Il giudice sul mulo Periodico perenne di linguaggi letterari.

sabato 31 gennaio 2009

Botta e risposta tra Norberto Giffuri e Massimo Coppola: Andarsene si può? Forse si deve?

C­aro signor Coppola,

Io avevo vent'anni. Poi mi sono distratto ed eccomi adagiato nella maturità più dolente. Ripeness is all? Può darsi, ma nel mio caso il giaciglio della consapevolezza è trapuntato con cocci di bottiglia. Capirà signor Coppola che ho scelto il periodo più nefasto degli ultimi cento anni per diventar uomo adulto e il luogo forse meno opportuno: gli anni della crisi della finanza creativa e questa Italia tramortita da una classe politica da circo Togni.
Mi rivolgo a Lei, dottore, perché nei suoi programmi televisivi ha più volte dato prova di grande sensibilità. Apprezzo il suo lucido sguardo sulle cose del mondo e il suo modo di fare televisione. Apprezzo la verbosità dei suoi interventi, l'acutezza delle sue osservazioni. Apprezzo i suoi tempi televisivi, differenti da quelli del palinsesto canonico, più dilatati e intensi. Apprezzo il suo bisogno di conoscere e di far conoscere.
Per questo mi permetto di scriverLe e mi perdoni se queste mie parole giungono a turbarLe un periodo di quiete o a corroborare un malessere.
Le vorrei raccontare un episodio. Mi trovavo ieri sera a smaltire una scialba giornata di lavoro in uno di quei templi milanesi dell'aperitivo nei quali i fedeli venerano il dio Mojito (credo sia un culto atzeco o qualcosa del genere). Tra una chiacchierata e una bevuta intravedo nella folla un volto che da anni avevo perduto. Era Chiara, sulla quale non mi dilungo: forse l'ho amata ma sono cose di altri tempi. La saluto, lei mi sorride e mi racconta della sua vita. E d'un tratto mi dice che se ne andrà in Australia, a febbraio, a raccogliere la frutta e poi chissà. Mi confida che non ha più la forza di lottare per il nostro Belpaese, che oramai è convinta che sia meglio gettar l'ancora, salpare e approdare in porti più fecondi, piuttosto che rimanere a dissiparsi in questa nazione senza idee e senza stimoli.
Tornando a casa dopo l'aperitivo mi sentivo turbato più per le parole che per il fortuito e fortunoso incontro. E se Chiara avesse ragione?
Insomma, le chiedo: Lei se la sentirebbe di elogiare la fuga?
Finora ho sopportato gli scorni (ebbene sì, vergogna) dell'essere italiano in Italia nel Ventunesimo Secolo...ma il fardello si fa sempre più pesante.
Parafrasando liberamente Hemingway: l'Italia è un buon posto e vale la pena battersi per essa?

Con stima,

Norberto Giffuri


* * *


Ah caro Norberto,

lei corrobora un malessere, corrobora – con quel nome da esule poi! Il dilemma tra restare per cambiare le cose o andare dove (forse) le nostre (presunte) qualità siano più apprezzate mi ha accompagnato fin dall’inizio della mia attività lavorativa – praticamente coincisa con la “discesa in campo” di Berlusconi, caso volle. In quasi quindici anni numerose sono state le discussioni con gli amici che se ne erano andati; chi economista a Londra, chi curatore a Berlino, chi drogato semplice nell’Atlante marocchino. Io ho sempre difeso la mia scelta di restare, per cambiare le cose senza svendersi, per cercare un ricambio generazionale indipendente. Ma il fallimento è stato totale – ce la si è messa tutta ma i luoghi di cultura di massa sono rimasti blindati per la nostra generazione. L’inerzia della classe politica (pro o contro, tutti uguali da questo punto di vista), lo sfascio totale e irreversibile della cultura pop e non-pop (e l’offesa di un Marzullo responsabile dei programmi su libri, cinema e teatro su Raiuno continua sempre a sembrarmi degna di una rivoluzione) e insomma l’assenza fisica di uno spazio da occupare mi hanno fatto cambiare idea. Amaramente, avevano ragione quelli che se ne erano andati e faremmo bene ad andarcene pure noi – non saprei se proprio a raccogliere la frutta in Australia, ma andarsene si può, oggi, senza sensi di colpa.

Massimo Coppola


* * *


Bio e info


Massimo Coppola, (6 giugno 1972)

E’ giornalista, laureato in filosofia, conduttore e autore televisivo, regista documentarista, nonché, dal 2004, editore. Dirige ISBN Edizioni, casa editrice del gruppo Il Saggiatore. Tra gli autori contemporanei pubblicati da Coppola ci sono: David Ohle, Tom McCarthy, Feridun Zaimoglu, ma anche Luciano Bianciardi e Stanley Kubrik. ISBN ha riscosso un discreto successo con il saggio I Simpson e la filosofia di William Irwin, Mark T. Conrad, Aeon J. Skoble, del 2005. Nel 2008 esce il secondo volume de l’Antimeridiano
che completa, con il primo volume del 2005, l’opera omnia di Luciano Bianciardi.
Massimo Coppola cura una rubrica di lettere su “Rolling Stone”: è da lì che ha risposto a Norberto Giffuri.

sabato 24 gennaio 2009

Vincenzo Latronico - Ginnastica e rivoluzione

di R. Castoro


Che sarà anche banale questo Ginnastica e Rivoluzione di Vincenzo Latronico, però è di una banalità che ci piace. Intendiamoci: i misteri ritmati che legano la mente di uno scrittore, i suoi personaggi, l’intreccio, l’esordiente di 24 anni non li ha capiti e si legge chiaramente; ma questa è roba da autori consumati o da geni. Invece Vincenzo, che se vi capita di crogiolarvi per i chiostri dell’università statale di Milano magari lo incrociate Manifesto in tasca e Luky Strike in bocca, Vincenzo, dicevamo, ha solo tanta voglia di scrivere a proposito dell’inutilità della sua generazione. E lo fa con una ironia giusta – va bene, a volte fuori bersaglio – e con un pessimismo circostanziato. Anno 2000. Un gruppuscolo di ventenni autonomi – secondo il gergo di questura e mass media che poi, mimetizzato, è lo stesso degli autonomi – vive a Parigi, fra manifestazioni e controinformazione, feste, problemi e amore che forse non è amore (o non-amore che forse è amore, per usare ancora un codice calzante, quello situazionista). I giorni di Genova 2001, nell’immaginario e nelle vite dei ragazzi, avranno un impatto dirompente. Dunque, questa banalità ci piace. Se Giordano e i suoi numeri hanno spolverato ovvietà diluite e generalizzate, Latronico e i suoi ginnasti focalizzano l’attenzione su un tema specifico. A volte, indovinando i concetti. La politica, in sostanza, si macchia di quotidianità e un disagio apparentemente bisognoso di una palingenesi viene declinato in maniera intima. C’è chi crede che il libro sia una cosa che debba "far emergere": in tal senso Latronico è bravo, pur nelle lacune, a restituire un’età molto confusa ma meditata, inquietantemente consapevole dei suoi limiti. Se nel ’68 non restavano nient’altro che le illusioni, oggi non sopravvivono neppure quelle.


Ma è così che facciamo le cose, tutti noi, ci crediamo troppo poco per sacrificarci davvero e allora ci limitiamo a quella chiave molto minore del sacrificio che è la scontentezza, la lamentela, la protesta.


La storia procede con eventi che odorano molto di escamotage. Del romanzo, resta un clima tutto sommato sincero. E, forse, non è poco.


Vincenzo Latronico, Ginnastica e rivoluzione, Bompiani, Milano, 2008, p. 308, euro 16,50.

lunedì 19 gennaio 2009

Ti rinfresco la memoria - ultima parte

di Ezechiele Lupo
Non si fermarono e giunsero a casa col sottofondo della radio che Luca aveva acceso tanto per non farsi vincere dal desiderio di parlare.
Appena spento il motore Paola usci dall’auto sbattendo la portiera. Luca abbassò lo sguardo e scosse la testa: era pieno di brividi, forse aveva la febbre. Tolse il frontalino dall’autoradio e lo ripose nel cassetto del cruscotto. Poi aprì la portiera, uscì e si trovò di fronte lei che gli sorrideva un po’ colpevole: gli prese la nuca e lo baciò. Lui la guardò come si guarda dietro qualcosa in primo piano, mentre lei gli chiedeva: “Che c’è? Che hai?”
“Niente. Perché? Forse non sto tanto bene.” Rispose lui. “Oh poverino.” disse Paola.
Raggiunto il piano, dopo sorrisi scambiati in silenzio in ascensore, Luca aprì la porta, si tolse il cappotto di lana e si sdraiò sul divano con i piedi penzoloni; prese il telecomando e accese la tv.
Paola andò in cucina e dopo un minuto tornò con un sacchetto di patatine al formaggio ed una birra.
“Ti ho portato un aperitivo, Lu: dividiamoci birra e patatine per sancire la pace.”
Lui la guardò sulla soglia della cucina che comunicava con il salotto, le sorrise, ma già pensava ad altro. Si voltò a guardare la tv.
Paola si sedette in un angolo del divano e cominciò ad accarezzargli la testa; poi gli baciò con piccoli baci socchiusi tutta la fronte, scendendo fino alle guance. Lui le prese il viso con la mano sinistra e la baciò sulle piccole labbra. Lei gli si concesse volentieri sul divano.
Erano sotto una coperta di pile mezzi nudi che vedevano un quiz preserale. Lui ogni tanto stringeva la mano di lei sotto la coperta, lei lo baciava sulla guancia. Nessuno dei due pareva particolarmente attento alle domande in televisione, ma tra di loro non parlavano.
Durante la cena continuarono a guardare la tv, le notizie al telegiornale, un programma satirico. Mentre Paola sparecchiava Luca si accese una sigaretta e, accostandosi alla finestra, guardò fuori: un quartiere silenzioso il loro, con tanti palazzi e poco verde, prettamente residenziale, ma tutto sommato ben vivibile. Ora la neve sembrava arancione e tutto risplendeva con quiete e tristezza.
Paola gli si avvicinò e gli disse: “Che c’è? Non parli più.”
“No, niente: pensavo ancora…” lei lo fermò subito: “Luca davvero, basta lo sai benissimo che quel camper non ce lo possiamo permettere.”
“Paola hai ragione; ma io sono sicuro che ci deve essere un modo. Sono convinto che anche una coppia neotrentenne nella capitale del facoltoso nord può permettersi un cristo di camper, pagandolo a rate.” Dichiarò lui, alzando un po’ la voce, guardandola fissa negli occhi e sperando di nascondere tutti i dubbi in quei concetti semplici e precisi. Paola distolse lo sguardo e si appoggiò al lavello incrociando le braccia: sembrava pensare a qualcosa, tuttavia invero prendeva solo tempo, per fargli credere di non avere già la risposta.
“Luca, proprio una coppia di neotrentenni, come dici tu, nella capitale del nord, non può permettersi un camper da 45000 euro.”
“Ma tu non capisci: il risparmio futuro? Non lo consideri? Questo è un investimento, Paola!”
Lei andò a sedersi sul divano: guardava il pavimento come se lì potesse trovare qualcosa di più interessante del proprio ragazzo. Allora Luca si affrettò a sedersi vicino a lei e le prese le mani:
“Sono sicuro che me lo rinnovano il contratto: ormai è un anno che sono là, non gli conviene mandarmi via. – lei lo guardò come per dire sai benissimo che è esattamente il contrario – Anzi sono sicuro che mi proporranno qualcosa di meglio. Sì davvero, Paola, veramente non volevo dirtelo, doveva essere una sorpresa, ma tant’è: ho sentito Terzulli che parlava di soldi che dovevo arrivare per un grande progetto, una cosa da milioni di euro. Mi terranno vedrai.”
Lei lo guardò intenerita. Poi gli disse:
“Va bene, ok: ti rinnovano il contratto, ti aumentano lo stipendio. Ma ora? Ora non abbiamo garanzie, niente di niente. Nessuna finanziaria ci farà un prestito, nessuna banca. Possibile che non ragioni, Lu?”
Lui si appoggiò allo schienale del divano e senza dire una parola si mise a maneggiare il cellulare.
Paola lo guardò per un po’ cercando di attirarne l’attenzione. Poi disse: “E ora? Che fai? Stavamo parlando…”
Lui posò il cellulare e chiese: “Se facessimo garantire i miei? Lo intestiamo a loro e noi paghiamo le rate. Dai sì, mi sembra un’idea. Voglio dire: in qualche modo dobbiamo fare.”
“Non compriamolo, per dio Luca!” Si alzò di scatto gridando.
“Non è una soluzione: è una rinuncia. Perché rinunciare ad una cosa che potremmo tranquillamente avere semplicemente ragionandoci con calma? Solo per il tuo pessimismo, cacchio.” disse Luca cercando di crederci, di attingere al suo pozzo di volontà.
“Perché è una cosa superflua, non ci serve, è un capriccio in fondo: svegliati Luca è già tanto se riusciamo a pagare l’affitto. E poi chiedere aiuto ai tuoi: certo loro sono sempre pronti, ma così non faremo mai nulla, non farai mai nulla se sono sempre pronti a sganciare per dei capricci…”
“Non è un capriccio. Sei tu che non capisci niente: è un investimento.”
“Un investimento che non ci possiamo permettere: rassegnati alla realtà. Questo è tutto quello che possiamo avere, basta. Le cose vanno così, Luca, devi prenderne atto: i tuoi non ci devono aiutare a comprare un camper.”
“Ma perché se possono farlo? Tutte le coppie giovani si fanno aiutare dai genitori: oggi è così, altrimenti non si potrebbe andare più fuori di casa.”
“Sì, hai ragione, ma non per comprare qualcosa di superfluo del costo di 45000 euro…”
Luca la interruppe per dire che era un investimento, allora Paola si alzò e allargando le braccia disse: “Fai quello che vuoi, fattelo comprare dai tuoi ‘sto camper…”
“Non me lo faccio comprare, non hai capito allora.”
“Sì, sì che ho capito…” disse lei ormai già in cucina.
Luca aumentò il volume del televisore, ma dopo pochi secondi si alzò per raggiungere Paola in cucina.
Lei era seduta con il mento poggiato sulle braccia incrociate sul tavolo: stava guardando la fruttiera con due banane e due arance. Lui si sedette vicino a lei: un braccio appeso alla spalliera della sedia, l’altro sul tavolo; giocherellava con il cellulare nella mano destra.
“Perché ti devi arrabbiare? Se si può fare, si deve fare. Io la penso così.” disse Luca avvicinandosi all’orecchio di Paola.
“Lo so, ma in questo caso penso non sia giusto. Non si fa così: tu non riesci a capire la situazione precaria, pensi ancora che siamo in un momento di assestamento, che ti assumeranno, che io troverò lavoro.”
“Ed è così: è logico che è così.”
“Logico? Perché sarebbe logico? Qual è la logica che sottende questo tuo ragionamento?”
“E’ così. E’ così e basta. Altrimenti si dovrebbe pensare veramente di non avere futuro.”
Fine

domenica 18 gennaio 2009

Ti rinfresco la memoria - seconda parte

di Ezechiele Lupo
Luca e Paola attraversarono l’immenso parcheggio, ancora ghiacciato per la neve caduta in quei giorni, fino a raggiungere la loro auto. Entrarono in silenzio, ognuno pensando alle cose da dire.
“Comunque è bello, no?” attaccò lui con entusiasmo molto studiato.
“Cosa?”
“Come cosa? Il camper. Cioè sembra davvero la coperta di una barca, molto elegante. E poi c’è un sacco di spazio, non credevo. Molti camper sono angusti, stretti, con luci un po’ soffocate. Insomma se fai una spesa del genere devi puntare a questi livelli: perché comunque devi vivere lì dentro magari anche un mese…”
“E quando mai abbiamo fatto vacanze di un mese?” lo interruppe lei guardando la strada sempre più buia attraverso il parabrezza.
“No, dico per dire: devi pensare in prospettiva, a lungo termine. Non si può comprare una cosa, che poi tra due anni non ti trovi bene, sei scomoda ad usarla per lunghi periodi.” rispose lui già presentendo quella lieve sensazione di inquietudine che era portato da sempre a reprimere.
“Mah… se lo dici tu…” disse Paola abbassando il parasole e aprendo lo specchietto per guardarsi.
“Mamma mia quanto sono brutta!” continuò scossa da un nervosismo lamentoso.
Luca le prese subito la mano sinistra e le disse: “Non è vero, non mi sembra proprio: sei bellissima, stai benissimo.” Ma tanto sapeva che era inutile, tuttavia doveva farlo, non poteva lasciare nulla di intentato.
“Grazie, ma non mi sembra proprio: oggi sono proprio brutta.” concluse chiudendo lo specchio del parasole. Poi svicolò dalla presa di lui e si mise a fissare il buio.
Per un po’ rimasero così. Lui non aveva nemmeno acceso la radio: sapeva bene che non ci sarebbe stata l’occasione per ascoltarla. Ora il problema era: continuare a parlare come se nulla fosse, come se lei fosse pronta ad interloquire e a trovare una soluzione per l’acquisto del camper, ricevendo in cambio mezze risposte molto poco costruttive, o, bensì, mettere subito le carte in tavola, farla sfogare, innervosirsi e non parlarsi per tutta la serata?
“Certo anche con lo sconto la cifra è forte…” fece Luca per farle capire che non era scemo, che intuiva bene la fonte del malumore, che anche lui vedeva grossi problemi, senza rinunciare però al suo ottimismo della volontà.
“Ma Lu, ancora ci stai a pensare? Scusa ti sembra minimamente realistico prendere in considerazione una cifra del genere? Prima di tutto non ce li abbiamo quei soldi, intendo materialmente. Dove sono? Non so, hai un conto segreto di cui non mi hai parlato?”
“Ma figurati… comunque dicevo così tanto per parlare…”
“Eh sì, tanto per parlare: non voglio parlare. Non capisco nemmeno perché ci siamo andati in quel posto infernale, di sabato pomeriggio, pieno di gente, con ‘sto freddo e le strade ghiacciate.”
“Ci siamo andati perché pensavamo, ti rinfresco la memoria – lei fece una smorfia e disse a bassa voce gne gne ti rinfresco la memoria – sì, sì, ti rinfresco la memoria, perché mi sembra che tu non ti ricordi che abbiamo deciso insieme di andarci. In fondo, oltre la spesa iniziale, che, non sono scemo, è pesantissima, tutto sommato, sul lungo periodo, ci potrebbe far risparmiare. Non avremmo più bisogno di prenotare alberghi costosi o affittare a prezzi folli case al mare; con un camper si potrebbero anche fare viaggi molto lunghi, potremmo agevolmente fare quel giro che volevi, lungo la via che porta ad Istanbul, in poco tempo e risparmiando, e poi con gli amici divideremmo i costi di benzina, autostrada e tutto il resto.”
“Allora dai compriamolo – Paola cominciò ad alzare la voce – dai su, torna indietro e blocchiamolo: non vorrei mai che ci fosse un’altra coppia di giovani precari in affitto, con la voglia matta di spendere 45000 euro per andare in Turchia con un cazzo di camper!”
“Ma non sto dicendo di prenderlo: dico solo che pensandoci, magari con calma, potremmo trovare una soluzione: certo che se bisogna partire da questo presupposto…”
“Luca: penso che tu sia completamente fuori dalla realtà. Chi ce li dà quei soldi? Come facciamo a mantenerlo? Non abbiamo nemmeno un box.”
“In strada. Che problema c’è? Tanta gente lo fa: non vedi mai camper parcheggiati?”
“No mai.”
“E qui ti sbagli: davanti a casa di Lorenzo? Eh? Eh? Ah non rispondi, ti ho colto in fallo. E che non sia un’allusione erotica per il dopocena.” Luca si voltò sorridendole e le carezzò il viso indurito. Paola non rispose, ma nemmeno si sciolse. Dopo un po’ Luca se ne venne fuori con una proposta: “E se chiedessimo un finanziamento?”
Paola scosse la testa e tentò di mantenere la calma, ma la sua voce sussultava come stremata:
“Ma che dici? Ma stai scherzando? Luca davvero… un finanziamento? Ma come pensi di ottenerlo? Hai un contratto trimestrale che non si sa se tra un mese ti rinnoveranno. Non li danno i finanziamenti ai precari. Basta, basta davvero: Luca dimentichiamoci questa storia.”
Paola si accasciò al poggiatesta e chiuse gli occhi.
Luca sapeva bene che non avrebbe dovuto più aprir bocca fino a casa. Ma quell’inquietudine che ormai gli spossava le braccia, i tentativi di restare calmo, di ragionare in quelle situazioni di contrasto, finivano per essere controproducenti: lo portavano sempre a dire qualcosa di troppo, forse perché in fin dei conti non accettava che vincesse il pessimismo della rassegnazione.
E chiudeva sempre col sostenere qualcosa di stupido ed irritante:
“Mah… non si sa mai… magari qualche banca ci farà credito, che ne sai? Ogni caso è a parte, non puoi dirlo a priori: poi non saremo precari a vita.”
“Sì bravo è vero: io non sono nemmeno precaria, sono disoccupata. Ma come ragioni Luca? Che prestito ci devono fare? Non fanno prestiti ai precari come te!”
“Ma che ne sai? Che palle con questo disfattismo, davvero. E poi così… si fa per parlare…”
Lei lo guardò sbarrando gli occhi e lui capì che già era esplosa.
“Fermati: fammi scendere.” proruppe Paola.
“Ma che dici? Dove vai? Vabbè dai non ne parliamo più, dai, non facciamo cazzate.”
“No. Basta. Fammi scendere, non ho voglia di stare qui, torno a casa da sola: fermati ti ho detto…”
(continua...)

sabato 17 gennaio 2009

Ti rinfresco la memoria - prima parte

di Ezechiele Lupo


“Qui potete vedere il nostro reparto più chic, diciamo così, più nobile. I mezzi rappresentano il top di gamma delle marche che abbiamo passato in rassegna prima: questo, guardate questo qua: questo, montato su tecnologia Iveco Daily, mansardato, guardate, guardate qua. Ma venite dietro venite ragazzi; spazio garage per il vostro motorino o persino moto d’acqua, o più semplicemente il vano resta dedicato a due letti. Ma ragazzi: gli interni? Volete vederli? Guardate… porta d’ingresso con zanzariera scorrevole, amplissima zona giorno, guardate, due tavoli, quattro sedute ottime per i bambin; non avete bambini? Beh ma questo è l’investimento per i prossimi dieci anni: dieci anni di vacanze dove volete, quando volete, a costo zero. Ma guardate, guardate l’angolo cottura, il frigo quindici litri, il forno. E la linea: di ispirazione nautica naturalmente.”
Luca e Paola seguivano attentamente con lo sguardo le evoluzioni descrittive del rivenditore: si muovevano ritmicamente come una persona sola per star dietro ai suoi gesti, alle sue dita indicatrici. Ogni tanto sorridevano, si guardavano come per dirsi: a me piace, a te?
“La mansarda: potrebbe dormirci un gigante. Quanti figli avete? Nessuno? E vabbè… sapete quante vacanze con gli amici, con coppie di amici…”
Luca e Paula annuirono. Stavano forse già pensando a chi invitare per questa Pasqua nel loro camper super attrezzato con gli interni in radica di ispirazione nautica? Forse potevano chiederlo a Marco e Linda, i bambini li potevano lasciare dai nonni; o forse avrebbero invitato Fabio, Laura e Antonella.
“E quanto verrebbe?” chiese Luca appena scesi dal camper.
“Bhe innanzi tutto le devo dire che abbiamo formule di scontistica e di pagamento dilazionato con rate a partire dal gennaio 2010, assolutamente vantaggiose. La nostra politica è proprio quella di venire incontro al cliente nel miglior modo possibile, soprattutto dal punto di vista delle liquidazioni.” Rispose senza rispondere il rivenditore.
Luca sfiorò per sbaglio la mano di Paola, la guardò e riconobbe quell’espressione di sfiducia e risentimento che palesava verso le persone che la facevano innervosire: era un brutto segno quello, il risentimento si sarebbe indirizzato verso qualsiasi cosa nelle ore successive.
“Bene, bene, fate anche finanziamenti – disse Luca – e quale sarebbe il prezzo, invece, complessivo?”
“Siamo di fronte, consideri, al top di gamma, un prodotto fatto per durare, motore e scocca di ultima generazione montati su standard Iveco Daily. Questo gioiello viene 49.999, ma per due giovani, che si sa i problemi del lavoro, la crisi, abbiamo un piano di scontistica, che se mi seguite in ufficio ve ne parlo bene bene.” Detto questo li precedette a passo deciso attraverso una lapidaria sequela di camper bianchi.
(continua...)

domenica 11 gennaio 2009

La morte in un buco - La caduta di William S. Burroughs

di Rina Xhihani


"Every man has inside himself a parasitic being who is acting not at all to his advantage."

William S. Burroughs

La lampada sulla scrivania illumina questo disordine e tutto trasuda una dolcezza infinita, tanto che si può parlare di tutto, anche della morte.

Ho sempre pensato che la morte degli artisti debba essere spettacolare, o per lo meno un evento tragico, penosamente tragico. Un finalissimo atto di scontro con il mondo, nel quale essi sono sempre stati dei "diversi". Ecco, una morte diversa, che vada fuori dalle regole dell'umano percorso, una morte che per lo meno serva ai posteri per innalzare ad angelo l'artista, e accusare la crudeltà del mondo. Sì, mi piacciono le esagerazioni.
Ed "esagerazione" è l'unica parola che può descrivere ogni esperienza di vita di Wlilliam S. Burroughs, l'hombre invisible. Colui che sfidò il potere distruttivo delle droghe, colui che sfidò le regole dell'amore, colui che sfidò la parola, colui che distrusse il corso dei pensieri, colui che convisse con "lo spirito terribile", colui che fu assassino, colui che pianse nella notte per il destino dei gatti, colui che mancò al funerale del padre, colui che lottò per la liberazione della mente, colui che vide tutti morire... colui che vide morire suo figlio e tutti gli altri. Quest'uomo, la vita del quale è inaccessibile a tutti noi, quest'uomo che fu un mistero perfino per se stesso, che fu un ospite indifferente in un corpo viaggiatore, il suo diabolico potere di sopravvivere a tutti i suoi dolori, l'uomo che provò tutto e non scelse nulla, l'uomo che si tagliò l'ultima falange del mignolo sinistro (magari solo per vedere che succedeva), morì all'età di 83 anni nella sua perfetta casetta bianca. Una morte da vero borghesuccio. Una morte banale. Una morte e basta.
Ed io sono qui e dico, ci deve essere una spiegazione! Io che me lo immaginavo nudo, sopra una sedia, magari pieno dei suoi disegni, con intorno i suoi sei gatti, con in bocca una sigaretta e magari la cravatta per mantenere sempre un aspetto signorile, e uno sparo sulla fronte, magari uno sparo artistico, così da coronare con un quadro d'autore quel momento del trapasso da lui così serenamente invocato.
Si dice che Burroughs fosse ansioso di scoprire la morte (io oserei dire: solo per vedere di che si trattasse), lin conformità alla sua solita voglia di esplorare il nuovo. E così arrivò quel momento, più quieto che mai, più comune che mai. E lui nemmeno si girò per dire addio: già me lo immagino là, tutto preso da se stesso, tutto preso dal mondo nuovo da esplorare. In un istante non era più uomo, era altro (lui è sempre altro), incurante di quel mondo al quale non s'accorse mai di appartenere. Ma forse fu questa morte ordinaria che ci rende oggi in grado di parlarne, altrimenti quell'esistenza così fuori dal comune, quell'esistenza così terribilmente burroughsiana, sarebbe andata a confondersi con il mito, con il mistero, un altro gesù. E' come se quella morte comune gli avesse dato un'identità. Un’identità che lui rifiutò in vita, giacchè lo chiamarono il padre spirituale dei beat, ma la sua scrittura fu altro e la sua vita un isolamento continuo, ispirò il cinema ma lui non faceva altro che recitare se stesso, ispirò il punk ma non si lamentò mai, ispirò le arti visive ma lui non fece altro che distruggere la pittura con i suoi quadri. Tutto era assolutamente burroughsiano tranne Burroughs che era altro da sè.

"Vivi in fretta, morirai tardi", disse con la sua impressionante veggenza. E così fu, un razzo con un atterraggio lento e noioso. Non conosceremo mai nulla del suo percorso di vita ma solo il buco nero della sua caduta.

martedì 6 gennaio 2009

Apocalisse secca - seconda parte

di Norberto Giffuri

Riaprì gli occhi. La stanza era buia, le persiane serrate. Tastò il comodino alla ricerca della sveglia, l'afferrò e la portò a pochi centimetri degli occhi cisposi: le quattro e quaranta. Troppo tardi per continuare il gioco del sonno. Corse in bagno. Aprì il rubinetto. Niente acqua.

Bestemmiò. Il lavabo vibrò, colpito dal suo pugno isterico. Lo specchio gli mostrò un volto pallido e una corona di capelli arruffati. Andò in cucina. Aveva circa un ora per prepararsi. Alle sei doveva ritirare l’auto aziendale. Nervosamente girò e rigirò attorno alla tavola. “Ragiona” si disse, “ragiona” e troverai una soluzione. Il pavimento freddo perseguitava i suoi piedi scalzi. “Massì, posso usare i bagni della ditta…ci sono le docce e sicuramente dall’altra parte della città l’acqua ci deve essere”. Corse in camera, si infilo un paio di jeans e una felpa nera. Pescò una valigia da dietro l’armadio e ci infilò dentro il completo elegante, le scarpe costose, un deodorante, un asciugamano, shampoo, una spugna, un pettine e una saponetta. Trascinò la valigia nell’andito. Meccanicamente valutò lo stato della casa, se tutte le luci erano spente, se le persiane erano chiuse. Tutto in ordine. Rientrò in cucina e vide lo spazzolino abbandonato dalla sera prima accanto ai fornelli. Prese la bottiglia di acqua minerale per lavarsi i denti ma era vuota. Vuota? Era certo di averne conservata un po’. Forse la sua memoria vacillava. Ma non c’era tempo per le constatazioni. Mise spazzolino e dentifricio in tasca, prese le chiavi dell’auto, la valigia e l’isteria, e si precipitò per le scale del palazzo.

La porta del vicino era spalancata, la luce del corridoio accesa. Aveva tempo per una tale stranezza? Indugiò sulla soglia esitante. “Signor Maifredi”, chiamò una volta, con voce bassa, poi ripeté con maggior convinzione. Nessuna risposta. Avanzò per il corridoio, fino al salotto. Un tavolo laccato nero, un divano dal colore indefinibile, quadri di pessimo gusto e una cornice di tende verdi alquanto ottenebranti: questo fu ciò che vide. Pensò che la sua curiosità era avanzata più del dovuto. Tornò sui suoi passi. Probabilmente i vicini erano dovuti uscire con urgenza e avevano dimenticato la porta spalancata. Si convinse che poteva essere andata in questo modo. Scese le scale e si ritrovò in strada.

Non fu il silenzio che lo colpì. E neppure la visione della strada deserta. Non furono le due fugaci figure che correndo sparirono in un vicolo, quasi fossero animali braccati, che attirarono la sua attenzione.
Fu invece il cielo che lo catturò: altissimo, bianco, irreale, un sudario che avvolgeva la città tutta. L'aria era immobile, secca. Raschiò la gola e tentò un respiro profondo: non ebbe sollievo. Indugiò ai limite del marciapiede, lo sguardo rivolto all'insù. Si sentiva atterrito, impotente di fronte all'immensa morsa del cielo.
Cominciò a camminare, nel centro della strada, trascinando la valigia dietro di sé, senza una meta precisa. Ogni parvenza di lucidità si era dissolta sotto quel cielo impossibile. Aveva la fronte madida di sudore, sentiva freddo, sebbene la temperatura fosse piuttosto mite – ma dov'era il sole, dov'era? Pareva che la luce avvampasse da ogni direzione. Si sentiva nudo, inerme, come se quella luce rivelasse i più intimi risvolti della sua anima al mondo intero.
I suoi passi divennero sempre più incerti, brancolò varie volte, la maniglia della valigia gli scivolò dalle mani e preferì abbandonare quel peso morto. Annaspò appoggiandosi alla serranda di un negozio. Avanzò, trascinandosi quasi, fino all'imbocco di uno stretto vicolo che scendeva zigzagando fino al porto. Si acquattò nell'ombra del carruggio e subito gli parve di riprendere vigore.
La sua ragione era confusa dal ventaglio di sensazioni provate in un così rapido tempo: sbigottimento, terrore, meraviglia, smarrimento. Non c'era un nesso logico nei vari pensieri che si susseguirono nella sua testa mentre, immobile, rifiatava in quel vicolo. Si sollevò e prese a scendere le ampie gradinate che conducevano verso il mare. La visione del porto gli era preclusa, doveva percorrere tutto il budello di pietra e cemento, aggirare gli edifici e attraversare vari porticati prima di giungere sulla banchina. Il vicolo si allargò in una piccola piazza squadrata, dove un bambino accucciato giocava in un angolo. La visione di una creatura umana sembrò dargli una nuova fiducia. Si avvicinò al ragazzino forzando un sorriso di circostanza. Il bambino continuò nella sua occupazione: con il rametto stava distruggendo un formicaio costruito in un punto dove il pavimento lastricato lasciava spazio a pochi centimetri quadrati di terra. Lentamente, assaporando con piacere il gesto, tracciava linee nella terra fresca, rimestando e squassando. Le formiche si agitavano tutto attorno, disperate e impotenti. D'un tratto il bambino sollevò lo sguardo e lo fissò negli occhi con complicità. C'era qualcosa di maligno in quel volto. Un brivido freddo gli corse lungo la spina dorsale. Si allontanò indietreggiando e si infilò sotto un porticato.
Trasse un profondo respiro e proseguì poi la sua discesa. Una svolta, un arco, un altro porticato, una nuova svolta e...ciò che vide gli fece sussultare il cuore in un infinito istante di sgomento.
Là dove il mare bagnava la costa ora vi era una sterminata arida pianura grigiastra che digradava dolcemente verso l'orizzonte. Nel porto i pescherecci giacevano con lo scafo affondato nella sabbia. Alcuni erano adagiati su un fianco, con l'albero maestro spezzato. Altri erano incagliati in punti dove il fondale presentava una depressione, sicché avevano la prua o la poppa sollevata e il resto sepolto nella sabbia. Tutta la costa, o meglio, quella che una volta era stata una costa, brulicava di figure umane che si affannavano e girovagavano nel territorio riarso che aveva preso posto al mare.
Scese sulla banchina e si fermò terrorizzato per qualche secondo. Poi si sedette sul molo di cemento e si lasciò cadere sul fondale, circa un metro più in basso. Le scarpe affondarono nella sabbia, sollevando una polvere secca. Cominciò a camminare, tra rifiuti di ogni genere, lattine, sacchetti di plastica, relitti di legno e acciaio. Poi vennero i corpi morti dei pesci, migliaia, coi loro occhi vitrei che quella luce bianca e fredda rendeva vividi e inquietanti, e dunque i cespugli di alghe, neri, rinsecchiti, schiacciati al suolo. Avanzò fino a incrociare alcune figure umane che si allontanarono senza proferire parola. Poi le figure divennero tante e tutte si aggiravano cercando un volto amico, chiamando sottovoce, perché in quel deserto di sabbia pareva che nessuno osasse gridare, quasi che fosse imposto un tacito accordo. Proseguì fino al centro della baia, dove un centinaio di persone sedute in cerchio pregavano ondeggiando il capo. Passò oltre, e si fermò nel cono d'ombra proiettato dall'enorme scafo di un traghetto.
Fu allora che vide Anna. Si aggirava ad una cinquantina di metri di distanza, avvolta in una coperta azzurra. Un lembo della coperta strisciava nella sabbia tracciando una scia irregolare. La raggiunse correndo e la abbracciò forte guardandola negli occhi con immenso struggimento.
Poi, stringendosi, atterriti, insieme alzarono lo sguardo al cielo.
Fine

domenica 4 gennaio 2009

Apocalisse secca - prima parte

di Norberto Giffuri

"Pronto."
"Ciao Anna."
"Ciao."
"Tutto ok?"
"Tutto ok."
"Quindi l'acqua da te c'è?"
"No, non c'è...da una mezz'ora."
"Quindi non va tutto bene."
"Beh, presumevo tu fossi interessato alle mie condizioni fisiche e psicologiche e non allo stato del sistema di approvvigionamento idrico"
"Mi piace come parli."
"Che dici?"
"Mi piace il tuo fraseggiare..."
"Mmh?"
"Hai usato l'espressione approvvigionamento idrico...l'ho trovato demodé ma efficace, piacevole."
"Grazie."
"Allora niente acqua."
"Confermo: niente acqua."
"Ti saluto, notte."
"Notte."

Appoggiò il telefono cellulare sul comodino e si sedette sul bordo del letto. Slacciò i polsini della camicia, lentamente, assaporando il silenzio. Smessi i pantaloni eleganti optò per un pigiama grigio, tanto informe quanto comodo. L'orologio segnava le ventidue e cinque minuti. S'alzò e trascinandosi sulle ciabatte entrò nel piccolo bagno. Girò il miscelatore della doccia, fosse mai che...no, niente acqua. Doveva essere in aeroporto per le sette dove avrebbe accolto un fornitore, un signore orientale ricco e influente. Aveva disperato bisogno di una doccia...e poi doveva radersi, come radersi senza risciacquo? All'appuntamento si sarebbe presentato con una mise impeccabile. Avrebbe indossato il suo completo grigio fumo di Londra, i gemelli d'argento, le scarpe di cuoio che gli erano costate metà stipendio. Sarebbe tornata l'acqua prima dell'alba? Era spossato e si sentiva la pelle sfibrata dopo una giornata trascorsa in azienda a saltare da una riunione all'altra. Prese lo spazzolino e si diresse in cucina. Si lavò i denti usando l'acqua minerale. L'ultima bottiglia, accidenti. Avesse avuto una confezione da sei avrebbe potuto almeno lavarsi i capelli. Ricordò di quanto sua madre, tanti anni prima, lo aveva aiutato a lavarsi il capo prima di un esame all'università. Mancava l'acqua, come quel giorno. Sua madre aveva intiepidito sui fornelli quel poco di acqua che era stato possibile recuperare dal rubinetto della cantina. Poi l'aveva aiutato versandola delicatamente sui suoi capelli mentre lui se li insaponava...

Tornò in camera e si sdraiò sul letto. Puntò la sveglia per le cinque. L'acqua sarebbe tornata di sicuro. Qualcuno doveva aver segnalato il guasto o l'avrebbe presto fatto. E se? No dai, impossibile che...certo che se tutti avessero fatto il suo medesimo ragionamento...beh, poteva chiamare lui, dopotutto una segnalazione in più poteva servire ad accelerare la pratica. Ma chi chiamare? Il municipio? A quell’ora? Poco probabile che qualcuno rispondesse. Non c'era un numero di pronto intervento o qualcosa del genere? Corse a prendere il prontuario che ogni anno un solerte messo comunale recapitava nella sua casella postale. Ultima pagina, informazioni utili: servizio approvvigionamento idrico -pensò ad Anna, sorridendo-: numero verde attivo il giovedì dalle 9:30 alle 12:30. Ecco.
Tornò a letto. Spense la luce. Ascoltò il mormorio sommesso della città. Inquieto, si rigirò più volte nelle coperte. Il collo gli doleva, un colpo d'aria forse. Sistemò il cuscino in diagonale alla ricerca di una posizione comoda. Ci sarebbe stata l'acqua, sarebbe andato tutto bene. Finì che si addormentò.
(continua...)