di brandy che ho rimediato in soggiorno…giusto per non lasciare nulla al caso. Infine ho riposizionato tutto sul comodino, con certosina cura, accompagnando l’operazione con un ghigno sardonico.

Sono passati due mesi. La mia ragazza sostiene di star meglio grazie alla cura omeopatica e non capisce perché ogni volta che lo dice io soffoco una risata e poi mostro uno strano contegno.
Questa storia è la dimostrazione della miracolosa efficacia dell’effetto placebo. Per quanto riguarda i problemi di fegato patiti dalla mia ragazza ritengo fossero diretta conseguenza di uno stress generato dal fatto di stare insieme a me. Una cura efficace, anzi risolutiva, ci sarebbe ma ho scelto di tacere in proposito.

C’è una morale in tutto questo? Sì. Se proprio volete comprare delle medicamentose fialette d’acqua a 10 euro rivolgetevi al sottoscritto. Ho un nuovo lavoro. Sono un omeopata.
(fine)

domenica 10 febbraio 2008

C'è Omeopatia tra di noi - parte terza

di Nepomuceno Sadda

Per quale astruso motivo un fiore a mollo dovrebbe trasformare l’acqua in farmaco? Perché, secondo Bach, grazie all’irraggiamento solare il fiore rilascerebbe la sua energia e l’acqua – essendo provvista di memoria- la immagazzinerebbe.

Memoria dell’acqua?
Chissà quante cose avrà da raccontarci, quante belle storie, lei che è stata sotto i ponti, tra le foreste equatoriali e nelle docce delle soubrette.

“Ehi, acqua delle fogne di Calcutta, che mi dici di bello?”
“Ma guarda….la solita merda.”

Vi racconto una storia. Nel 1988 la prestigiosa rivista Nature pubblicò uno studio del medico ed immunologo francese Jacques Benveniste il quale dichiarava di avere dimostrato sperimentalmente che l’acqua possedeva una memoria delle sostanze con le quali aveva reagito. Il giornale inviò degli osservatori e dopo un’analisi dei dati di laboratorio tutti i risultati pubblicati furono smentiti. Si scoprì anche che alcuni dei firmatari dello studio di Benveniste lavoravano nelle aziende produttrici di rimedi omeopatici.
Strano, no?

Attualmente non esiste nessuno studio riconosciuto dalla comunità scientifica internazionale capace di dimostrare che l'omeopatia presenti una seppur minima efficacia curativa per una qualsiasi malattia.
Scusate se sbotto ma dico…non viviamo l’età della scienza? Non sono forse la fisica e la chimica ad avere rivoluzionato le nostre esistenze?
Togliete Dio dal medioevo. Capireste qualcosa di arte, storia, politica? Non credo. Togliete Dio da Novecento. Funziona tutto, allo stesso modo. Togliete invece la tecnologia, il pensiero scientifico. Non si comprenderebbe nulla. E dunque mi domando: perché nell’era in cui la scienza è forse l’unica dispensatrice di certezze ci affidiamo a metodi di cura dal sapore tanto medievale? (Dio centra poco col discorso ma noi atei non facciamo altro che parlare di lui).

Eppure l’omeopatia funziona. Spilla soldi alla gente, molti soldi. Quella dell’omeopata è, in definitiva, una professione consigliabile: remunerativa e poco rischiosa. Non fai altro che vendere acqua ai tuoi pazienti, ed è poco probabile che assumendone quattro gocce al giorno possa provocare effetti deleteri. Inoltre sono escluse dalla tua giurisdizione taumaturgica le malattie più gravi. Ti si presenta un appestato? Non farai altro che indirizzarlo verso i canali della medicina canonica, quella che si fregia del blasone di scienza e che discende da Ippocrate fino al Doctor House.

(continua)

venerdì 8 febbraio 2008

C'è Omeopatia tra di noi - parte seconda

di Nepomuceno Sadda

Ma insomma cerchiamo di chiarire questo principio di similitudine del farmaco. Prendiamo una situazione tipo: io che bevo due litri di birra rossa doppio malto e tornato nella mia cameretta mi schianto nel letto addormentandomi con la stanza che gira – e vi assicuro che non dormo su una giostra -. Il giorno seguente sperimento un mal di testa biblico, pianto e stridor di denti.
Ipotizziamo che io sia Edward Bach: come rimedio alle emicranie di un mio paziente mi sentirò autorizzato a suggerire una soluzione di acqua e di birra?
Davvero una genialata.

Dopo aver passato la serata a litigare prima in auto, poi al pub, poi ancora in auto e poi davanti al cancello di casa mia ero tanto desideroso di annientare con l’evidenza scientifica le affermazioni della mia ragazza che ho passato la giornata seguente a documentarmi sull’omeopatia. Ok, lo ammetto, sono un coltivatore di sentimenti di rivalsa. Li considero come il cacio sui maccaroni: danno sapore al rapporto di coppia.

Immaginatemi seduto davanti al mio pc, dopo pranzo, col un Negroni da navigazione pronto accanto al mouse. Spulcio la babele internet e vengo a conoscenza dei meccanismi di preparazione delle essenze ai fiori di Bach.

Riassumo brevemente. Intanto è necessario che i fiori vengano colti in una giornata calda e soleggiata, notate bene, senza toccarli col le mani. Quindi munitevi di tenaglie, di un braccio meccanico robotizzato oppure usate la bocca: come preferite. I petali devono essere lasciati macerare per 5/6 ore in un contenitore di vetro contenente acqua purissima, esposti al sole. In questo modo trasferiranno la loro vibrazione caratteristica all’acqua. La famosa vibrazione caratteristica dei fiori! Come avevo fatto a non pensarci prima? Sarà quella che li fa ondeggiare nelle giornate di vento. Terminata questa fase si filtra l’acqua e si allunga con una dose si cognac, necessaria per la conservazione. Il composto così ottenuto prende il nome di tintura madre dei Fiori di Bach. In commercio si trovano boccette con la tintura madre da 7,5ml, 10ml o 20ml. A partire da queste, con una ulteriore diluizione, si otterrà la medicina da assumere quattro volte al dì, quattro gocce per volta.

Apro una parentesi: una di queste tinture si chiama Rock Water ed è semplicemente ottenuta raccogliendo l’acqua zampillante da una fonte di montagna e lasciandola irraggiare per quattro ore dal sole all’interno di un recipiente. Questa essenza serve per curare chi si autoreprime e finge rigidità morale per essere d'esempio. Infatti i pastori modello nonno di Heidi che bevono acqua di fonte ogni santo giorno sono notoriamente conosciuti per la loro libertà di costumi e lassismo morale. Oppure vale il contrario? Proprio perché intolleranti tout court Bach ha pensato che la rock water li avrebbe guariti dalla loro chiusura mentale?
Con questo ultimo paragrafo mi sono inimicato una parte della popolazione europea, ma procediamo.

(continua)

mercoledì 6 febbraio 2008

C'è Omeopatia fra di noi - parte prima

di Nepomuceno Sadda

Io il Galles lo immagino un po’ come una Toscana shiftata di qualche migliaio di km verso nord: stesso paesaggio collinare, sfumature di verde e di bruno che in armonia disegnano scacchiere irregolari sui versanti perticati e piccoli villaggi che di tanto in tanto sbucano nel verzicare. Ecco, il Galles per me è una specie di Toscana: solo con più inglesi, più nebbia e più birra. Sono vittima del germe del luogo comune. Devo averlo preso guardando la tv la domenica pomeriggio.

Ma ora non divaghiamo. Dicevo, il Galles, anno 1928. Un signore sulla quarantina, vestito di tutto tweed e con stivaletti da gran borghese, sta passeggiando allegramente nei luoghi della sua infanzia. D’un tratto decide di sostare nei pressi di un torrente che taglia dolcemente la valle col suo corpo lucido. Accanto a sé germogliano i doni della primavera: splendidi mimoli gialli che appoggiano il loro fragile stelo ai cespugli di erba alta che crescono lungo il ciglione.
Una persona qualunque avrebbe forse contemplato i fiori. Magari li avrebbe colti per la donna amata. O per l’uomo amato…viva la diversità sessuale! Ma lui no, lui è un medico più o meno rispettato e si chiama Edward Bach. Si è laureato all’University College di Londra, ha sperimentato con successo un nuovo tipo di vaccino, ha conosciuto Samuel Hahnemann, il medico tedesco fondatore dell'omeopatia, e ha studiato le sue affascinanti teorie. Nella sua testa balena una intuizione: perché non associare fiori e pazienti? Il mimolo appare ritroso, spaurito, quasi voglia celarsi dietro la sua delicata corona gialla: perché non ricavare un’essenza da questo fiore per curare persone affette dal timore per le cose del mondo?

Bach credeva nel principio di similitudine del farmaco, l’assioma di base della omeopatia: il rimedio appropriato per una determinata malattia è dato da quella sostanza che, in una persona sana, induce sintomi simili a quelli osservati nella malata. La sostanza viene somministrata al malato in una quantità fortemente diluita, definita dagli omeopati potenza. Diluizioni maggiori della stessa sostanza non causano una riduzione dell'effetto farmacologico bensì un suo rafforzamento.

Bach credeva altresì nella possibilità di individuare caratteristiche psicologiche comuni nelle persone che avevano bisogno del medesimo vaccino. Aveva così catalogato sette tipi psicologici, sette profili umani differenti. Decise di assegnare ad ognuna di queste categorie una cura basata su uno specifico fiore, o più precisamente su un’essenza ricavata con l’infusione.
Ogni fiore avrebbe eliminato il disturbo psicologico responsabile di un certo malessere fisico.

“Non è un’idea geniale?”
Con questa frase, circa due mesi fa, la mia ragazza concluse il resoconto della giornata appena trascorsa. Poche ore prima era stata visitata da un omeopata della bassa Brianza che le aveva venduto alla modica cifra di 70 euro delle essenze per curare le sue difficoltà digestive.

Ora…come dovevo comportarmi? Dovevo annuire fingendo compiacimento e contemporaneamente grattarmi il mento per sottolineare il mio interesse? Dovevo liquidare la cosa con un “Se questo ti aiuterà a risolvere i tuoi problemi di salute, ben venga.”
Certo, per il quieto vivere sarebbe stato consigliabile scegliere una di queste due soluzioni.

“Mi pare una gran stronzata.” Dissi.
E giù a litigare.
(continua)

sabato 2 febbraio 2008

Vivere in una casa di vetro

di Ezechiele Lupo

Vivere in una casa di vetro
Lontano e ben visibile
Una musica d’uscita e un vade retro
Mentre riparo un vinile

Il vinile che m’hai regalato
Si è crepato
Ora è attutito, disarticolato
Povero me così visibile

Mi faccio una doccia
Mi bagno la faccia

Vivere un una casa vetro
Andare d’accordo e non accorgersene

Non conosco la mia casa di vetro
E sono capace di tutto