Il giudice sul mulo Periodico perenne di linguaggi letterari.

giovedì 27 agosto 2009

Paul Auster e Jonathan Safran Foer dicono di Ted Kennedy

Era pressoché l’ultimo rimasto, il terzo moschettiere, il più giovane e il meno esperto di duelli a singolar, e infatti non ne tentò mai uno, a differenza dei fratelli, John il perfetto, e Bob l’idealista. Ted Kennedy, bianco e stanco ha camminato accanto al dinoccolato Obama e non l’avrebbe mai lasciato solo.
Oggi su “la Repubblica” e il “Corriere della Sera” parlano due scrittori americani, Paul Auster e Jonathan Safran Foer.
Solo che Paul Auster dice qualcosa di diverso, qualcosa di mediato dal linguaggio, qualcosa di letterario.
Il Ted Kennedy di Auster è un personaggio, la sua vita una recita, un intreccio, una diegesi. Nella vita-racconto di Ted Kennedy, Auster riscrive il proprio romanzo e lo intesse dei temi ossessivi dai quali lo scrittore di Brooklyn non riesce mai a staccarsi. Il relativismo, il percorso dell’eroe attraverso una serie di continui smascheramenti e identificazioni e infine la redenzione, più spesso nell’afflizione, che conduce il personaggio al dissolvimento: tutte spie che ritroviamo nell’intervista di oggi.
Come per i personaggi di Auster, di Ted Kennedy probabilmente resterà il riflesso di chi o cosa non sia mai diventato: un riflesso dietro al quale si cela la consistenza, frammentaria, del mito.


E.L.


Paul Auster

E’ impossibile parlare di Ted senza parlare dei suoi fratelli, del sogno americano, della voglia e dell’illusione di avere una nostra aristocrazia. E’ stato un personaggio emblematico, segnato dalla tragedia, ma anche da un itinerario personale diverso, per molti versi inaspettato”.
Perché emblematico?
“E’ diventato un uomo diverso da quello che sembrava essere destinato a diventare. Dopo l’uccisione di John e Bob, Ted sembrava destinato a diventare presidente, ma l’incidente di Chappaquiddick gli ha precluso la strada, facendolo diventare tuttavia una persona migliore. Fino a quel momento era un uomo del comportamento instabile e discutibile. L’incidente è il momento culminante di quel modo di essere. Una volta che si accorse che non si sarebbe potuto candidare, interpretò in maniera impeccabile il ruolo di senatore, diventando un punto di riferimento imprescindibile per un intero mondo politico e combattendo sempre con energia ammirevole. La sua è stata una storia di redenzione, l’uomo politico ha trovato una propria dimensione: più umile forse, ma non meno compiuta e significativa”.
Che ruolo ha avuto nella Camelot americana?
Quando John venne eletto avevo 13 anni, e ricordo la grande eccitazione dopo otto anni di presidenza Eisenhower. Parte di quella sensazione era dovuta all’eleganza di John e Jackie, ma anche alla bellezza do Bob e Ted. Era la cosa più vicina che un americano potesse provare rispetto all’aristocrazia. Poi una serie di tragedie ha infranto quel sogno, e il giovane Ted si è visto costretto a diventare patriarca. Pensa all’immagine di qualche anno fa, quando fu costretto a riconoscere e recuperare la salma di John Jr. dopo l’incidente aereo. C’è molto di shekespeariano nei Kennedy, e Ted ha avuto il ruolo più difficile e meno glorioso. […] La maturazione e trasformazione di Ted Kennedy è proprio in questo atteggiamento, conquistato nel dolore.

Estratto dall’intervista di Antonio Monda, “la Repubblica”


Jonathan Safran Foer

Ho sempre condiviso l’agenda del vecchio Leone, l’ultimo progressista americano temerario, spavaldo e scevro da compromessi. […] I liberal radicali di ieri sono i conservatori di oggi, proprio in virtù delle lotte da lui intraprese, spesso a rischio personale.
La sua eredità politica è all’altezza di quella dei fratelli JFK e Robert?
Penso che sia addirittura più grande, perché a Washington ha realizzato ben più di loro. La sua eredità personale è destinata invece ad essere minore perché la morte prematura di John e Robert li ha destinati al mito. Certo Ted può aver agito in modo irresponsabile in molte occasioni, ma la sua coscienza ha fatto molto più bene che male. […] Con il suo operato ha migliorato e anche salvato le vite di milioni di persone. La sua influenza è stata assai maggiore sulle generazioni prima della mia, forse perché i suoi trionfi legislativi più importanti sono venuti circa un decennio fa e anche prima. Purtroppo la mia generazione è impermeabile alla politica. Obama sembrava l’unico che fosse riuscito a penetrare quel muro di apatia, che adesso è tornato ad innalzarsi intorno a lui. Per i giovani americani Kennedy è un marchio, più che un simbolo.
Il clan occupa un posto magico nell’immaginario collettivo dell’America. I Kennedy non sono persone comuni in carne ed ossa, ma qualcosa di più: sono supereroi.

Estratto dall’intervista di Alessandra Farkas, “Il corriere della Sera”


Foto: Ted Kennedy pensa a come andrà a finire la riforma sanitaria dell'amico Barack

domenica 23 agosto 2009

"Nanda" Pivano: un'americana a via Manzoni

di R. Castoro
Un paio d’anni fa, in un momento di superficiale sconforto, pensai di dover incontrare Fernanda Pivano. Alcuni dei suoi libri riposavano sulla mensola del soggiorno e non potevo – mi dissi – essere così vicino alla donna che aveva influenzato la mia sommaria adolescenza senza interrogarla e dissertare con lei di problemi che avrebbero, verosimilmente, reso meno sommaria e rifinito la mia adolescenza. O ciò che ne restava, e resta.

Un amico che l’aveva intervistata mi rivelò la strada in cui abitava a Milano. Trotterellai per via Manzoni, in pieno centro, vagliando minuziosamente ogni portone, anfratto, porticina, cavedio, verificando i cognomi sui citofoni e sorprendendo giardinieri interrogativi che, guardandomi, innaffiavano le oasi clandestine di piante colorate e fragranti che Milano è abilissima a nascondere. Da nessuna parte trovai scritto il cognome Pivano. Allora immaginai la sua vita dentro una delle numerose case che, discrete, celano gli abitanti dei palazzi, intenta a muoversi fra chilometri di libri e vociando di pace e Kerouac, insieme a parenti e curiosi, con un tono stentoreo perché – come mi aveva riferito l’amico giornalista – “a volte non sente molto bene, e le capita di avere momenti di entusiasmo intensissimi”.

Non parlai mai con Fernanda Pivano, e il mio proposito di disturbarla al citofono, correre per le scale e bere un tè nel suo salotto, naufragò quel pomeriggio fra i bastioni di piazza Cavour e il teatro La Scala, rassicuranti confini di via Manzoni. Provai a telefonare. Il numero giunse dal solito amico dell’intervista trascorsa. Rivelatosi, il recapito telefonico, irrimediabilmente inesistente, non posso più giurare sul fatto che Fernanda Pivano vivesse proprio in quella parte di Milano, che fosse un po’ sorda e avesse momenti di entusiasmo intensissimi. Decisi allora di riaprire il primo suo libro letto in adolescenza.

Beat Hippie Yippie raccoglie articoli, saggi, interventi pubblicati fino al 1977, ed è, nel complesso, un dipinto colmo di dettagli, artisti imbranati, utopisti isterici, ciclostili inceppati, scrittori geniali, attori in pellegrinaggio, falò di cravatte, una storia animata del movimento underground e contestatario in tutte le sue schegge, iniziando dalle origini avanguardiste degli autori beat censurati, passando per il “De Andrè americano” Bob Dylan, fino a sfiorare le domande esistenziali di una “nuova sinistra” prossima alla scomparsa nel momento esatto in cui prendeva coscienza della propria presenza. Di quelle pagine, che tratteggiano personaggi come Henry Miller, Gregory Corso, Allen Ginsberg (in foto), tirano le orecchie a Jack Kerouac e teneramente piangono la sorte di Neal Cassady – anima squattrinata della generazione beata, morto passeggiando per i binari di San Miguel de Allende – ricordo che sottolineai pochi insulsi passaggi. Uno dei primi capitoli narra di alcol e droga: lì evidenziai avidamente, in chiave libertaria, le righe in cui si spiegava come perfino Omero, nell’Odissea, avesse descritto e celebrato sostanze allucinogene, le stesse che alimentavano l’immaginario di chi, dal dopoguerra in poi, sognò un mondo libero, anticonformista e pacificato. La seconda volta che lessi Beat Hippie Yippie – con alle spalle altri libri di Fernanda Pivano, come la sua Antologia di Spoon River e le traduzioni di Hemingway – compresi definitivamente il valore globale di quei lavori, essenziali nell’intuizione – condivisa dall’amico, innamorato e mentore, Cesare Pavese – di osservare il presente e il futuro letterario attraverso le pagine degli autori americani.

Mailer, Scott Fitzgerald, Burroughs. Ma anche Bukowsky e, recentemente, Palahniuk e Foster Wallace. Sono solo alcuni degli autori scoperti e apprezzati da Fernanda, protagonista di una straordinaria opera divulgativa che racconta l’America sui libri dalla febbricitante età del jazz, fino al gruppo minimalista e alla corrente avantpop (il filo rosso della rapsodia musicale è evidente, in questa galoppata letteraria, dal momento che proprio da un album jazz del compositore d’avanguardia Lester Bowie la banda di scrittori alla Jonathan Lethem ha tratto ispirazione).

Quello che resterà, in fondo, è lo spirito con cui “Nanda” ha disegnato la parabola conturbante di una genia di autori che non poteva essere raccontata altrimenti. Amava quegli scrittori americani in virtù della “vecchia, tradizionale differenza fra letteratura pragmatistica e letteratura accademica, fra i fatti della vita e una letteratura libresca basata su indagini psicologiche”. Preferiva parlare di quotidianità e i suoi reportage mischiavano la critica al cibo preferito degli artisti, ai loro gesti, ai tic meno educati e formali. Su internet circola un’intervista in bianco e nero che la Pivano cerca di condurre, per la Rai, con Jack Kerouac, spelacchiato, bicchiere in mano, ubriaco, il quale alterna suoni onomatopeici e frasi come “Se non avessi scritto avrei fatto il postino. Amavo andare in bici ed avrei avuto la possibilità di leggere. Ora pubblico per guadagnare migliaia di dollari. Chi mi ha ispirato? Non Dante, non Leopardi – pausa di riflessione – e neppure Petrarca.”. Così intensamente legata alla vita, Nanda ha evitato di formalizzare boriose teorie critiche così come capita di scordare, per sbadataggine, di aggiungere lo zucchero al caffè. “Grazie a Dio ci sono questi ragazzi di 18 anni che mi mandano le loro poesie, i loro racconti, i loro auguri e mi chiedono suggerimenti su come fare a superare le tragedie della vita”, ha scritto poco più di un mese fa, nel suo ultimo articolo, rivelando implicitamente anche il motivo per cui io, in passato, decisi di scorrazzare per via Manzoni alla sua ricerca. Un approccio antiaccademico che Fernanda Pivano ha, in qualche modo, scontato e che potrebbe perfino – qui si svela un retroscena pruriginoso – far storcere il naso a diversi autori di questo blog letterario, per cui realtà e finzione seguono percorsi differenti, mentre i poeti della Nanda hanno rigorosamente “vissuto e scritto senza distinguere fra arte e vita”. “Mi hanno attaccata per non aver mai valutato i libri: ma io mi sono limitata ad amarli, non a valutarli. Questo lavoro lo lascio ai professori”. Cara Nanda, ben fatto.
Foto: Fernanda Pivano e l'amico-poeta Allen Ginsberg "accalorati" dal dibattito letterario.