Il giudice sul mulo Periodico perenne di linguaggi letterari.

domenica 26 dicembre 2010

Due libri e un omaggio per il 2011




Ornela Vorpsi - Bevete cacao Van Houten!

di R. Castoro

Bevete cacao Van Houten – scrive Majakovskij – è l’esortazione che urla il condannato sul patibolo della pubblica piazza, prima di essere ucciso. La famosa ditta di cioccolati olandesi aveva comprato l’ultimo desiderio del prigioniero, pagando la sua famiglia in cambio dell’estremo slogan pubblicitario. Ornela Vorpsi ha deciso di titolare così il suo ultimo libro di racconti, recuperando questa storiella dalla memoria delle letture giovanili. E’ bene chiarire che la vita di Ornela Vorpsi entra sempre e prepotentemente nei suoi racconti, lasciando una scia biografica molto nitida. Nata a Tirana, in Albania, è fuggita a 22 anni per studiare all’Accademia di Belle Arti di Milano e infine si è trasferita a Parigi, dove vive. L’italiano è comunque la lingua che usa per scrivere. I suoi racconti sono mondi dipinti realisticamente, episodi di vita definiti dalla bellezza e dalla morte, narrati in tono intimo. Il tema della morte ricorre come paradossale dato di fatto dal quale ogni altro elemento trae valore. La bellezza, quella fisica, giovane e primordiale, scorre sotto ogni storia, a partire dalle mortificazioni che subisce nell’Albania totalitaria e ipocritamente egualitaria, fino all’evanescenza occidentale, dove la bellezza si materializza in forme di plastica. Ma la vera motrice dei protagonisti del libro – Petraq, Gazi, Lucien, Lumturi, Teuta, Arti – è il "desiderare": quella particella fondante di ogni ingegneria del sogno. Un desiderio d’amore descritto tangibilmente, come le figure amorose del discorso di Barthes, per cui le parole si mostrano nella loro forza “ginnica e coreografica”, come “vampate di linguaggio”. E poi c’è un desiderio d’altrove, un occidente gonfio di speranza, dove gli oggetti si slegano dalla loro dimensione fisica per diventare formidabili promesse di felicità. Un posto magico dove esistono: un tè anti-spaesamento, una crema contro le giornate tristi, delle scarpe gialle indecifrabili. Polvere di cacao Van Houten come ultimo desiderio prima di morire.

Ornela Vorpsi, Bevete cacao Van Houten!, Einaudi, 2010, pp. 200, euro 12,50.

* * *

David Foster Wallace - Una cosa divertente che non farò mai più

di Norberto Giffuri

L’opera in questione è una pietra miliarie del gonzo journalism. Per scrupolo di chiarezza: il gonzo journalism è uno stile di scrittura giornalistica dove la soggettività si accompagna alla ricerca del vero. Umoralità e humour, divulgazione e schiettezza: queste le colonne portanti del genere. Cos’è una pietra miliare? Beh, cercatene una lungo l’Aurelia. Una cosa divertente che non farò mai più è il pungente e graffiante resoconto di un viaggio a bordo di una nave da crociera. L’intellettuale impatta come un iceberg sul gigantesco scafo, inforca un paio di Ray-ban e passeggia tra sontuosi e pacchiani saloni, discoteche e palestre vista mare, desiderando nello stesso tempo di essere integrato e invisibile, protagonista e denigratore. Finirà in un profluvio di sarcasmo ed esilaranti battute condite in salsa d’amarezza. La titanica macchina del relax artificiale ha avuto la meglio sull’iceberg saccente?
A voi la sentenza.

David Foster Wallace, Una cosa divertente che non farò mai più, Minimum Fax, Roma, 2001, pp. 140,


euro 11.

* * *

Omaggio al futuro lettore di José Saramago

di Ezechiele Lupo

Partite da Tutti i nomi. Conoscerete José Saramago attraverso la pagina fitta e vi abituerete alle virgole precise come cuciture per palloni di cuoio. Poi continuate con Storia dell’assedio di Lisbona, dove l’amore in un “aprile umido” sta in una parola, in una negazione, nell’errore voluto di un povero correttore di bozze, che senza volerlo cambia la storia del passato e del futuro. Convinti che una storia d’amore così in 3000 anni non se l’era inventata ancora nessuno, deglutite intero (in un giornata) Cecità. Il romanzo dell’umano è una commovente prova di devozione verso il genere (romanzo e umanità), dove i personaggi senza nome costruiscono un racconto che è carta moschicida. Dopo breve pausa attaccate Memoriale del convento, stando molto attenti a non innamoravi di Blimunda che Baltasar vi uncina. I periodi lunghissimi, l’andamento ariostesco di questo mise en abîme, resuscitano il romanzo storico con una leggerezza che si bilancia con la mastodontica mole del convento in costruzione. L’anno della morte di Ricardo Reis è per chi ha sempre bisogno di conoscere un autore reale dietro l’autore implicito che si nasconde nella tastiera del narratore. Curioso che un personaggio di Pessoa che incontra il linguaggio di Borges ed esiste riflesso negli occhi degli altri personaggi, confuso nelle scene di massa (insuperabili, perlopiù), rappresenti la più chiara testimonianza della tirannia dell’opinione: l’ideologia di Saramago. La storia di Caino è asciutta e piena di segni. Il racconto biblico diventa sensuale e Dio è alla costante ricerca di un equilibrio. Un dio bipolare, tremendo e ironico per una storia che si ribalta nel finale. Giudicare male Caino è una tentazione fortissima: potete farlo, io non me la sento. L’ultimo vero grande romanzo è Il viaggio dell’elefante. Una storia divertente, leggera e dominata dalla muta figura del pachiderma. Un personaggio dall’enorme personalità che scandisce la marcia di una carovana reale.
E come Caterina d’Austria chiede al marito di non comunicarle mai quando l’elefante morirà, così i lettori di Saramago non sapranno mai se il più grande romanziere degli ultimi cinquant’anni è scomparso davvero.

Tutti i nomi, Einaudi/Feltrinelli, 1997
Storia dell'assedio di Lisbona, Einaudi, 1989
Cecità, Einaudi/Feltrinelli, 1995
Memoriale del convento, Feltrinelli, 1982
L'anno della morte di Ricardo Reis, Einaudi/Feltrinelli, 1984
Caino, Feltrinelli, 2009
Il viaggio dell'elefante, Einaudi, 2008

mercoledì 15 dicembre 2010

Il tempo che passo con te

di David Aquae

Il tempo che passo con te
È tempo illuminato

Nel volto lontano infondo gli occhi
Sono un vessillo di trasparenza
Ingenuo perdente e penoso discente.

Il tempo che passo con te
È infame raccatto

Dissimulata allegria
Eterna richiesta
Distesa passione.

Il tempo che passo con te
È vergognosa tenerezza

Una vita possibile nel gesto inespresso
Una finta comprensione
Una disponibilità asservita.

Il tempo che passo con te
È sporco, orribile.

Il tempo che passo con te
Non ci merita

Non merita di vederci annaspare
Sgusciare tra le scale che corriamo
Accettare l’incommensurabile e meccanico
Rammarico del tempo che perdiamo.

Il tempo che passo con te
È il bello che ho

Il non-limbo della festa
L’assoluta assenza di scaltrezza
Il puro assaggio della prima volta

Il tempo che passo con te
È poco più della bilionesima parte
Della felicità che vorrei.

martedì 7 dicembre 2010

I gradi di libertà dei canarini

di Norberto Giffuri

“No perché te l'avevo detto io che era un animale noiosissimo...”
“Sì ma ci credevo lo stesso alla faccenda del canarino...”
“Questo perché non mi ascolti mica...comunque questi canarini fanno due movimenti a dir tanto e poi è niente vero che cantano tutto il giorno...se poi lo si può definire canto quel vibrato acutissimo e straziante, un trillo di cellulare perenne da fracassarti i santissimi...”
“Sì ma lei diceva che alla bimba sarebbe piaciuto...”
“Sì ma lei diceva anche che alla piccina le avrebbe garbato suonare il piano e poi vai a scoprire che le era venuta una mezza fobia per i tasti bianchi e neri che poi vedeva tutto manicheo e dicotomico e c'è voluto lo psicologo infantile...”
“Eh già, ma puoi fare a meno di ricordarlo?”
“Ok ma permetti: ti ricordi Saretta che all'università attaccava ancora la chewing gum sotto il banco e poi diceva che roba l'India, che mondo da sogno, che spiritualità...e poi invece finisce a Riccione con un balengo rimorchiato ad una pseudomostra di pseudoarte e poi torna e comunque si laurea e guardacaso in psicologia e toh! Te l'ho servita su un piatto d'argento la verità vera! Ecco! Metà delle psicologhe sono state delle Sarette, forse anche peggio, e te ci mandi la tua amata figlia ad aggiustarsi la crapa...”
“Ok hai sempre ragione tu! Sei un dritto! E quando ti serve sei un rovescio! Detto questo...io dico... ma questo canarino che faccio?”
“Riportalo al negozio.”
“Sì ma considera la situazione: è chiaramente depresso. Sta sempre immobile accucciato sul fondo della gabbia. Se cerchi di toccarlo si scosta garbatamente ma non pare impaurito, anzi...sembra dirti -Prendimi! Facciamola finita con questa farsa! - Ti fissa con quei puntini neri piantati sulla testa mobilissma e stop..ti fissa E BASTA 'STO STRONZO GIALLO...e ti suscita una pietà immensa che diventi tipo Gesù che guarda dalla croce e la misericordia ti brucia nella pancia come una gastrite cronica...”
“...perdona se ti interrompo ma so dove vai a parare: in pratica se tieni il canarino quello ti muore e ci resti di sasso...se lo rispedisci al mittente ti logora il senso di colpa...”
“Sì. Proprio così.”
“...allora io suggerisco di parlarci...chiuditi in una stanza con il depresso giallo e chiarisci...-Che vuoi che faccia? Te ne stai sempre zitto e schiacciato, sei un peso morto, un parassita, o salti e canti oppure ti devo smollare...confidati su! Parla per una buona volta!
“Non credo possa funzionare...”
“Perché, di grazia?”
“Perché lui mi odia e si trincererebbe in un silenzio astioso...”
“Allora non so che aggiungere. La situazione è nera come la pece e ci stai inbrattato fino al collo...”
“Davvero, nada, niente da fare. Mi sa che mollo stavolta, lascio che sia moglie cara a cavarmi d'impiccio. Ah ma sai che posso fare? E se aprissi la gabbia? Se lo lasciassi andare per il mondo? Ti pare una buona idea? ”
“Ma allora sei fesso forte. Quelli tornano subito!”
“Chi?”
“Chi?! I canarini! Se apri la gabbia escono, zampettano, svolazzano tre metri e tornano a casa bella. Son fatti così...ci manca il cibo ci manca....ci manca la comodità di avere uno scemo che gli infilza l'osso di seppia tra le sbarre e gli riempie di mangime il pappatoio...”
“Come la maggiore, Anna!”
“Come sta Anna?”
“Ha sedici anni...e questo dice tutto.”
“Già!”
“A parte questo è una che si impegna, prende bei voti prende...e fa volontariato...”
“Brava la ragazza!”
“Brava sì! Allora sai che ho fatto? Una sera la chiamo e ci dico – Anna, sono orgoglioso di te. Il tuo papà ti regala cento euro e questo weekend fai quello che vuoi capito?! Se vuoi andare alla disco il papà tuo ti viene a prendere! Se vuoi andare in montagna con le amiche non ti dico no stavolta...Ok Annina?
“Un bel gesto, sei generoso tu!”
“Sì ma senti come va a finire...quella che fa? Esce e va da Zara a comprarsi un cappottino nuovo, con le maniche pelosette e quant'altro...poteva andare nello chalet, poteva ballare, poteva fare una festa o chessò...e invece prende va in centro e si prende un altro cappotto che già dieci ce ne ha, dieci!! ...e dico io ma allora tanto meglio il canarino! Tanto meglio il canarino che si comporta uguale, gli apri la gabbia e sta lì come un fesso ma almeno costa cento volte meno!”
“Già, tanto meglio il canarino!”

giovedì 25 novembre 2010

Dal monolocale – terzo movimento

di Norberto Giffuri

Esisto
Auspicando cataclismi, olocausti nucleari
Terremoti geologici e sociali
Come pretesto
Dai quali uscire salvo con medaglie al petto
Donne a braccetto
Lauree honoris causa e gloria in eccesso
Quando in realtà
Ciò che manca per fare incendio del presente
E' il comburente
Lo costanza, la fede, il diletto.

Verrà un giorno di cesura
Nel quale all'orgoglio subentrerà pietà
Ricordate quel tipo di cui parlo Edgar Lee?
Attesero tutti il suo genio, tutta la vita:
Genio non era.
Forse sono quel tipo.
Il mio talento presunto,
Arido, inespresso, pigro
Quanto ancora domanderà persuasione?
Verrà il dominio del condizionale passato:
Avrei potuto, sarei stato.
Ma in che gironi di decadenti ho trovato posto fisso,
Io che anticipo la rovina di una maturità cascante
Quasi a volerla edulcorare
Di modo che venuto il suo tempo
Sia avanzo di una cena scipita
Piuttosto che veleno dopo un lauto pranzo?

E il mio maestro mi posava sulla spalla la mano
Bianca come asfodelo, mano di chi è alieno al lavoro
E sentivo il peso morto
Di tutto il suo decoro.

Domenica,
E nuovamente stempero la serata
Osservando muto dal monolocale al sesto piano
Il che conferisce al mio animo
Un'angoscia tutta verticale.
Negare ogni sicurezza
Per quella strana libertà
Che si prova sui terreni incerti...
...l'alibi, per la caduta eventuale
È tanto importante per la stirpe - la mia -
Di quelli che lasciano il tempo passare
Pensando a come passarlo proficuamente
Una mise en abime
Tutta domenicale.

E il mio maestro mi confidò
Che il sesto piano è un buon partire
Avrei presto ambito
All'ottavo con terrazza
Dunque al decimo attico
Complemento ideale
Di una vita ascensionale.
Accogliere con un celato sussulto gioioso
La comparsa dei ravioli monoporzione
Esaltarsi per un parcheggio libero
Ai margini dell'happy hour
Ancora infangarmi dei vostri discorsi
Grondanti di qualunquismo
Proferiti da smorfie idiote
Di bocche aperte, di sorrisi da uomini arrivati
Bolsi, stereotipati
Anzi fantasmi di stereotipi
Che del modello han ricavato solo la forma evanescente.

Ma io rispondo sempre "Presente!"
Alla ressa dell'ipermercato
Alla tangenziale ferma del venerdì dopolavoro
Al grufolare nelle ceste dei saldi
E non mi accuccio a difesa della mia dignità
Che la dignità è persa al primo Vodka Martini
Di una qualunque di queste sere.

Nasce a volte la voglia di sfidarvi
Con l'isolamento il diniego
Tra quattro pareti intonse sparire
Come un personaggio di Auster
Spopolare il mio intorno con un brusco colpo di mano
Scrivere e respirare, a volte tutte e due insieme
Vivere protetto da voi da un millimetro di neoprene
Esistenziale...e lasciatemi stare.
Ma quale subdolo e ritorto pensiero
M'elegge nell'élite del senso e del gusto?
Uno sgiribizzo dell'anima
Che non resiste allo sfacelo di ogni notte
Che nel trambusto buio
Si svapora tra il cuscino e la mente.
Quest'orgoglio del vivere differente
Amputato ad ogni giro di sonno
Al mattino non resta
Che il torso arcaico di Apollo.

E il mio maestro mi insegnò com'è difficile trovare il pollo dentro nel McChicken.

lunedì 1 novembre 2010

Ritratto del mio cane

di Norberto Giffuri

Premessa: tre anni orsono mi fu chiesto, nell'ambito di un corso universitario che stavo frequentando, di redigere un breve testo descrittivo di un soggetto a piacere. Potete immaginare il mio disappunto di fronte ad un compito che mi pareva maggiormente adatto a studenti delle scuole primarie piuttosto che ad attempati universitari. Nonostante il disagio riuscii a partorire lo scritto che segue. Il docente premiò le due migliori descrizioni con una lettura pubblica davanti alla classe. La mia non fu scelta. Non ne ho mai compreso le ragioni.



Il mio cane.

Il mio cane, uno schnauzer taglia gigante, aveva uno sguardo cattivo sotto la frangetta nera che gli celava perennemente gli occhi. O forse quello sguardo prima indulgente si indemoniava proprio nell'atto di scansare la frangia di pelo. Non indagai mai a fondo la questione. Il mio cane amava trascorrere il suo tempo oziando. Indolente, alieno alla disciplina, rinunciatario, aveva solo due sveglie biologiche: la caccia e il cibo. Durante la notte catturava e uccideva animali di qualsiasi specie rei di aver varcato il suo territorio di competenza. I cadaveri venivano poi occultati in cespugli o sotterrati in luoghi poco accessibili. Quando veniva scoperto in flagranza di reato, il mio cane abbassava colpevolmente le orecchie e la testa e domandava perdono. Aveva una irresistibile capacità di suscitare la misericordia nell'animo. Forse perché nel momento in cui veniva colto in fallo in lui pareva esserci davvero un sincero sentimento di colpa.  
Quando reclamava il cibo quotidiano alternava rabbia chiassosa e disperazione silente. Si piazzava sotto la finestra della cucina e abbaiava e latrava in segno di sfida, come se avesse il mondo degli uomini intero a gran dispitto. Di fronte al nostro reiterato rifiuto di elargire doni edibili si ritirava in un silenzio di protesta salvo poi tornare, dopo poco minuti, a dichiarare a gran voce il proprio status di affamato. Questa farsa poteva durare anche due ore.
Il mio cane era conscio della propria condizione canina. Non si immischiava mai nelle faccende umane se non vedeva occasione per trarne un vantaggio personale. Se ne stava semplicemente a ponzare al sole aspettandosi di essere servito e riverito. Ma il suo distacco era simulazione, inganno.
Più volte lo vidi piangere: davanti alla sua ultima vittima, prima di addormentarsi nella sua ciambella di coperte, al ritorno dalle sue fughe durante le quali semplicemente vagava senza meta nella notte. Ma non pianse il giorno in cui i miei genitori lo portarono allo studio veterinario affinché gli venisse praticata l'eutanasia. Aveva un cancro terminale che lo stava consumando lentamente. Prima di salire sull'auto mi guardò per l'ultima volta e mentre gli carezzavo la testa emise una specie di ringhio sommesso.
Il mio cane era Louis-Ferdinand Auguste Destouches Céline.

mercoledì 27 ottobre 2010

Mastico verità come caramelle gommose

di Rina Xhihani 

Anche i santi sparlano*
nei libri sacri,
come potrei io, con le stelle,
non calunniarti?
Abbandonata per una luna
che gioca con le bambole,
mentre in una stanza-
spoglia- ragionavo di follia!

Non ho mai saputo giocare,
io.

Maledetta estate!
Vedo teste gonfiarsi
e scoppiare come bolle di sapone,
il loro chiacchiericcio, sparso nell'aria
superfluo
come l'ammiccamento di genitali rotti.
Fuggo nella notte,
con perfidia leggo alla solitudine
favole di religione e pederastia
-sparlo di te con l'inconscio-
e poi, ecco,
la notte è troppo lunga
nella stanza dalle grandi finestre;
leggo favole di Krsna e droghe
e ragazzi della California,
con i capezzoli turgidi
per la moltitudine
ancora da scoprire.

Studio i nomi dei sette cieli**,
sapendo che nessun cielo è utile
quando si cavalcano
ombre di nubi sull'asfalto,
e di tanto in tanto
penso al tuo corpo nudo
che spruzza gli stessi giuramenti eterni
dentro la corona umida
della tua nuova regina.
E lei, oh lei gioca ancora con le bambole.

Non ho mai saputo giocare,
io.

Da bambina mi chiedevo sempre:
"Sarò il cosciotto più delizioso per Dio?"
Sono ancora qui, a bollire
dentro il grande pentolone sacro***.
Ho l'anima incommestibile!
Alla finestra ascolto
sempre lo stesso silenzio,
come il gorgheggio
di un mistero mai svelato,
lo sbadiglio di un dio-bambino
annoiato sulla sua amaca d'aria scura.
Mastico le verità
come caramelle gommose,
aspettando il perfetto vuoto
oppure
solo domenica.



*Miriam che sparla di Mosè
** secondo la religione ebraica, ci sono sette espressioni che indicano il cielo nei testi sacri ed ognuna di esse serve ad indicare una funzione
** R. Shimon b. Jochai diceva: Io dichiaro che cielo e terra furono creati come una pentola ed il suo coperchio

- ascolto -


martedì 19 ottobre 2010

Carteggio telematico del 16 ottobre corrente anno

Asincheraglia, 16 ottobre 13:41

Io scrivo quotidianamente, storie che dovrebbero destare le coscienze. La fame nel mondo, la Russia autocratica. Meglio e più di Santoro, che a regime risponde regime.

Il problema è che non è Era per noi. Nel tempo ho parlato malissimo del Pd, sempre e comunque. Ma oggi ho realizzato che io sono il Pd. Io, fortissimamente io, lacerato come tutto il Pd in una volta. Marchionne o fiom? futuro o diritti? Israele o Palestina? Liberismo oppure no? Se no, cosa? Vendola? Bersani? Populismo poetico o pragmatismo spoetizzante? Crescita? Decrescita? Nucleare? Riscaldamento globale o verità? Privatizziamo? Fuori dalle mie finestre si manifesta. Vado? tollero l’egemonia di motti irrazionalideologici? Difendo diritti diventati anacronistici, oppure sto a casa, in silenzio, e appoggio una porzione di umanità ricca che ha sempre fatto pesare sugli altri i tempi moderni?

Alla fine non sono io a dover decidere, e mi quieto. Ma ogni dubbio, che nel Pd si diluisce nell'organismo freddo composto da tante anime faziose, in me pesa sempre e solo su di me. Per noi non è più tempo perché siamo soli. Irrimediabilmente. Caro Norberto, siamo implosi, e ogni dubbio che coltiviamo con l'illusione di redimerci non fa che condannarci. Non abbiamo più voce, né orecchie, i cinque sensi in generale non se la passano benissimo. Ecco perché abbiamo bisogno di estensioni artificiali che rendano la nostra realtà espansa, e comunicabile. Ecco perché bramiamo gli oggetti, le protesi, che Steve Jobs, Mark Zuckerberg, Bill Gates, Larry Page, inventano per noi.

Ma non ho un iphone 4 in regalo per te, mi spiace.

Tanti tanti auguri.


Norberto Giffuri, 16 Ottobre 22:18

Ma è mai esistito un tempo per noi? Un tempo per me? Conoscendomi io sarei stato al mare durante i giorni di Robespierre, avrei seguito l'ascesa del nazionalsocialismo da dietro una finestra, avrei udito il boato dell'atomica distante, lontano, e non sarebbe stato più squassante di una rullata di batteria suonata dal mio ipod. Io non so aderire. Ad un certo punto scuoto la testa, sempre. Se la libertà è davvero partecipazione allora ho compreso perché mi sento ingabbiato. Se la vita verace è insensata passione allora comprendo che il mio giudizio, la mia misura, sono i miei secondini.

Io voto Pd con riserva, mi innamoro di una donna con riserva, credo nei rapporti umani con riserva, mi sbronzo con riserva, penso, mi infurio, bestemmio e scopo con riserva.

E non capisco se tutto questo è colpa del mio tempo o è soltanto colpa mia.

Non capisco e intanto mi chiudo in casa, nel silenzio, in solitudine, la sera del mio compleanno, per cercare di riflettere leggendo Borges e suonando con la chitarra mentre fuori - e mi permetto di parafrasarti - c'è un mondo che gira indipendente.

A presto.

sabato 9 ottobre 2010

Due poesie su Milano

di Simone Morano

L’impero delle briciole

Milano veste male ma non fa male.
Non ha mai nascosto le rughe,
mille fratelli di carta e
cinquecento secondi di pubblicità.
Leggi il potere, corri il doppio
senza macchina del tempo.
Una surreale immagine di nove anni
prova a girare i tetti.
Spermatozoi su Booster
e generazioni di bit
liberi di raccontarsi
i vomiti rituali del sabato.
Scusa, ho da fare,
devo uccidere una cosa.


* * *


Non saltare in quel grigio

Cadorna, fermata Cadorna.
Rabbia in bocca
e un’idea nel vento
diventata forte perché non so posso voglio guardare dritto.
Vivi sempre
*sublime volgarità concessa ai peccatori
e poi perdi il destino per un semaforo.
Catapultato sulla vita,
le nuvole mi sputano in faccia
perché il silenzio è duro che apre le porte con rombi e fragori.
Elemosina e H&M, Giappone e Atm:
osservo e passa.
Sto per entrare in un anno noioso
o stupendo,
ne vorrei pochi mesi.
Chi osa perdonare il metronomo?
Un’età probabilmente anonima
a slacciarmi gli addii
Un’età sgarbatamente incendiaria
che è più scandaloso andare al ristorante in pigiama o uccidere tre donne?
Un’età semplicemente scorretta
e prende il volo con un sospiro
Dov’è la bimba che mi sorrideva in metropolitana?
Ha ventisei anni e mi sta rubando i peli.
È maggio, ma sembra vero.


Caro lettore queste poesie sono tratte da:
Simone Morano, Hai perso una goccia, Fermenti editrice, Roma, 2010, pp. 80, euro 12.

www.fermenti-editrice.it/novita.php

mercoledì 1 settembre 2010

Ultimo delirio africano di Rimbaud

di Rina Xhihani 

Lividi rossastri palpitano
sotto la pelle della notte
-residui di soli implosi-
arranco fino alle porte della realtà:
laggiù al villaggio
si celebra un matrimonio,
-compiuto un altro sacrificio-
tra veli bianchi e ciliege rotolanti
sulla mia lingua avvelenata si esaurisce il giorno.

Un leoncino si lecca la zampa.

Sono il buffone del deserto
ed il deserto dei buffoni
mi si arrampica sul petto.
Ah, gli umani, così fieri
dopo ogni atto d'amore,
mentre io piegato da una vergogna
che si vergogna d'appartenermi.
Ricordi fratello
quando ti ficcavo la follia
fino alle budella?
Non si può sposare la mente
che ha scritto la tua fine.
Mi consumavo,
e tu soffrivi come un vero uomo,
poi hai dimenticato
come un vero uomo,
e poi non ci hai pensato più,
come un vero uomo!
Ed io qui,
a farmi ancora fottere
dall'ordine della tua esistenza,
e non è un lavoro pulito, sai,
nel deserto si suda anche di notte.

Un uomo canta in una grotta .

Sulla mia gamba livida
ballano vermi,
-le mie poesie
reincarnate in putride visioni-
la mia tenda orbita lontana dalla vita,
ma non sto morendo.
E' il sudore del destino
quello che mi pende sul mento,
è lui che viene sconfitto questa notte
sotto la mia tenda
-mausoleo di ciarlatanerie europee-
è lui che viene sepolto;
io, candela mi scioglierò accanto,
come ornamento d'un rito sconosciuto.

I venti del deserto
mi si strozzano in gola.


ascolto:

Jeff Buckley - Dream Brother

lunedì 19 luglio 2010

Due diaframmi - ultima parte

di Ezechiele Lupo

Peter era per Diana come un diaframma: lo apriva, lo chiudeva per far passare molta o poca luce attraverso di lui. Decideva lei se Peter dovesse darle un’immagine della cose chiara o scura. Peter aveva impressioni, e Diana sapeva quanta luce serviva a Peter per imprimere l’immagine che lei desiderava. Peter e Diana ottenevano il meglio da se stessi: lui declinava la vita in base all’oggettività di lei; Diana orientava le proprie scelte attraverso le linee con cui Peter delimitava ciò che del mondo era davvero importante sapere, ciò che della realtà era davvero possibile conoscere, ciò che avrebbe condotto indefessamente all’identità delle cose. Diana e Peter erano alternativamente lo specchio e la sua cornice: e lo specchio rifletteva le responsabilità che li univa.

E il tramonto si mutò in acqua. E il pane era già sulla tavola pronta, ma nessuno si sedeva. Gli amici non arrivavano. La doppia coppia ospite a casa di Peter non accennava a presentarsi. Peter si siede sulla poltrona di fronte alla finestra, riprende la lettura di Quella sera dorata:

‹‹Cosa avete visto?›› aggiunse accennando agli opuscoli.
‹‹Il balletto››.
‹‹Com’era?››
‹‹Bellissimo››.
p. 299


Diana torna in cucina e prepara la macchina fotografica: monta l’obiettivo, stabilisce i tempi di esposizione, guarda fuori dalla porta e scorge lo schienale della poltrona con la testa di Peter che spunta nera sull’arancione che ha invaso la stanza. La pioggia batte sul tetto, mentre le nuvole otturano l’orizzonte.
Peter si accende un’altra sigaretta e continua a leggere. Non ci sono rumori in casa, ma in lontananza forse qualcuno suona male la chitarra. E’ una canzone spagnola, difficile stabilire cosa sia.
Diana entra nella sala e sceglie un cd dalla libreria. Accende l’amplificatore: le lucine si illuminano come prendendo la rincorsa, in progressione, come i controlli di un treno ad alta velocità. Partono le prime note. Peter alza la testa e si volta.
‹‹Che vuoi fare? ballare?›› chiede Diana sorridendo.
‹‹Mah… veramente si potrebbe fare. Ma una canzone e basta››.
‹‹Basterà una canzone. Dai vieni››.
Peter si alza dalla poltrona, spegne la sigaretta e poggia Quella sera dorata col testo aperto e rivolto sul tavolino. Si avvicina a Diana e la prende per la vita, la stringe a sé; lei lo abbraccia e si mette ad oscillare. E oscillano così per un po’. Poi lei si stacca e lo guarda: Peter sorride mentre Diana accenna un pezzettino della canzone, così tra le labbra, senza quasi produrre suoni:

…but I guess I’ve taken quite enough…

Poi gli si getta contro, lo stringe e ridono, ridono un bel po’. Poi Diana si ferma, si fa seria e dice: ‹‹Ok Peter, ora mettiamoci più a destra, ché la luce è migliore››. Peter si sposta, si fa condurre.
‹‹Adesso abbracciami come prima, ma cerca di non coprire il tuo viso con il mio. Ok così. Va bene così, pensa di insegnarmi a ballare, ma cerca di non essere supponente: hai una faccia pessima quando fai il supponente››.
‹‹Ok… va bene così? Sì ma tu togliti quei capelli dalla guancia… ok perfetto››.
‹‹Ok perfetto ci siamo: tre, due, uno…››
Ecco il diaframma che si apre e si chiude, parte il flash che già è arrivato, il rullino scorre e la macchina si ricarica.
* * *
‹‹Sei stato bravissimo, amore mio: sei un fenomeno››. Dice Diana appena riesce ad avere a portata di voce l’orecchio del dott. Falance, che ora siede finalmente al suo fianco al tavolo d’onore riservato ai premiati della serata.
‹‹Dici? Non lo so… forse dovevo essere un po’ simpatico. I discorsi dei premiati di solito sono più ironici. E’ che non riesco mai ad uscire dal mio ruolo: ho fatto anche stasera una piccola lezione in fondo››. Risponde il dott. Falance, appena omaggiato dell’Accademia come miglior medico dell’anno per quanto riguarda la disciplina.
‹‹No, no, sei stato perfetto amore mio. Non hai cercato nemmeno un secondo di catturare l’uditorio: non hai ammiccato. Hai fatto il medico e l’accademico: è giusto così. Un discorso bellissimo. Vedrai, ho scattato centinaia di foto››.
‹‹Dott. Falance, dia retta alla sua bella compagna: è stato il discorso migliore, il suo. Breve, ricco e profondo, oserei dire palingenetico››. Interviene un commensale, un altro medico, collega anziano del dott. Falance.
‹‹Sì, la ringrazio molto: visti questi importanti attestati di stima non posso che rassegnarmi ad accettare l’idea che abbia scritto un bel discorso. Mi rassegnerò››. Gli occupanti del rotondo tavolo accennano una composta ma fieramente convinta risata.
Sorseggiando un prosecco, un altro dei colleghi anziani di Falance stava ribadendo l’apprezzamento per la professionalità del protagonista della serata: ‹‹Caro Falance, lei è troppo insicuro per essere il medico che è: a vederla fare qualsiasi cosa che non sia collegata al suo lavoro, si direbbe che lei è un uomo senza qualità. Invece è il medico migliore che la disciplina abbia mai avuto, e il suo valore lo si ravvisa in ogni momento, in qualsiasi istante lei abbia a che fare con la disciplina: come questa sera››.
I piatti e le portate si susseguono e l’ilarità dei commensali cresce. Diana continua ad accarezzare la mano del dott. Falance e lui non perde occasione per sorriderle o baciarla. Ad un tratto, mentre tocca al sorbetto spezzare la cena tra carne e pesce, il dott. Falance dice a Diana: ‹‹Ah amore, mi stavo per dimenticare di dirti una cosa che è accaduta oggi: indovina chi è passato al mio studio?››
Diana lo guarda curiosa ma totalmente ignara, attendendo che sia lui a parlare, come si fa in questi casi. E infatti Falance spiega: ‹‹Oggi pomeriggio, poco prima che uscissi, la signorina Dalay mi ha chiesto se potevo far passare una persona senza appuntamento: beh sai chi era? Era Peter Dameron… lo scrittore, sì proprio lui››.
Diana fissa il dott. Falance per qualche istante: oltre la testa di Falance, Diana, come in una foto ingrandita migliaia di volte e per questo sgranata, sviluppa il viso, irriconoscibile per tutti ma non per lei, del suo vecchio amico Peter. Peter Dameron, lo scrittore. Per un attimo Diana ripensa alla città e alla casa di Peter, alle fotografie della sua ex, alla rissa in pasticceria, alle passeggiate in centro: alle macchine fotografiche che ha rotto cercando di adattare la propria ottica a quella di Peter.
‹‹E perché è venuto da te? Non sarà malato, vero? Amore mio dimmi che sta bene››.
‹‹Diana, non so se sta bene: abbiamo solo parlato cinque minuti. Non mi ha chiesto esplicitamente un appuntamento, però non so… forse si aspettava che glielo consigliassi. Comunque ti rendi conto? Peter Dameron nel mio studio: uno dei miei scrittori preferiti››.
‹‹Io lo conoscevo bene Peter Dameron››. Dice sorridendo Diana. Il dott. Falance spalanca gli occhi, finisce velocemente di sciogliere in bocca il sorbetto, si passa il tovagliolo sulla bocca e dichiara agitato: ‹‹E non me l’hai mai detto? Ma ho tutti i suoi libri… perché non me l’hai mai detto? Ma quando vi siete conosciuti, da quanto non vi vedete? Devi raccontarmi tutto, amore, tutto››.
‹‹Sì, sì stai calmo – lo tranquillizza Diana carezzandogli la guancia – ti racconterò tutto. Peter…››
‹‹Lo chiami addirittura Peter… ma allora avevate tanta confidenza. Oddio, non ci posso credere: lui è uno dei miei idoli, Diana…›› la interrompe il dott. Falance sbigottito, incuriosito e divertito.
Il dott. Falance vuole sapere tutto della storia di Peter e Diana: di come Peter e Diana si sono trovati e hanno trascorso gli anni migliori della loro vita, seguendo con i polpastrelli i bordi delle loro personalità, acuendo la loro sensibilità e portandoli a definire la loro identità.
Fine