Il giudice sul mulo Periodico perenne di linguaggi letterari.

mercoledì 26 dicembre 2007

Quarta lettera di Ezechiele Lupo al Giudice sul mulo – La festa dei personaggi-lettori

Carissimo Giudice sul mulo,
come avrà notato le mie lettere sono state molte meno di quante sia io sia Lei ci potevamo aspettare, quando esattamente un anno fa Lei faceva nascere questo spazio. Ricordo perfettamente il momento in cui (Lei me lo ha raccontato più volte, o forse io l’ho immaginato tante volte quante avrei voluto che Lei me l’avesse raccontato) un’idea tanto bislacca Le venne in mente: mi disse che si trovava in Turchia (o forse in Iraq) e sotto le mentite spoglie di un miniaturista cranico, cercava di mascherare con simulazioni e dissimulazioni la Sua vera identità, della quale ormai tutti sono venuti da tempo a conoscenza. Mi raccontò dell’incontro con quel commediografo tedesco M. N. Tugennov, di cui, tra parentesi, su Suo consiglio, ho appena terminato di leggere l’ultima versione dell’ultima commedia edita in vita (sì, caro giudice, proprio quella in cui il protagonista si finge autore di una lettera, ed in questo modo sposa la figlia di un commediografo tedesco, ma, scoperto, fugge in Iraq (o in Turchia), dopo essere stato cooptato dall’Iran quale spia del regime), e del vostro dialogo avvenuto sulle rive del Corno D’oro, proprio di fronte alle Piccole Isole. Ricordo il racconto della Sua fuga e della morte del povero autore: inseguiti dal controspionaggio saudita Lei e Tugennov, dopo esservi tuffati nel lago avete nuotato fino all’altra sponda, sotto i colpi secchi e nitidi dei proiettili che si inabissavano. Raggiunto il villaggio più vicino, ricordo, avete incontrato il Bibliotecario Nahro che vi ha offerto protezione, cibo e la possibilità (tremenda, incredibile, terrificante) di scegliere un libro a testa della sua biblioteca circolare, ordinata da “Infinito-A ad Infinito-Z”. Vi bastò poco per accorgervi che le storie all’interno delle opere non corrispondevano ai titoli: il Principe Miškin non era un idiota ma un feroce capitano di vascello, mentre non c’era nessuno strano caso che riguardasse il dottor Jekyll. Eppure, così mi raccontaste, pur mancando una referenza tra i personaggi e le azioni, pur essendo stato infranto quell’orizzonte d’attesa che Lei e Tugennov possedevate nei confronti di quei libri, quegli intrecci così diversi dagli “originali”, raccontavano le stesse storie degli “originali”. I racconti “parlano” sempre di quattro cose: Razionalità, Memoria, Leggerezza e Letterarietà. Lasciata la Biblioteca di Nahro, passaste, se ricordo bene, per il Ponte Capovolto: è lì che Tugennov mostrò la sua vera natura. M. N. Tugennov fu troppo pavido per continuare con lei la fuga, e pensò ad un ritorno. Vi salutaste e vi scambiaste quei due preziosi oggetti in segno di un’amicizia eterna. Purtroppo (so dai Suoi racconti o giudice) Tugennov, capovolta la strada, non riconobbe il ritorno e fu subito catturato dal controspionaggio e processato. Di lui non si seppe più nulla. Il Giudice sul Mulo, che è Lei, offre una Possibilità (che è poi quanto di più vicino ci sia ad una Scelta): leggere e ri-scrivere finzioni, oppure, leggere e ri-scrivere di finzioni. In un anno io, Dott. Ezechiele Lupo, pur con enormi (insormontabili direi) difficoltà ci ho provato, e con me tutti quei personaggi/ri-scrittori che hanno contribuito alla fortuna di questo Suo spazio, e dei suoi 25 lettori, che ereditiamo da Alessandro Manzoni. Questo volevo dirLe. Questo è quello che ricordo. Ma forse, ripeto, mi sbaglio. Sbaglio tutto. Forse l’idea di questo spazio, Le è venuta dopo il pranzo di Santo Stefano dello scorso anno, tra i fumi dell’alcool?
A presto.
Un abbraccio, caro Giudice sul mulo

Il Suo,
Ezechiele Lupo
Dott. Ezechiele Lupo
Medico Virologo
Schöneberger Ufer 75,
D-10785 Berlin, Deutschland.

Il Dottor Lupo riceve dal lunedì al sabato dalle 10 alle 13 e dalle 14.30 alle 17.30 nel suo studio in Charlotenstraße 39.

lunedì 24 dicembre 2007

Il contrario della polvere

di Ezechiele Lupo

Il contrario della polvere
Il riflesso abbassato della cima
Il nome in comune
Decide chi parla con le parole

Il contrario del nome
Il riflesso in comune
Scrive chi decide di parlare

L’incerto dell’attesa
Il coperchio della china
Si rompe nel contrario

Il riflesso nello schermo
Abbassa l’apertura delle ali
E schiude la mano.

La verità è il rovescio del foglio

sabato 22 dicembre 2007

Glossolalia del dolore

di Norberto Giffuri

Il male s’affossa in un punto
A spire s’attorciglia
Poi s’incunea
Come coda di scorpione
Dunque punge
Squarcia il costato
Nella gola uno schianto
Glossolalia del dolore

Il male oscuro
È questione di un momento
Tempo non concede
Per ragionare un pianto

mercoledì 12 dicembre 2007

La compassione di Cristina - ultima parte

di Nepomuceno Sadda

Poi un giorno quando credevo che, insomma, sì, credevo che l'avrei baciata da un momento all'altro...un giorno mi disse “Sai, questo weekend mi sono trovata un ragazzo!”. Se ci fosse stato silenzio nell'aula avreste sentito il rumore, crack, del mio cuore che si spezzava.
Ma non mi persi d'animo, non morì la mia speranza. Continuai a vederla, cominciammo ad uscire la sera, al cinema, il suo ragazzo non c'era e io fingevo che lei fosse mia soltanto.

Venne l'estate e ci separammo, lei in Spagna, io a rincorrere i miei stupidi sogni in giro per l'Italia. Le scrissi tre cartoline, lei solo una. Mi bastò. Torno l'autunno, ripresero i corsi. Ci rivedemmo, ricominciò la nostra routine. Ma qualcosa era cambiato. Mi abbracciava, mi telefonava spesso, mi chiedeva di andare al cinema, a teatro. Venni a sapere che aveva lasciato il suo ragazzo. La speranza che in quei mesi aveva atteso sottocenere ora ardeva vivida e vigorosa.

E poi capitò che la baciai, un pomeriggio che eravamo saliti tra le guglie del Duomo..ma poi forse mi confondo…l’avevo baciata mille altre volte: sulla spiaggia, sotto i portici, seduti al parco, davanti alla porta dell’aula, sulla ruota panoramica, sulle scale di casa sua, sul balcone di casa mia, sull’altalena, dietro la siepe, sul treno, in auto, nel prato… l’avevo baciata fin dal primo giorno, proprio lì, tra gli scaffali della biblioteca e l’avevo baciata ogni notte per più di trecento notti.
Una sera, mentre passeggiavamo sul lungolago, mi prese a braccetto e si confidò: “Hai atteso per tanto tempo, mi sei sempre stato accanto, ho capito che avresti fatto qualunque cosa per me…ti vedevo solo, triste a volte, sfiduciato e mi facevi così pena…poi, ricordi questa estate? Per due mesi non ci siamo visti…e ho compreso quanto fossi importante per me…”.
La baciai di nuovo, con forza, profondamente, stringendola per le spalle e inarcandole la schiena, con una irruenza che non mi conoscevo.

Fu durante la notte che capii. Compresi le ragioni del mio impeto: non era amore ma rabbia. Non ardore né sfrenata passione ma il manifestarsi di una lacerante consapevolezza. Ripensai alle sue parole, e mi facevi così pena, le giravo e rigiravo nella testa, ho capito che avresti fatto qualunque cosa per me…ecco il punto, l’improvvisa, inopinata verità dei fatti: l’avevo presa per sfinimento, per compassione.
Quella notte smisi di amarla.
Fine

lunedì 10 dicembre 2007

La compassione di Cristina

di Nepomuceno Sadda


La vidi per la prima volta in biblioteca. Leggeva un libro seduta in una posizione insolita, una gamba sollevata fino a trovare un appoggio sulla sedia e l’altra accavallata penzolante di lato; il gomito destro puntellato sul tavolo, la mano che reggeva il mento, la piccola testa leggermente inclinata e quei riccioli biondi che cadevano tutto intorno celando parte del viso. Mi sedetti dirimpetto, a due file di distanza. Non studiai. La mia concentrazione cedette all'assalto della sua bellezza. Prima d'allora avevo pensato al colpo di fulmine come eventualità probabile solo in una steppa spoglia d'alberi, in totale assenza di barriere architettoniche naturali e durante un fortunale. Quel giorno mi convinsi che era possibile anche in una biblioteca universitaria.

Fu grande la sorpresa quando la rividi a lezione. Frequentavano entrambi il corso di Estetica. Una meravigliosa coincidenza. Non era facile avvicinarla nella bolgia delle prime lezioni del semestre accademico. Riuscii finalmente a sedermi strategicamente di fianco a lei solo due settimane dopo. Ricordo ogni tentativo non riuscito come se fosse ieri, anzi, come se fosse oggi. Ma non voglio tediarvi con la cronaca dei miei insuccessi. Concentriamoci ora su quella mattina d'autunno che, sì, per la prima volta le sedevo accanto.

Inaspettatamente mi rivolse la parola. Se così non fosse stato probabilmente sarei ancora piantato su quella sedia in attesa del momento giusto, ragnatele sulla schiena e polvere nei capelli. Davanti a me, sul banco, avevo appoggiato un libro di Boris Vian, mio diletto in quel periodo di castelli in aria. Le sue labbra carnose che tanto anelavo mi porsero queste parole “Conosci Vian? Adoro La schiuma dei giorni, l'hai mai letto?” Certo, l'avevo letto. Che l'avessi fatto o no poco importava, in tutta sincerità non rammento se lo lessi prima o dopo quell'incontro, ma in quell’ istante era cruciale affermare baldanzosamente di averlo trovato splendido e poetico ed emozionate e aggiungete formule d'elogio a vostro piacere.

Fu così che la conobbi. Da quel giorno le tenni il posto a lezione. Per evitare di trovare tutte le sedie occupate modificai i miei orari. Sveglia anticipata, treno diretto per Milano invece del solito catorcio per pendolari patologicamente in ritardo e posizionamento in pole position davanti alle porte dell'aula prima dell'apertura. Venne dicembre e il corso terminò. Così, oltre agli orari, modificai il mio piano di studi per ritrovarla il semestre successivo. Quanto fu penoso, tormentato, quel gennaio senza lei. Quando la rividi, sorridente davanti all'aula, alla ripresa delle lezioni, poco ci mancò che mi le mie gambe subissero un cedimento strutturale. E furono ancora i suoi riccioli biondi, le sue labbra carnose. Poi vennero le pause pranzo trascorse insieme e le passeggiate per una Milano che la primavera riusciva quasi a far bella.

Parlammo di amicizie sfiorite, dei giochi dell’infanzia, di viaggi mai intrapresi, di genitori invadenti, delle cicatrici dell’amore, dei nostri miti, della routine della vita, degli interessi abbandonati per cause di forza maggiore, dei nostri risparmi bancari tendenti allo zero, dell’ultima volta che scoppiammo in pianto e dell’ultima che ci ubriacammo, del senso di libertà di una passeggiata in un bosco, di quanto fossimo fortunati ad essere universitari smidollati, di occasioni sprecate e di perle ai porci, di personaggi per i quali l’ostracismo sarebbe da ripristinare, della sonnolenza della domenica pomeriggio nella provincia cattolica, di abbracci insinceri, di quella volta che…, di peripezie automobilistiche, delle mie escursioni solitarie e di egoismo, delle nostre aspirazioni, della volontà di fuga, degli esami universitari incombenti, delle abitudini sessuali dei greci, di cieli plumbei e di metereopatia, di serate buttate in stupidi locali, di sapori mediterranei, di matrimoni affrettati ed insomma dei nostri passati remoti e prossimi, dei nostri presenti e dei giorni futuri, del nostro modo di spiare il mondo dal buco della serratura.
(continua...)

martedì 4 dicembre 2007

Pensava al risotto

di Nepomuceno Sadda

“Stanotte ho avuto un incubo.”
“Racconta su!”
“Hai presente un labirinto?”
“Siepi o muri di cemento?”
“No cemento…nemmeno siepe…bianchi di plastica parevano…comunque non è importante per il proseguo della fabula.”
“Tu dici? Potrebbe essere importante.”
“Davvero? Comunque c’è questo labirinto. Lo osservo dall’alto, ho una visione totale, divina, direi. Dentro ci sono delle persone. Non riconosco i loro volti ma so che mi sono care…”
“Senza sapere chi sono?”
“Sì, te l’ho detto. Lo so e basta. Sono intrappolate e disperatamente cercano l’uscita. Corrono, s’affannano, inciampano, sbattono una contro l’altra…piangono e urlano e io sono lontana e non posso fare nulla.”
“Fine del sogno?”
“No. Ti ho detto che il labirinto non ha uscita? Io lo so, lo vedo, ma loro no, sperano, e la speranza li costringe a vagare incessantemente, senza posa, eternamente…voglio dire loro la verità, che non c’è via, non c’è uscita ma la voce mi si smorza in gola…non esce che un grido rauco…e poi mi sveglio.”
“Fine del sogno?”
“Ti ho appena detto che mi sono svegliata.”
“Magari era uno di quei sogni ricorsivi, quelli che sogni di svegliarti ma sei in un altro sogno…”
“No, sono estranea a queste finezze, io.”
“Beh, e qual era la tua sensazione al risveglio?”
“Disagio e impotenza.”
“Ecco, sai succede anche a me di sognare cose così: intendo situazioni nelle quali sono impossibilitato ad intervenire da forze di causa maggiore…il senso di disagio non nasce dalla mia inadeguatezza o dalla mia incapacità di cambiare le cose…no, è dovuto alla logica perversa del sogno…l’impotenza è imposta da una volontà suprema alla quale devo sottostare…mi ritrovo in balia degli eventi e non posso agire per ragioni che dipendono da un oscuro disegno del cosmo, non dalla mia volontà…”
“...oh Gesù, tu dopo un incubo ti costruisci la tua bella filosofia?”
“Beh, che c’è di strano?”
“Io ho solo pensato al risotto della sera prima e che forse non l’avevo digerito. Così mi sono alzata e ho preso la citrosodina.”
“Siamo diversi insomma. Io sono tutto pensiero, tu tutta azione.”
“Questo comporta qualcosa?”
“Probabilmente avremo in futuro qualche problema di comunicazione. Ci muoviamo su piani differenti, forse sarà difficile rimediare se mai ci fosse una crisi.”
“Oh caro, ma io so come puoi rimediare…”
“Come?”
“Comincia col baciarmi.”

venerdì 30 novembre 2007

Dediscere

di Nepomuceno Sadda

Una giornata d’autunno. Stavo preparando lo zaino per la lezione pomeridiana di inglese. Squillò il telefono. Rispose mia madre. Ascoltai il suo parlottio per qualche minuto, piacevolmente rapito dall’intonazione melodica del discorso, evidentemente disinteressato al suo senso. Mia madre riagganciò e dopo qualche secondo si palesò sull’uscio della mia camera: “Ha telefonato la mamma di Nadia. Ha chiesto se ti piacerebbe passare da casa sua per confrontare i compiti prima della lezione”. Non chiedevo altro, ma finsi di accettare con riluttanza. Infilai giacca e zaino e corsi in strada. Mia madre aveva capito tutto, come sempre.

Amavo guardare Nadia, in classe, seduta composta a due banchi di distanza: quella era la misura della mia felicità: giusto due banchi, m’accontentavo di niente. Lei ricambiava le mie attenzioni con sorrisi. Sguardi con sguardi. Amavo sapere che i suoi occhi azzurri fissavamo me e nessun altro in quegli istanti. Quanto avevo fantasticato attorno a quegli occhi? Tanto da farne il centro del mio ingenuo universo.

Per la strada mi ritrovai ad osservare il cielo con un’accezione romantica che non conoscevo. Cumulonembi disegnavano draghi alati e là sotto la campagna intimorita s’acquattava tra i rovi. Un sorriso affiorava sulle mie labbra e non c’era modo di tenerlo a bada. Sorridevo di tutto mentre gustavo un nuovo sapore, come se, improvvisamente, le cose del mondo avessero manifestato una nuova essenza.

Con passo svelto raggiunsi il cancello di casa sua. Era aperto e proseguii rapido verso la porta d’ingresso. Sua madre mi salutò, ricambiai imbarazzato e mi relegai nel silenzio…già mi accompagnava verso la camera di Nadia, tenendomi una mano sulla spalla.

Lei era lì, seduta sul letto. Indossava un maglione bianco candido e una gonnellina scozzese dalla quale sbucavano piccole gambe aggraziate coperte da collant bianchi altrettanto candidi. Sua madre ci lasciò soli. Con slancio vitalistico iniziai a parlare della scuola, dei professori, della verifica di matematica e di altri argomenti correlati. Discutemmo per una decina di minuti, cercando di vincere la reciproca titubanza. S’incrociarono più volte i nostri sguardi e dietro quegli specchi azzurri non potevo non leggere una nuova consapevolezza. Lei giocava, facendo svolazzare con la mano un lembo della sua gonnellina. D’un tratto scostò leggermente una gamba di lato, sollevò giusto un poco di più la gonna e per un istante intravidi le sue mutandine: bianche com’erano bianchi i collant com’era bianco il maglione che però non percepivo più candidi: mai più lo furono. Fu allora che davvero cambiò il mio mondo. Non fantasticai più attorno ai suoi occhioni azzurri. Due banchi di distanza mi sembrò una misura inadatta per la felicità. Mi avvicinai e poggiai le mie labbra sulle sue. E fu così che disimparai l’amore.

lunedì 26 novembre 2007

La giusta moneta

di Florian Alexander


Ogni cosa in questo Mondo
Ha la sua moneta.
I Sogni si pagano con l’Incoscienza,
La Sicurezza con la Libertà,
L’Uguaglianza nella stessa maniera.
L’Amore si salda col Tempo,
Gli Ideali con il Sacrificio,
E la Conoscenza col Dolore.

giovedì 22 novembre 2007

Facilità

di Ezechiele Lupo

Un blitz facile facile
Imperla la fronte di sudore
Divide l’olio dall’acqua
L’isola dal mare

Un’immagine facile facile
Divide la leggerezza dal groviglio
Il sudore dalla gamba
Asciuga il fiore dalla pioggia

Un risorsa facile facile
Insiste e finisce
Divide e moltiplica
Si spoglia tra le lenzuola

Appende la piuma
Chi scinde la mente

venerdì 16 novembre 2007

L'uomo sul trampolino (ultima parte)

di Tobia Deruna

Il suo corpo è più rilassato, i lineamenti del suo volto meno rigido. L’uomo sul trampolino ritorna alla sua apatia.
L’aria è smossa lentamente dai moscerini. L’uomo sul trampolino riprende ad aspettare. I minuti, forse ore, forse giorni riprendono a trascorre lenti, senza fretta…
Di colpo nuovamente l’uomo sul trampolino si ridesta dal suo torpore. E’ preso da un sospetto tremendo. Corre verso la punta del trampolino. Il suo sguardo si getta verso il basso, verso il vuoto.
La piscina e la sua acqua laggiù ora sono lontanissime, quasi invisibili. I volti del pubblico sono puntini indistinguibili. Quanto si è alzato il trampolino, mentre lui aspettava? Quanto si è allontanato da laggiù, dall’acqua placida e calma della piscina?
Quanto si è allungato il vuoto che lo separa dal resto del mondo mentre lui aspettava, rifiatando, minuti, forse ore, forse giorni? Riuscirà più l’uomo sul trampolino a gettarsi, a buttarsi nel vuoto, a superare quella paura che più il tempo passa e più si dilata?
L’uomo sul trampolino e là fermo sul trampolino e domande come queste affollano la sua testa.
Vorrebbe saltare ma un enorme paura lo blocca e quindi lui aspetta. Aspetta silenzioso minuti, ore, forse giorni…


Nessuno sa se l’uomo sul trampolino si sia mai gettato nel vuoto. Nessuno lo ha più visto quando le nubi hanno incominciato ad avvolgere il trampolino.

Fine

sabato 10 novembre 2007

L'uomo sul trampolino (seconda parte)

di Tobia Deruna
Di colpo l’uomo sul trampolino si ridesta. Quanto tempo è passato? Perché lo ha lasciato passare? Quanti minuti, ore, forse giorni sono passati?
L’uomo sul trampolino non sa dirlo.
Non sa dire quanto tempo abbia perso lassù nell’inazione più completa.
Perché si è compiaciuto nel rimandare e rimandare quel salto fondamentale? Perché ha deciso di non affrontare l’emozione di quella prova ed ha atteso tanto?
L’uomo sul trampolino non sa darsi una risposta. Sa solo che ora non può più rimandare il fatidico momento.
Sa che ora dovrà vincere la sua paura, la sua emozione e librarsi leggero nel vuoto, fuggendo da quella torre d’avorio in cui è rimasto rinchiuso minuti, forse ore, forse giorni. Dovrà rompere quella bolla di cristallo che lo ha tenuto prigioniero tanto tempo.
L’uomo sul trampolino si dispone al salto. Il suo corpo ora è di nuovo teso. Il suo cuore ha ripreso a battere in maniera concitata. I suoi muscoli sono di nuovo tutti contratti.
L’uomo sul trampolino pensa che dovrebbe trovare la forza di saltare così, semplicemente, senza pensarci. Uno, due, tre e spiccare il volo.
L’uomo sul trampolino incomincia a contare dentro di sé. Uno…Due…Due e un quarto…Due e mezzo…Due e tre quarti…T…
E invece no, ancora quell’incertezza, ancora quella tensione, quel pensiero fisso e terribile del vuoto.
L’uomo sul trampolino non riesce. Sente di non riuscire. Di non potere riuscire.
Eppure sa che deve riuscire, non può non riuscire.
Non ha altra possibilità che riuscire.
Ma come?
L’uomo sul trampolino si guarda ancora attorno, lento. I suoi occhi ruotano nello spazio circostante. Guardano in alto, in basso, di lato. I suoi piedi si muovono lenti verso la punta del trampolino.
E d’improvviso l’uomo sul trampolino si accorge di una cosa strana. Gli sembra che l’altezza del trampolino, mentre era assorto, mentre lasciava passare senza fretta i minuti, le ore, i giorni sia aumentata, raddoppiata, moltiplicata.
Gli sembra che i volti degli spettatori rivolti laggiù verso di lui si siano fatti lontani, lontanissimi, irraggiungibili.
Gli sembra che l’acqua della vasca sia mille volte più lontana di prima.
Il rettangolo della piscina pare diventato più piccolo laggiù.
Ma l’uomo sul trampolino ora non vuole pensarci. L’ansia di un attimo fa si è allentata. Il suo respiro si è fatto più regolare. I suoi muscoli sono più distesi. Le gocce di sudore che imperlavano la sua fronte se ne sono andate con l’aria.
L’uomo sul trampolino ora è di nuovo, all’inizio del trampolino con lo sguardo perso nel vuoto.
(continua...)

lunedì 5 novembre 2007

L'uomo sul trampolino (prima parte)

di Tobia Deruna

L’uomo sul trampolino.
L’uomo sul trampolino è appena salito sul trampolino. Ha percorso lento l’asse flessibile sino alla punta. Sotto di lui l’acqua pulita e immobile della piscina.
L’uomo sul trampolino è fermo. Là, sulla punta del trampolino. L’uomo sul trampolino è al suo primo vero tuffo e si sente piuttosto teso. Ogni suo muscolo è contratto. Sotto di lui vede l’enorme pubblico silenzioso, in attesa.
L’uomo sul trampolino si guarda intorno. Il suo respiro è lievemente affannato. Forse l’uomo sul trampolino ha un po’ paura.
Oppure non ha paura, ha solo poco coraggio. Il che forse è la stessa cosa, ma in ogni caso l’uomo sul trampolino non saprebbe dargli un nome..
L’uomo sul trampolino si guarda nuovamente intorno. Guarda la vasca in basso, guarda gli spettatori, piccoli puntini a testa in su.
L’uomo sul trampolino sa che deve buttarsi, ma vuole aspettare ancora un secondo. Gli occhi degli spettatori in basso sono rivolti tutti verso di lui. Ma l’uomo sul trampolino la in alto è ancora fermo. Il suo volto è indecifrabile. Il suo corpo è flesso come quello di un atleta antico. I suoi occhi roteano lenti tutt’intorno, come a studiare ogni angolo della minuscola asse che lo sorregge.
Perché è salito fin lassù? - si chiede forse l’uomo sul trampolino. Cosa l’ha spinto ad arrivare là in alto? L’uomo sul trampolino non sa darsi una risposta. Tutto ciò che sa è che ormai non può più tornare indietro. Sa che l’unico modo per scender da lassù è librandosi, gettandosi nell’aria lieve che accarezza la sua pelle, che sibila sotto il lieve frusciare dell’asse flessibile.
L’uomo sul trampolino guarda di nuovo davanti a se. Vede il vuoto. Il vuoto carico di tante minuscole particelle d’aria, molecole d’ossigeno invisibili, impalpabili eppure sempre presenti.
L’uomo sul trampolino pensa che dovrebbe prendere una rincorsa. Dovrebbe ritornare indietro, ritrovare la convinzione e ripartire. Ma l’uomo sul trampolino non riesce a fare neppure quello. I suoi occhi sono persi nel vuoto davanti a sé e si muovono lentissimi come a misurare i contorni di quel microcosmo che lo contiene.
Ora però il respiro dell’uomo sul trampolino si è fatto più tranquillo. L’uomo sul trampolino esamina e riesamina lunghezza, forma e consistenza di quel pezzo di legno sospeso nel vuoto che lo isola dal resto del mondo.
Il suo corpo ora è più bilanciato. L’uomo sul trampolino sta rifiatando.
I suoi piedi incominciano a muoversi piano in senso inverso, verso l’inizio del trampolino.
La tensione di prima si è allentata.
L’uomo sul trampolino lentamente torna all’inizio del trampolino, là dove il trampolino si congiunge alla scaletta. I suoi occhi si muovono ancora lenti a misurare lo spazio intorno a sé.
L’uomo sul trampolino sembra non avere più fretta.
La concitazione di prima sembra sparita. Il pubblico dal basso rimane in silenzio e osserva l’atleta che arretra.
L’uomo sul trampolino lasciare passare i secondi, forse i minuti, forse le ore. L’uomo sul trampolino ora è lì fermo, all’inizio del trampolino. Forse non si rende conto del tempo che passa. O forse semplicemente non riesce a quantificarlo. Forse minuti, forse ore, forse giorni.
L’uomo sul trampolino sa che deve buttarsi, ma crede che non sia ancora il momento.
O forse s’illude semplicemente che i minuti, le ore e i giorni, che il tempo potrà scacciare la sua paura di librarsi nel vuoto.
L’uomo sul trampolino sembra non avere più fretta. Il suo sguardo è perso nel vuoto.
Solo il ronzare dei moscerini incrina il silenzio. Solo l’aria tiepida muove leggera i capelli dell’atleta.
L’uomo sul trampolino aspetta…

(continua...)

domenica 28 ottobre 2007

Como: un posto tranquillo

di Florian Alexander

Dove andate? Chiese Disk a Nicole.
Da qualche parte con mia sorella: in un posto interessante, spero, perché ho perso tanto tempo. Ma forse diranno che dapprima devo stare in un posto tranquillo: forse Como. Perché non venite a Como?

Tratto da Tenera è la notte di Francis Scott Fitzgerald


È così che ti amo, Como. Spettinata dal respiro del lago, lucida e deserta. Sprofondata nelle armoniche del silenzio. Chiusa nel costato dei colli da tre lati, protesa verso il ventre del lago, accoccolata e luccicante sotto una luna smorta. Percorro la nuda schiena di Piazza Cavour, il salotto buono della città, lo sguardo sale il colle, verso Brunate, incontra un pulviscolo di luci zigzaganti tra le ombre dei boschi e infine trova l’iride gialla del faro che nella notte fa girotondo. Mi infilo sotto i portici, i negozi sono serrati, dorme Piazza Duomo tra lenzuola di tenue luci. Un lampione getta la propria ombra tra le mie braccia. Improvviso una danza attorno al suo torso rigido poi mi allontano svicolando tra i tavolini vuoti di un bar.
Como, sei tanto fredda stanotte, vorrei stringere le tue mani di pietra, baciare le tue labbra d’acqua dolce. Di giorno somigli ad una bella signora che con un colpo di ventaglio allontana infastidita la pletora dei suoi amanti. Ma quando cala l’oscurità e le tue vie deserte s’aprono all’eco dei miei passi, sei mia e mia soltanto.

giovedì 25 ottobre 2007

Senza titolo

di Tobia Deruna

Consuma nostalgie contorte,
come salice senza radici,
e il suo pensiero sa d’aceto,
bagnato da lacrime d’addio.

Ricorda spesso i giorni,
del melograno e del cotone,
ma già il ricordo s’avvita
e si fa spirale convulsa.

Sulla neve han messo il sale,
ed il mare è senza nubi,
ma il suo cristallo è pietra,
che non brilla più ormai.

Il canto d’un uccello
è eco di terre lontane,
dentro acqua che scivola,
senza potersi fermare.

domenica 21 ottobre 2007

Prima del diluvio

di Tobia Deruna

Ricordo i suoi occhi
prima del diluvio,
ricordo la sua voce e la fonte
prima del diluvio,
la sua voce e la fonte
prima del diluvio,
e ricordo i ciuffi d’erba verde
e i cristalli di pioggia,
ricordo i lampi, ricordo l’aria
e ricordo i corpi,
i corpi nella terra,
e la terra umida sotto i corpi,
prima del diluvio.

Questo e null’altro ricordo
del giorno del diluvio…

Ricordo la tenerezza
prima del diluvio,
ricordo le foglie
prima del diluvio
ricordo l’odore della terra
prima del diluvio
e l’odore della pioggia
e l’odore del grano
prima del diluvio,
e ricordo la sabbia e gli insetti
le sue mani e le formichine
prima del diluvio,
e le sue spalle e il suo sorriso
prima del diluvio.

Ricordo le lacrime
prima del diluvio,
le ombre e il suo volto
prima del diluvio,
e ricordo gli uccelli
e il loro canto cupo
prima del diluvio,
ricordo la terra che si muove,
ricordo le dita tra i suoi capelli,
ed i fiori appassiti,
prima del diluvio,
e ricordo uno steccato ed un pesce,
e il vento tra gli steli
ed un calzino stropicciato,
un riflesso nei suoi occhi
ed una goccia di pioggia sulle labbra
prima del diluvio.

Questo e nient’altro ricordo,
del giorno del diluvio.

lunedì 15 ottobre 2007

La leggenda di Ludvig

di Asincheraglia

Preso da un cattivo maestro, Ludvig accettò la lotta armata con entusiasmo infantile.
Il materialismo del sangue, in antitesi al freddo meccanicismo della pistola in metallo e latta, rassicurava la sua liquida personalità.
Del resto, odiava le ingiustizie da sempre. A 11 anni si era preso la briga di rubare la lente che quella fottutissima donna, detta sua madre, gli aveva autoritariamente espropriato, impedendogli di incendiare le nutrite colonie di formiche del cortile. Formiche fasciste, s’intende.
L’esuberanza del giovane si era stemperata in collegio, fra le gambe di un prete di nome Giuseppe che gli inculcò, fisicamente, il “messaggio divino”.
Terminate le scuole, più confuso che persuaso, si mise a guardare la vita.
Guardava la vita e guardava se stesso con gli occhi di un medico un po’ invasato e un po’ freudiano.
Ludvig non capì mai i criteri di felicità proposti dal dott., ma cercò di adeguarsi.
“Essere presenti in se stessi, nelle proprie azioni, nella propria esistenza. Riflettere.”
Non comprendeva perché, oltre a dover condurre una vita di merda, dovesse pure pensarci su.
Correva l’anno 2007 e iniziò un corso universitario. Fu contento improvvisamente, una notte, scopando allegramente e un po’ ubriaco dopo un concerto di marijuana.
Siccome non aveva pensato a se stesso, corse dall’invasato e freudiano, per concedersi una rivincita esistenziale. “Io parlo di felicità, non di contentezza” rispose il dott. barbuto.
Deluso, Ludvig avrebbe capito solo grazie al cattivo maestro che la felicità è borghese e non di tutti.
Seppellire una pistola non è un affare semplice. Ludvig sfogliava Gramsci.
Grazie al suo libro iniziò la lotta armata, utilizzando la copertina come paletta per dissodare il terreno e riporre il ferro.
Il cattivo maestro lo conobbe fra le mura universitarie.
In realtà non era cattivo (rimproverò Ludvig per l’episodio infantile delle formiche) e neppure un maestro (anzi studiava ancora, dopo più di 30 anni). Tuttavia, era un cattivo maestro.
Nelle campagne della pianura si mischiava il proletariato con l’ideologia.
Il cortocircuito fu immediato, dal momento che Ludvig non era proletario e, al massimo, aveva qualche idea.
Ancora una volta fu contento d’improvviso, esplodendo un colpo di pistola precisissimo contro un manichino di polistirolo e plastica.
Tuttavia, si crucciò subito dopo, non capendo se quel sentimento fosse di effettiva felicità o di evanescente contentezza.
Così, disse a voce alta: “E’ lecito domandarsi il perché l’uomo possegga la straordinaria capacità di porsi dei quesiti ai quali mai potrà dare risposta.”
Il cattivo maestro intervenne, sciorinando una salda sicumera e soluzioni per tutto.
La felicità rubata dai borghesi divenne, per Ludvig, un pensiero costante e snervante.
Sempre senza persuasione e con molta confusione, iniziò ad avere i suoi punti di riferimento.
La pistola e le sue potenzialità, il furto emotivo dei borghesi, un conto in banca sempre vivo grazie alle premure dei genitori lontani.
Cresciuto, si illuse di essere pronto ad affrontare questioni come la morte e la giustizia.
La notte fra il 3 e il 4 Marzo di qualche anno dopo, nascosta la pistola nei calzoni, si mosse verso la casa del dott. .
Seduto sulla poltroncina rossa di feltro, il vecchio era intento a scrivere un libro di trecento pagine, centellinato perché la felicità cogliesse il lettore dopo la penultima sillaba dell’ultima frase.
Una frase che non riuscì a vergare, sorpreso come fu da una scossa di pungente adrenalina alla schiena.
Era la pallottola che, senza consapevolezza, veniva scambiata per un istante di appagamento.
Ludvig rimase sospeso fra il sangue, il corpo, e la canna fumante della pistola.
Dalla mattina successiva, perso fra i Nebrodi siciliani, la storia smise di seguire le pieghe della vita di Ludvig, oramai imprigionato in una leggenda che resiste solo nelle camere oscure delle memorie più curiose.

giovedì 11 ottobre 2007

Espiazione

di C. Lavezzi

Infrangi il sogno di tremila giorni
E a quarant’anni aspetti la fuga
In quarant’anni le vite si dileguano
In quarant’anni il pulcino muore

L’insetto nell’ardere del fiammifero
Si distingue per grazia, stile ed eleganza
Vola sapendo di non volare
E di notte si getta da solo nell’inferno

Mi dici che è successo?
In quarant’anni avresti pesato le parole
Le parole d’amore aspettano tremila giorni

Intatta rimane la forma del monte
In quarant’anni il pulcino rinasce
Mille e novantasei micidiali anatemi di felicità

domenica 7 ottobre 2007

Quakers - ultima parte

di Norberto Giffuri

Li notò subito, accanto al parapetto. Un uomo, una donna, uno di fronte all’altra. Si staccavano i loro profili dal nero ventre del lago, immortalati così, nell’aura tenue della luce di un lampione che defilato osservava la scena. Una scena da romanzo rosa, una donna, un uomo e la notte, il lago, ma quella bizzarria, quella stramberia dello stare inginocchiati, immobili, come spiegarla ad una lettrice di Harmony o collana equivalente in contenuti e forma? Ma qui non si vuol far para-, si ha la pretesa di letteratura verace, istituzionale quasi…oddio dove siamo arrivati a furia di mulinare il pensiero sulle dinamiche del racconto, la nostra spocchia ci seppellirà tutti e così mi tocca dire che lei, la donna, aveva un nobile profilo, dolce, neoclassico, incorniciato da una cascata di riccioli, una vertigine di spirali che la brezza giocava a fare onde e lui, l’uomo, l’aveva virile, il profilo, un mento forte deciso, postmoderno addirittura. Si guardavano negli occhi, lei, lui, e il silenzio rotto dal respiro regolare del lago conferiva un tono sacrale, una fissità ieratica alla scena…una scena quasi da romanzo rosa, la notte, il lago, un uomo, una donna e distesa nei venti centimetri di spazio tra i loro visi l’eternità tutta o qualcosa che sapeva di essa.

E lui, l’alticcio, non fece altro che inebetirsi e osservare per cinque, venticinque, centoventicinque, seicentoventicinque, tremilacentoventicinque istanti…e la coppia: immobile…e lui altrettanto - immobile intendo-, e di fianco il lago, davanti il lago, altro fianco: stesso lago…e quel silenzio cadenzato dalle onde - c’è qualcosa di strano? Di silenzio si tratta o d’altro? – quella pace semplice di due amanti in ginocchio, una serenità che per anni aveva anelato e che poi aveva respinto, scaraventata nel pozzo nero nel quale ora stagnava con tutte le altre utopie. E fu come uno schianto accorgersi che basta così poco per…
…davvero tanto poco per…
…come quei due.

***

L’uomo accennò un movimento del capo. La donna rispose con un gesto altrettanto lieve. Lui si alzò, le tese il braccio. Lei prese la sua mano, si sollevò e fu al suo fianco. Lentamente raggiunsero il portico. Lo videro, lei sorrise.

“Now we are married.” Disse.
Fine

venerdì 5 ottobre 2007

Quakers - seconda parte

di Norberto Giffuri


Cinque minuti più tardi accostò l'auto davanti ad un ristorante. L'insegna al neon occhieggiava aggrappata ad un balcone. Vi posso assicurare che splendeva di una luce arancione cristallina e non certo di quel giallo opaco che lui, il ciucco, vedeva. E posso aggiungere che per il tragitto marciapiede-porta del ristorante solitamente occorrono molto meno di tre minuti..ma ora non pretendete che un siffatto giovane Bacco possa essere un centometrista sbronzo...accontentatevi di osservarlo mentre barcolla sui tre miseri scalini che lo separano dal terrazzo esterno...eccolo appoggiarsi con la delicatezza di una colata lavica alla ringhiera...e bradipamente issarsi verso la soletta, poi adagio, cauto, impegnato nella circumnavigazione di un tavolo e quattro sedie...una pausa di riflessione...altri 2 passi e una scritta sul vetro della porta: “chiuso”.

Si sedette con la schiena contro il muro. Il terrazzo girava, girava...e la lanterna di ferro battuto ballava la mazurca.


Si svegliò. Era ancora notte. Notte fonda. Lui non sapeva di aver dormito dieci minuti scarsi. Ma lo immaginò. Una falena incarognita batteva la testa contro l'insegna. Ronzava e sbatteva. Sbatteva e ronzava. Era un'immagine significativa che riassumeva una parte della sua esistenza....ma lui non afferrò al momento...lo capì solo in seguito......ma ora non mi va proprio di raccontarvelo.

Restiamo alla situazione ristorante. S'alzò non senza affanno. Proseguì in una direzione aleatoria, che fu questa volta pressapoco quella da sud-ovest verso nord-est. Le sue intenzioni deambulatorie cozzarono contro un muro. Un muro di pietra di una via stretta, quasi una scalinata, che scendeva verso il lago. Scese pure lui. Scivolò sotto un portico col soffitto a volta. Il buio giocò ad avvolgerlo in una coltre nera. Si fermò ad ascoltare il respiro regolare del lago e lo confrontò col suo, molto meno ordinato. Avanzò a passi tardi e lenti. Il molo si rivelò nella luce argentea della luna. Uno spiazzo d'erba affacciato sul lago, un parapetto di sasso e sulla destra una scaletta verso gli attracchi delle barche. Soltanto questo? No.

(continua)

domenica 30 settembre 2007

Quakers - prima parte

di Norberto Giffuri

Sfiancato, insonnolito, abbrustolito da un pomeriggio di abbronzo e sbronza scendeva la statale Regina infilando una curva dietro l'altra con un provvidenziale automatismo derivato da una lunga esperienza in fatto di guida oltre il tasso alcolemico consentito. I fari del vecchio fuoristrada immortalavano rocce, alberi, parapetti, qualche sparuto gruppo di passanti, e solitarie auto lanciate nella corsia opposta. Oltre il fascio giallognolo di fotoni tanto e tanto buio: una nera coltre segnata dagli occhi bianchi dei lampioni e dal ventre molle del lago, tutto punteggiato da un pulviscolo di riflessi d'argento che pareva un mondo di fiaba...ma, osservando nello specchietto retrovisore il suo volto teso e quelle pupille così acquose, dilatate, capì senz'altro che non si trovava nel regno delle fate ma in un mondo di sangue e ossa e terra umida nella quale piantare le unghie.
Era una notte d'agosto, insolitamente fredda, di quelle nelle quali i turisti tedeschi arrivano a sfoggiare maglioni di lana variopinti tanto pesanti quanto anacronistici. Le fronde degli alberi erano spettinate da un vento ruvido che sapeva un po' di vaniglia...- sì, proprio di vaniglia - constatò infilando la testa fuori dal finestrino, la bocca spalancata, i capelli corvini danzanti. Nel cielo ardevano un migliaio di stelle, troppe forse, poiché ognuna dispensava il proprio carico di indifferenza, un fardello troppo pesante per la schiena di un ubriaco. A parte il freddo fuori stagione, il ciucco alla guida e il vento gusto vaniglia era una notte come le altre...anzi, nonostante tutto, insomma, lo era.

Dopo l'ennesima strettoia accompagnata dallo stridere delle gomme cominciò una rapida risalita verso la lucidità. Valutò causa, contesto, prospettive, e il suo piede si fece meno pesante sull'acceleratore. Nuovamente il suo volto tirato nello specchietto: questa volta lesse nello sguardo un accenno di rimprovero. La curva successiva venne approcciata con fare gentile.

Gli sovvenne della corsa fuori dal bar, i dieci bicchieri prima Martini on the rocks, poi, solo vetro -naturalmente non pagati-; le risa pazze, l'incedere ritmato dei passi sul ciottolato, Lucas che si tuffa letteralmente nella sua spider e salutando schizza via lungo il viale in un vortice di polvere. Un'altra serata appoggiati al tavolo di un bar; trentenni che non volevano scendere a patti col mondo..come diceva quella canzone? Tutta questa impresa e poi il sabato all'iper a far la spesa...non era per loro...non era per la loro la cena con i parenti a Natale, il pic-nic con la prole a carico, il mutuo da pagare; non erano per loro le uniformi, l'annuire, gli impegni inderogabili, gli straordinari. Come le aquile volevano essere, volare in cattedrali di solitudine, in alto, nell'azzurro...

...e poi improvviso, ancora una volta, un rovello oscuro si infila nelle pieghe aperte tra un neurone e l'altro nel delirio della sbornia...passa sotto la cortina dei pensieri libertini, tra le trincee scavate dall'orgoglio e giunto al centro della calotta, proprio tra orecchio e orecchio, sussurra: “sai, a volte c'è più dignità nel gracchiare nei campi di grano con gli altri corvi, dove stai andando tutto solo? questi cieli sono troppo grandi per le tue piccole ali spennate!”
(continua...)

mercoledì 19 settembre 2007

Erich Priebke

di Norberto Giffuri

Il perdono è questione privata,
Giustizia e Memoria
Sono affare di tutti.

Per questo, cinquant’anni dopo,
Nel nome della Giustizia,
L’abbiamo scovato nella Baviera andina:
Estradato, processato e condannato.

Nel nome della Memoria,
Ne abbiamo parlato al tg
Tre minuti
Tra il gossip sulla soubrette in bikini
E il cane che abbaia l’ouverture di Rossini.

Nel nome del Perdono,
Paghiamo l’appuntato che la mattina
Lo porta al parco a far jogging
Così che sconti la pena e viva bene
Come viveva in Argentina.

domenica 29 luglio 2007

Apprezza meglio un nettare la più crudele arsura (seconda parte)

di Norberto Giffuri

Ma una speranza c'era. Si chiamava orizzonte. Lontano, sopra il dorso ocra di un colle, si attorcigliavano nubi a spire, si annunciava tempesta. Trascorsero minuti infiniti. L'ombra avanzava lungo la valle, veniva da sud, lesta, silenziosa, incontro a me. Accelerai pregustando l'abbraccio, la frescura del suo corpo dentro la mia pelle. E l'abbraccio arrivò. Il sole venne inghiottito da un budello di nembi. Il sollievo era immenso, inebriante. L'ombra mi cinse i fianchi, mi coccolò e mi carezzò il viso con il suo respiro umido. Le prime gocce scesero come una benedizione. Lungo il solco teso della mia bocca, nella mia gola ardente. Folate di vento sostenevano il mio cammino, ora più sicuro. Infine un colle, una curva, le prime case, dei volti umani: contadini che rientravano dalla campagna sotto la minaccia dei primi lampi. Poi in fondo ad una stradina, stretta tra una chiesa e un muretto a secco, sotto un perticato incorniciato dall'edera, una taverna.
¡Senorita, un poquito de agua por favor!

*******

liberamente ispirato da un articolo di Laurie Lee, Sotto il solleone Spagnolo, in Questa meravigliosa Europa, Selezione del Reader's Digest, 1976, Milano.


venerdì 20 luglio 2007

Apprezza meglio un nettare la più crudele arsura (prima parte)

di Norberto Giffuri

Camminavo oramai tra tre ore. La strada tagliava la valle, una lunga lama bianca piantata tra le scapole della pianura del Duero. Il calore era insopportabile. Il cielo diafano s'era fatto sole tutto: impossibile dire da dove i raggi venissero a proferire la loro condanna. La luce opaca riverberava sulla pelle butterata dei colli lontani, tra le braccia tese delle spighe di grano tra i quali si insinuavano le teste rosse dei papaveri, lungo il corpo secco degli alberi scuri e contorti. Avanzavo nella morte apparente del mezzogiorno. Mi accompagnava soltanto il frinire delle cicale, un ronzio intenso, costante, infinito. L'impressione era quella di trovarsi accanto sempre lo stesso ciuffo d'erba gialla, la stessa traccia di serpente disegnata nella polvere rossa della strada. Polvere rossa che si attaccava ai capelli, correva lungo la schiena, si posava tra le dita dei piedi esausti. Vidi gocce d'acqua dondolare mollemente sulla punta degli steli d'erba, dopo un acquazzone primaverile. La campagna verde della mia terra dove i salici sfiorano con dita gracili il corpo sinuoso dei ruscelli. Vidi passeri sguazzare nelle pozze d'acqua bassa. Mani chiuse a ricevere il fresco dono cristallino di polle alpine. Nel mio delirio avanzavo e avanzavo, trascinando i piedi nella terra riarsa.

Scrisse Emily Dickinson:
Più dolce appare il successo
a chi mai lo conobbe
apprezza meglio un nettare
la più crudele arsura [...]

Solo nella più completa disidratazione conobbi la sete.

(continua)


lunedì 2 luglio 2007

Le isole fortunate

di Asincheraglia

N.B. Si racconta il processo creativo del poeta Fernando Pessoa

Pensò con molta lentezza e senza attenzione.
Una raccolta superficialità coagulava i pensieri.
Erano le nuvole bianche che macchiavano il cielo, disegnando sbuffi e curve irripetibili.
Poi, gli occhi incrociarono l’acqua infinita e si chiusero con il ritmo blando dei flutti.
Il sonno era svanito nella passeggiata, e nell’orizzonte che rimaneva lontano, come la frase inespressa del brusio delle onde.
Come un salto, come una discesa improvvisa, il clima che abitava il petto, i polmoni, si precipitò in un respiro corto. Così, un sospiro accordò il ritmo del cuore con il sapore di salsedine.
Affilando lo sguardo, rifletteva e smetteva di farlo, schiudendo e chiudendo la penna in un gesto ipnotizzante.
Forse, si sentì perfino stupido. Etimologicamente stupido.
Certamente intuì.
Seduto sui ciottoli, tolse distrattamente il cappello che, appena poggiato, si liberò mosso dal vento.
Rimase incastrato fra un grosso masso grigio e sassi freschi e umidi quasi neri. L’acqua si spezzava sugli scogli in mille trini che, volando sul cappello, lo bagnarono a gocce.
Fernando osservò curioso, sorridendo.
In quell’istante, gli occhi si fecero per un attimo ingenui, sentendo una nota senza suono.
Tentò di ascoltare, invano.
Solo dopo aver verificato il sottofondo di una voce, udibile senza rumore nell’incoscienza del silenzio e nella finzione delle parole, dischiuse definitivamente la penna. Colse un foglio paglierino come neve sporca. Respirò del tabacco leggero, denso, creativo nelle figure fumose.
E scrisse.

domenica 24 giugno 2007

Terza lettera di Ezechiele Lupo al Giudice sul mulo: (titolo censurato)

Caro giudice,
forse questa lettera non Le giungerà mai, sarà preda del Servizio di Vigilanza sulle Comunicazioni, e seppure nessuno l’aprirà per vagliarne il contenuto, essa sarà fermata dal pregiudizio, dalla paura o dall’ignoranza.
Le scrivo questa volta per mezzo della penna e del foglio e non attraverso la rete, perché un amico italiano, che si trova qui in Germania a Tubinga, il quale mantiene serrati i contatti col nostro Paese, mi ha informato che appena la N. L. ha preso il controllo, la prima azione è stata quella di bloccare il servizio di e-mail sia in entrata che in uscita, ed interrompere qualsiasi accesso ad internet. Molto furbi non c’è che dire; questi qua non sono degli sprovveduti, oh caro giudice, hanno ben chiaro l’importanza della rete per uno Stato. Sì anche per l’Italia, sebbene sia ancora, a quanto ne so, il più arretrato tra le nazioni europee in fatto di fruizione di internet: forse a causa della mancanza di investimenti nella ricerca di nuove tecnologie? non so, e non è questo il punto.
Ho bisogno di sapere come stanno i miei amici a Roma, a Torino, a Trieste. Qual è il destino che attende le vostre (nostre) città, le istituzioni repubblicane? La prego mi faccia avere delle risposte, io in cambio, se vorrà, continuerò ad inviarLe i miei contributi, Le garantisco che posso fare ancora meglio. Posso sicuramente essere più frequente, più leggero, più pulito. Ma Lei deve farmi sapere quale sarà il futuro dell’Italia. Qui da Berlino le notizie sono, come al solito, mediate dalla TV, dai giornali, ma si sa che, nei momenti tragici (o stupendamente esaltanti) che state vivendo, i reportage sono confusi, talvolta ingannevoli, anche volutamente opachi. Ieri guardavo la televisione, stavo mangiando dei cetriolini, (recentemente ho preso a mangiare male, a nutrirmi di tanto in tanto in maniera compulsava, invece altri giorni non mangio proprio, a volte ho dei conati di vomito) il telegiornale passa delle immagini lontane di una piazza italiana; lo speaker dice che siamo collegati da piazza Navona a Roma. Ma chi ha dimestichezza con quella città scoprirà che quelle immagini mentono: non è piazza Navona. Non riconosco che posto sia, ma non è quello che l’inviato vuole farci credere, forse egli non è nemmeno in Italia. Credo che stia succedendo qualcosa di strano. Voi là forse non ve ne accorgete. Credete che la Nuova Liberazione sia un movimento rivoluzionario che, assediando il parlamento e prendendo il controllo del potere esecutivo, stia rifondando uno Stato che era arrivato ormai a mangiare i propri stessi escrementi; forse credete che la N. L. stia uccidendo lo Stato coprofago per rifondarne uno nuovo, fondato sulla legalità, sull’onestà e sulla solidarietà. Io ne sarei felicissimo. Sebbene oggi abbia notato un’altra cosa. Finalmente sono giunte le immagini che tutta Europa aspettava: la notizia degli incendi dei Ministeri degli Interni, della Difesa e degli Esteri di lunedì scorso aveva fatto, come voi ben sapete, il giro del mondo, ma nessuno aveva mai potuto guardare una prova visiva o audiovisiva. Oggi i giornali pubblicavano tre fotografie per ogni ministero in fiamme, per un totale di nove foto. Correlate da ampie articolasse le nove foto mostravano alla Germania la forza purificatrice del gruppo dei rivoluzionari. Ma un attento osservatore avrebbe notato che le tre foto del Viminale in fiamme, in tutti i giornali che le pubblicavano, erano associate all’articolo sul Ministero della Difesa, le tre della Farnesina a quello sul Viminale, e le ultime tre foto del Ministero della Difesa erano il riferimento per il pezzo sul Ministero degli Esteri. Ora, io sono convinto che non si possa essere trattato di errore. Cosa sta succedendo veramente in Italia?
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In questo punto la lettera è stata censurata per decisione del Servizio di Vigilanza sulle Comunicazioni, in ottemperanza delle nuove normative a cui fanno riferimento gli articoli 12.8/83, 21.11/55, contenuti nella Nuova Carta dei Diritti Civili del Nuovo Popolo Italiano (N.C.D.C.N.P.I.), redatta ed entrata in vigore con effetto immediato e permanente il 18.06.2007.

La Nuova Liberazione vi augura di proseguire serenamente la vostra lettura.

venerdì 15 giugno 2007

Esperienze 1

di Asincheraglia

Era una punta fascista. Io ero un soffio comunista.
Tuttavia, recitando, sembrava trasfigurarsi e nelle sue interpretazioni nascondeva il trucco dell’anima.
Nel 1970 un decadente ma prestigioso teatro lo applaudì a scena aperta.
Forse era Brecht o magari Shakespeare. In costume gli occhi assumevano un’altra tinta, le parole uscivano dritte e modulate, le mani disegnavano la realtà della finzione.
La mia carriera era incolore come le mie battute. Non riuscivo a interpretare niente, neppure me stesso. Il sogno di vivere recitando si era infranto una sera in una sala parrocchiale.
Era pasqua e sarei stato Cristo in agonia. Mentre la scena madre veniva consumata con me legato esanime alla croce, i due pali di legno cedettero e fui prossimo al pavimento.
In quell’istante urlai la più solenne delle battute. Una bestemmia.
Come da facile intuizione, i miei ingaggi decrebbero notevolmente.
Una notte, randagiando con i compagni ubriachi del collettivo teatrale, decisi di vendicare le mie frustrazioni sul bravo attore fascista.
Lo incrociammo fuori dalla sale prove insieme ad alcuni camerati. Lo scontro fu violento.
Ma non potrò mai scordare il suo braccio intento a scagliare il più superbo dei pugni. La plasticità dell’espressione, la bocca storta da un urlo amletico.
Sorrisi, prima del colpo, come prima di uno scatto fotografico.
Il sangue era vero come il dolore. Dal dente rotto e dal labbro gonfio conobbi la realtà.
E imparai a recitare.

domenica 10 giugno 2007

Frammento di uno scritto mai scritto

di Norberto Giffuri

Giacevi sul divano, spossata, con un braccio celavi il volto. Io vagavo per la stanza, cauto, scostavo la tenda e fuori una primavera grigia rigava il vetro delle sue lacrime. Quando abbiamo deciso che non ci saremmo salvati a vicenda? La confidenza lasciata sul pianerottolo s'è tutta bagnata; ma non c'era posto per lei tra i libri sullo scaffale, già divisi dal primo giorno: mio, tuo, tuo, mio, questa vanità del possesso era il primo segnale della crisi. Non ci resta niente da spartire adesso. Quella sera hai scostato il braccio e mi hai guardato fissa in volto. Avevi scelto. Avevo scelto. Accendevo la televisione e mi sedevo al tuo fianco. Mancava solo un pretesto. Quando un brutto giorno ci si scopre sul palco, la verità è semplice, lo sappiamo, non si recita l'amore, non è onesto, non vedi l'ora che cali il sipario.
Ritrovare oggi, precipiti i tuoi riccioli come una cascata dal lembo di un lenzuolo, nel ricordo...e pensare che con le dita ho sceso di quei riccioli la spirale tante volte da perdere il conto...sei al mio fianco, le miei mani ti cercano ma non trovano che aria.

lunedì 4 giugno 2007

Hemingway

di Asincheraglia

Iniziò a leggerlo nel bagno, in un momento di profonda intimità. Poi aprì la porta e uscì, proseguendo sul divano, vestito di sole mutande. Gli occhi scorrevano le parole, mentre la ruvida tappezzeria arrossava la schiena. Senza cambiare sguardo, bevve un sorso, muovendo le pupille per scoprire le lettere coperte dal bicchiere.
Quando la luna saliva pensò alla sua banalità e girò pagina su pagina, nutrendosi di frasi e punteggiatura. Col passare dei giorni, il pasto era un rito che si consumava fra bocconi distratti e attente occhiate alle metafore, alle onomatopee, alle metonimie.
Una mattina dovette usare la macchina. I gradini scivolavano due dopo ogni pagina. Completò una analessi entrando in auto. La strada non rapì la sua attenzione.
Interrogato nei momenti successivi (in realtà non esisteva più il tempo) rispose: “Pensavo al buio della confidenza. Pensavo alla leggerezza delle dita. Pensavo al mare e alla neve. Pensavo al trucco dei rami spezzati e colorati di nero - arrivano le sirene -. Pensavo alle sue gambe”. L’airbag mormorava l’ultimo fiato. I vetri continuavano a cadere. Cercò di conservare le sue convinzioni. Un sorso di vento, spostandogli i capelli bagnati, lo portò via.

venerdì 1 giugno 2007

Il peso della memoria

di Paco Zazzaroni

C'era un colle nella mia infanzia
Dove pascevo pomeriggi intrecciando
Steli di segale
Misuravo incantato
D'un solingo cipresso
L'ombra al vespro
Il futuro era soltanto
Il giorno appresso

Salendolo oggi, con passo diverso
M'opprime una smisurata nostalgia
Come sono aguzze le schegge del ricordo!
Come rapida si smorza del cuore ogni euforia!

domenica 27 maggio 2007

Sentimenti IV

di Ariel Andrès Clanovas

Facciamo un rito,
Agli albori del mito
Divertirsì laggiù;
e diventa clou,
Se ti offri tu.
Obliamoci d’oppio,
Salutando falloppio
Nella penombra fulva,
Si nascose la vulva.
Ve la legate al dito
Ve la legate al clito,
Il dito nel clito
Sotto l’arco di tito.
E, tiepido magma,
Parliamo di smegma.
Che la bocca ti bagna,
E ti colgo in castagna.

mercoledì 23 maggio 2007

La fuga e il ritorno (ultima parte)

di Ezechiele Lupo

Il porto era immenso. Ne aveva avuto coscienza solo allora, mentre lo misurava a passi distesi e frenetici, frattanto che cercava di regolare la respirazione calda col freddo di fuori. I suoi gesti erano neri come il fondale marino, e come questo, all’interno R***** aveva un brulicare di vita, un fermento di dinamiche spinte, di correnti. In quel momento si accorse in modo terribile che il suo correre a perdifiato non era che un modo per proseguire ad uscire dalla nave. I suoi movimenti tendevano in continuazione ad uscire da un interno che era sempre diverso da quello che credeva. Provò a fermarsi. Il porto era ancora intorno a lui, ma la nave era già lontana. Pensò di esserne uscito davvero. Riprese a correre verso un grumo nero ad ovest rispetto al molo centrale. Era un groviglio di alberi, segno inequivocabile dell’uscita dal porto. Accelerò la sua andatura. Dopo pochi secondi si accorse della luce: sulla sua sinistra una luce di forma rettangolare si era accesa nel cielo. Pensò ci fosse una casa abitata, magari qualcuno che potesse offrirgli un letto o qualcosa su cui riposarsi, magari anche mangiare. R***** allora corse più veloce per uscire dal porto e raggiungere quella casa. Raggiunse infine una sorta di posto di blocco: sulla sua destra c’era un gabbiotto vuoto, di fronte una sbarra di ferro bianca e rossa. La oltrepassò e, aiutato dal sole che lentamente riemergeva dal pelo dell’acqua, prese la strada principale fino ad un tornante; superata la curva guadagnò la cima di un altopiano spoglio di vegetazione, sul quale riconobbe la luce rettangolare che vedeva dal porto. L’illuminazione apparteneva ad una costruzione cubica con cinque identiche finestre ognuna su un lato e sul tetto. La porta era sul lato est tenendo le spalle alla nave, ma su quello nord avendo come punto di riferimento l’ovest del porto. R***** notò la presenza di almeno una persona e bussò alla porta. Aprì un uomo sulla cinquantina, maglione a collo alto blu, barba brizzolata ma completamente pelato. R***** si presentò: “Buona sera, anzi dovrei dire buon giorno oramai: sono P*** della B****.” L’uomo lo guardò con diffidenza e soggiunse: “Io non parlo bene la vostra lingua, è qui per un controllo immagino.” R***** si stupì dell’ingenuità del suo interlocutore e confermò. Quello lo fece entrare. Era un laboratorio della B**** come R***** aveva immaginato. Sulla parete nord campeggiavano una brandina e un comodino, ad est tutti i vecchi macchinari del mestiere, ad ovest un cucinotto. Al centro della stanza una scaletta portava ad un bagno. Non si aspettava niente di che. Chiese: “Qui c’è solo lei?” L’uomo fece segno che non capiva. R***** allora indicò la branda e fece segno “uno” con la mano; quello annuì. “Come procedono i lavori? Mi faccia vedere delle carte, le risultanze.” L’uomo andò al fornello e mise un bollitore sul fuoco. Allora R***** gli si mise davanti e cercò di farsi capire: “Le risultanze… le carte. Avrà delle carte?” L’uomo sembrò seccarsi ma lo capì. Aprì un cassetto del comodino, prese un plico di non più di cinque pagine e glielo consegnò aggiungendo: “Non è scritto in vostra lingua.” R***** gli fece segno che non era un problema e finse di sfogliarlo. Poi disse: “Non va bene. La B**** non sarà soddisfatta del suo lavoro… signor…?” L’uomo lo fissò per qualche istante, forse per capire se era giunto il momento giusto, e capì che non ce ne sarebbe stato uno migliore. “Io mi chiamo P***... come lei.” E sorrise. R***** capì di non essere uscito né dalla nave e né dal porto. Spalancò la porta e si ritrovò sul ponte superiore, in pieno sole.
P***, intellettuale dell’intellighenzia della P******, nonché scrittore di fama mondiale, sorseggiava un buon daiquiri, mentre la più grande nave della flotta della C**** C****** lo faceva viaggiare immobile lungo le rotte più alla moda del mar mediterraneo. Dal ponte superiore godeva la vista della luce solare che lampeggiava sulla piattezza placida del blocco di acqua blu, sul quale scorreva veloce la mastodontica imbarcazione. Ora scorgeva una costa, ora un peschereccio, ora delle barche a vela che facevano il girotondo. Sul lettino di fianco prendeva il sole, con degli occhiali alla moda degli anni cinquanta, la sua bionda compagna di vita: bella e statuaria, l’orgoglio della P******. Si godeva la vita P***! Peccato che stesse tornando a casa. Peccato che la vacanza stesse già finendo. Eppure per evitare questo ritorno, pensava, potrei escogitare una fuga: una fuga notturna col favore delle tenebre, potrei calarmi con una corda nello scolo delle cucine, attraversare uno stretto passetto, ci sarà per forza uno stretto passetto, sbucare da un ancora più angusto tombino, e correre a perdifiato verso il fuori. Tuttavia ci sarebbero altre soluzioni per raccontare una fuga, tante quante sarebbero le possibilità della fuga stessa, ma solo una sarebbe giusta: dovrei all’infinito tentare di raccontare un percorso che va da A a B, passando ogni volta per tante X, quante il numero delle possibilità di fuggire, al fine di trovare quella che mi consenta una ri-uscita. La mia fuga da questa vacanza sarà il mio ritorno, infine pensò lo scrittore P***.
Fine

lunedì 21 maggio 2007

La fuga e il ritorno (prima parte)

di Ezechiele Lupo

Dal molo centrale, stretto nell’insenatura della scoscesa scogliera, stava salpando la grande nave che l’aveva condotto su quell’isola ad ovest del nord delle coste del continente. Salpavano e fuggivano le eventuali speranze di tornare a casa. La sirena alta e grave echeggiò più volte tra i crepacci e i fiordi adatti, così pareva, per la spettacolare acustica. L’immenso transatlantico, fatto il pieno di carburante, aveva aspettato due notti prima di rimettersi in viaggio, aggirare le fredde isole, circumnavigare la penisola montuosa, e scoprire che dopo tutto quel barcollare tra correnti gelate e mari in tempesta, c’erano ancora una volta i tropici. R***** era uscito dalla pancia del mostro d’acciaio una notte. Quando il sole veniva inghiottito dall’orizzonte per poche ore: solo in quei minuti si poteva tentare una fuga. La corona di luce verdognola che si alzava dal bianco mare in lontananza, non era sufficiente ad illuminare il molo e gran parte dell’isola. Colse il momento giusto. Alzò leggermente il coperchio della cassapanca sul primo ponte a poppa in cui si era nascosto in previsione dell’ammutinamento. Controllò che non ci fosse nessuno e che la botola, della quale aveva avuto la chiave la sera prima, durante una mano di dadi, ( la sua mano era finita accidentalmente nel taschino di un marinaio, e n’era uscita con l’oggetto di ferro tra le esili dita) che dava sulla scaletta dei garage fosse accessibile: la via era libera. Prese coraggio e spalancò la cassapanca. Saltò fuori con la sacca a tracolla, la chiave in una mano e una corda robusta nell’altra. Corse piegato, mentre sfruttando le ombre lunghissime cercava di mascherare la sua, si gettò a terra e infilò la chiave nella serratura della botola di ferro pesante. Dopo averla girata con forza senti il rumore che conosceva bene: la serratura di ghisa che si apriva pesantemente e lentamente. Il meno era fatto. Sapeva che la botola era troppo pesante per poterla aprire da solo: era necessario che il marinaio a guardia del garage, sentendo la serratura aprirsi, facesse forza da dentro, così che chi stava sul ponte avrebbe alzato il chiusino e sarebbe penetrato attraverso la scaletta. Aveva sperimentato che si disponeva di pochi secondi prima che quello di sotto giungesse ad aprire, scoprendolo. Così fece quello che da tanto tempo aveva progettato: legò alla maniglia del boccaporto una cima della robusta corda da àncora, si imbracò con l’altra estremità, saltò sulla ringhiera che aveva di fianco e, in bilico, cominciò a tirare con tutte le forze, finché non sentì il coperchio sollevarsi. Allora capì che il marinaio era lì sotto che spingeva. Dopo pochi secondi di sforzo la botola si aprì completamente; il marinaio, aspettandosi di vedere il volto di un collega al di là del buco, ebbe solo il tempo di dire “…ma chi è?...”, che R***** si gettò dalla ringhiera piombandogli addosso. La corda si girò e il peso di R***** trascinò il coperchio, che velocemente si chiuse senza rumore perchè lo spessore della fune fece da cuscinetto. Egli si trovò appeso con il marinaio svenuto sul fondo del garage. Sorpreso ed euforico per la riuscita dell' impresa, slegò il canapo e precipitò a terra. In ginocchio si guardò intorno più volte: nel silenzio pareva non ci fosse nessuno. Nascose lo svenuto nel gabbiotto, attraversò correndo tutto il garage fino ad un piccolo tombino tutto arrugginito. Con la chiave della botola fece perno, e a fatica riuscì ad aprirlo: sotto di lui c’era il buio, il freddo e il rumore del mare nero. Fece luce fioca fioca con un accendino; come aveva intuito sbirciando la pianta della sezione verticale della nave, capitatagli in mano quasi per caso non molto tempo prima, lì sotto passava uno stretto e marcio parapetto non più largo di 60 cm, sotto il quale la nave era forata per permettere lo scolo dei servizi e delle cucine. Attraverso una pompa di risucchio veniva incanalata l’acqua sporca, ed espulsa durante la navigazione. A quel punto si calò con abilità nello stretto e buio cunicolo fino a che non sentì sotto i piedi un appoggio stabile. Non rimaneva che proseguire sempre dritto cercando di non cadere sotto la nave, nel mare, ed essere risucchiato dai ghiacci. Giunto ad una parete che poteva sentire solo con le mani protese ansanti davanti a sé, capì (se tutto il suo piano fosse stato congeniato a dovere) di essere esattamente all’altezza di uno sportellino minuscolo, che dava sulle assi di legno freddo del molo centrale. Con uno scatto aprì lo sportellino: era ancora buio, ma davanti l’imbarcadero lo attendeva. Sorrise e dovette mordersi la lingua per non esultare. Con una furia feroce, come un leone che trova un varco nella rete di protezione del recinto e la divelte per fuggire, fece passare la sacca dal portello, e dopo essere sgusciato in quel misero spazio, fu finalmente sul molo. Era fuori. Anche se qualcuno poteva aver visto la corda ciondolante appesa allo sportello della botola, non l’avrebbero cercato, non si sarebbero arrischiati di scendere dalla nave per paura di rimanere su quell’isola, traditi a loro volta da quelli che avrebbero tradito. Ma era meglio fuggire nell’entroterra il più in fretta possibile. Così si mise a correre sempre più velocemente, tanto che gli occhi lacrimavano, forse per il gelido vento del nord che riverberava sul viso, forse perché trattenersi non era più possibile.
(continua...)

martedì 15 maggio 2007

No dai, non dalla parte del cuore

di Ezechiele Lupo

No dai, non dalla parte del cuore
Sia mia la tua
Immagine dal basso
Che è quella che più preferisco

No dai, non uscire
Non vedi che ha già piovuto
Potevamo continuare ad ignorarlo
Fu l’effetto della biologia

No dai, non chiudere gli spifferi
Puoi stare senza pesare
Ma non dalla parte del cuore
Mi ricordi il calcio balilla

Tra un tavolo e un cassetto
Chiudo con un versetto
Non dalla parte del cuore
Al momento è già tutto vapore.

sabato 12 maggio 2007

Le avventure del signor B. - n°4 -

di Norberto Giffuri

Prima lettera d'amore del Signor B. pubblicata nella sezione Annunci, varie ed eventuali della prestigiosa testata Cronaca Qui e anche La a spese del suddetto.

Ti ho vista oggi sul metro ed eri bella come il sole o forse più. Chiacchieravi con le tue amiche e sorridevi serena. Indossavi una camicetta bianca attillata e dei jeans ancora più attillati...tanto stretti che ho potuto valutare dal rilievo il contenuto delle tue tasche: un lucidalabbra, un i-pod e 2 euro e 35 cent.
Sei scesa alla fermata Lima, non Lima in Perù ma Lima in Buenos Aires; non Buenos Aires in Argentina ma Buenos Aires in Milano. Io invece ho proseguito fino a Loreto. Poi ho preso la verde e sono sceso a Lambrate. Mi sono avviato verso casa, la luna splendeva nel cielo e non facevo che pensare al tuo sorriso.
Dovevo essere un poco distratto perché sono finito un una zona morta dietro una siepe dove sostavano due tipi loschi che mi hanno spintonato e poi afferrato. Prontamente ho reagito e con una testata ho colpito il pugno di uno dei due energumeni (come mi ha insegnato il mio maestro di arti marziali Woody A.). Qualcosa della mia tecnica di autodifesa non deve aver funzionato perché mi sono ritrovato knockout sul marciapiede. Sopra di me le stelle della via lattea danzavano in cerchio. Mentre i due brutti ceffi mi alleggerivano del portafogli, delle scarpe di vero cuoio, dei pantaloni e temo della mia verginità anale, le stelle convergevano verso un ideale punto fisso disegnando il profilo del tuo dolce volto.

Il tuo ammiratore segreto.

Signor B., via Simone Cristicchi 25,
Milano-citofonare ore pasti

venerdì 4 maggio 2007

A passeggio per Bordighera

di Norberto Giffuri

A passeggio per Bordighera, nella luce che soffolce;
Quel fare corrusco del mare, infilzato obliquo dal sole...
La Liguria, cerniera dai denti che son monti stempiati, brulli alle cime, brizzolati di macchia sui fianchi.

Il piede impara le modulazioni dello scoglio,
indugia sulla sabbia,
con baldanza attacca il marmo del molo.

Un satiro con l'orecchino di caucciù, lisciando le labbra, squadra una ragazzina;
Un terrier si scuote, imperlando il suo intorno di gocce e una giunone teutonica si scosta con livore. La casa bianca dal volto rabberciato dove si dice Cadorna -Luigi- mancò; nemmanco una targa a rammentarcene il disonore.

A passeggio per Bordighera nella chiarità della mattina,
sfiorare con la spalla il costato di una chiesa,
dietro l'angolo scoprire una corona di narcisi dare tono regale
ad un ciuffo d'erba proteso verso la marina.

Uno storpio mendica, le mani vibranti, la testa china, stravaccato in cenci lerci;
Il sole lo violenta col suo fulgore, mette a nudo la sua miseria, sulla faccia lustra della banchina.

A passeggio per Bordighera, tra le risate sghembe dei gabbiani;
Realizzare, senza emozione, che la vita parla la lingua brusca
della contraddizione.

venerdì 27 aprile 2007

Manifesto per una serata mancata

di Johnny Strapcaz

bukkaker [bu'ka:ker]: persona allegra e gioviale, perlopiù di compagnia ma non fatelo incazzare o riverserà tutto se stesso su di voi. Non ha molte pretese intellettuali, ma gli piace leggere Henry Miller e guardare i film di Tarantino, anche se il suo film preferito è “Il seme della follia”, ma sa bene che anche gli artisti vanno in bagno almeno una volta al giorno. Non dice mai “cazzo!”, piuttosto “merda!” che è più democratico e sociale. È una persona qualunquisticamente impegnata.
Spesso lo trovate al portone del Ministero delle Politiche Agricole a sostenere la causa dei coltivatori di ananassi italiani.

wanker ['wæ:ŋker]: persona che puzza di chiuso. E puzzare è un reato. Ne risulta che è un criminale incallito, specie sulle mani. Sempre pronto ad intrattenerti con le ultime novità nel campo della noia, a lui non interessa che sia ascoltato o meno: coerente con le sue pratiche onaniste, egli basta a se stesso. Il suo film preferito è ”La finestra sul cortile”.
Non si conosce l’origine dell’essere wanker: alcuni sottolineano l’importanza dei geni, altri il contesto sociale. Altri ancora un eccessivo consumo di Teletutto in età scolare.
Soffre di gravi eruzioni cutanee su tutto il corpo se vede ballare qualcuno.

° ° °

Dallo Stato Libero degli Ananas arrivano al Centro Giovani di Monfalcone i Bukkakers, duo di (am)abili dj e vj. Unico obiettivo: far ballare. Già, ballare.
Ballare in mezzo alla pista, non accanto al muro. Dimenarsi con tutto il corpo, non battere il piede a tempo. Il tutto al ritmo della migliore elettronica da club, non quella che si ascolta da soli in camera, che comunque i Bukkakers amano e rispettano. Perchè c'è un tempo per l'introspezione e uno per la socializzazione.
Non a caso il motto della serata sarà “Meno Pudore, più Sudore”: tempo di abbandonare le inibizioni e lasciarsi andare.
Se il loro background culturale spazia dalle tartarughe Ninja ai calzini in spugna arrotolati alle caviglie passando per la Nintendo 8 bit, quello musicale vanta trascorsi tanto nella classica quanto nell’hardcore.
Questo, sentenziano i due, giustifica una playlist eclettica: il meglio (?) dell’elettronica anni ’80 e primi ’90 ben frullata con la minimal, il punk funk e l’electroclash degli ultimi anni.
Un tetris sonoro a cui va aggiunta la dimensione visiva del vj set con i video realizzati da Altree, collettivo di videomakers fortunatamente sconosciuto al grande pubblico, e mixati dai due Bukkakers con lo scopo di creare un’esperienza totalizzante tra musica e immagine.
Due gli ospiti d’onore: le telecamere di Al Jazeera per quella che già si preannuncia una performance esplosiva e StyleOne, incosciente sostenitore del duo, con il BeHappy Project point, progetto compatibile con il Bukkakers pensiero.
Quindi, ben tonificati e idratati – non crederete mica di stare fermi? – venite numerosi: sicuramente i Bukkakers regaleranno qualche perla di cui vi ricorderete a lungo.

venerdì 20 aprile 2007

Stanotte

di Dylan Iato

Audienda:
1) Yulunga – Lisa Gerrard
2) Now We Are Free – Lisa Gerrard
3) Dies Irae Dies Illa (vers di Wendi Carlos)
4) Dies Irae Dies Illa
5) John Mayer – Waiting On the World To Change
Stanotte. Stanotte si è spenta mia zia. 94 anni. Era ormai un albero. Piantumato in una casa di riposo a Barlassina, Como.
Era oramai completamente cieca. Mangiava pochissimo e quel poco, che le veniva imposto dai pazienti infermieri, la faceva sopravvivere.
Fino a stanotte. Ho visto un numero strano apparire sul telefono di casa. Era un 0362 alle undici di sera. Non ho risposto. Ho atteso che mio padre prendesse la telefonata. Poi è venuto da me, con gli occhi già lucidi e mi ha comunicato la notizia.
Stanotte pensavo di passarla come al solito. Tra una videata di Word, una mail e il telefonino che suona. Pensavo di ascoltare il nuovo disco di Lisa Gerrard, quella della musica del Gladiatore.
Non farò nient’altro che pensare alla zia. Per lei provavo una specie di lontano affetto misto a pena e compassione per la sua condizione. Ma no. Non era amore.
I suoi occhi piccoli e nascosti dietro alle lenti da fondo di bottiglia mi impaurivano quando ero piccolo e mi facevano sorridere fino a poche ore fa.
Ora penso alla sua morte. Penso alla sua esistenza, vissuta in punta di piedi là nella clinica geriatrica. Un dolore, il suo, così accennato e così lontano. Così orgogliosamente umano. Io ho solo da imparare da quel dignitoso portamento di donna consapevole di essere al proprio crepuscolo.
Io che rifuggo la morte. Io che ne rifuggo anche il solo pensiero.
Dovrei pensarci, invece.
Dovrei riuscire a baciare i morti, durante i funerali.
Almeno così si faceva pochi decenni fa, nelle società italiche e contadine, per dimostrare rispetto e deferenza. Si faceva così quando il mio bisnonno è morto. Roba da anni 60 o 50 al massimo. Me l’ha detto mio padre. Era terrorizzato all’idea di dover baciare il nonno morto. Eppure ha preso il coraggio dalle zolle della terra. Dalla forza di quei semplici valori, forse sbagliati, ma condivisi che rendevano la società contadina impaurita, ignorante, ma unita.
Mia madre ha visto morire in casa i suoi nonni. Ha visto il soffio vitale abbandonare la carne. Ha visto gli occhi spegnersi. Il cuore arrestarsi. Ha visto sputare sangue. Ha visto le cure risultare inefficaci. Ha visto la paura muovere labbra, devastare visi, muovere al pianto.
Io ho visto il bianco degli ospedali. L’odore dei camici sterilizzati. Dei guanti di lattice.
Un dolore, quello ospedaliero, declinato allo stesso modo, ci mancherebbe. Ma che i “sani” e i “vivi” tentano di allontanare. Nessun bacio alla morte. Solo qualche sguardo furtivo, quasi a lavarsi con un battito di ciglia occhi e coscienza.
Non si muore da oggi (ma repetita iuvant, anche stasera, suvvia)
Penso al “dies irae dies illa” che Kubrick ha usato in Shining e in Arancia Meccanica. Non ha più nulla a che fare con la versione originale e medievale del canto. E’ altro. In quest’interpretazione fatta dalla compositrice Wendy Carlos, una singola nota è fatta suonare per interi, interminabili minuti, nella medesima intensità sonora. Il risultato, diciamo così, è una pazzoide decostruzione dell’originale, inconfondibile melodia. Una decostruzione spinta fino alla completa distruzione della melodia medesima. Quando si studia canto o strumento ti insegnano, guarda caso, che prescindendo dalla melodia si finisce per procurare un’inafferrabile ma percepibile senso di angoscia. Nel caso della rivisitazione della Carlos c’è ben più di angoscia. C’è paura, terrore, mistero, incomunicabilità, morte.
Questo Dies Irae, nell’intenzione della compositrice, si proponeva di rappresentare l’allungamento artificioso della vita dell’individuo moderno. Che rifugge spiritualità, oltre all’idea di assoluta privazione, di buio senza forma né misura.
Un individuo moderno e ovviamente occidentale, così angosciato dalla morte e dalla fine che è disposto ad accantonare i propri vecchi. La propria memoria storica.
La propria enciclopedia (nel senso Saussuriano del termine).
Pur di non vedere, pur di non parlare, pur di non baciare. Morte.
Mi è arrivata una mail. Rispondo, faccio una telefonata e vado a letto.
Il cd della Gerrard spacca. Mi riascolto solo Now We Are Free.
Penso alla pietistica e plasticacea pubblicità della Barilla, al Gladiatore, che tutto sommato è un bel film, alla voglia di farmi un narghilè bello allegro.
E alla voglia di fermarmi. Di non scappare.
Verso l’una mi capita tra i tasti (del maus) un file mp3 veramente commovente. Sarà la situazione, sarà la stanchezza, sarà l’allegria da narghilè, non so, le lacrime vengono da sole.

6)Blind Boys Of Alabama – Old Blind Barnabas

lunedì 16 aprile 2007

Era una notte buia e tempestosa

di M. J. Canary

Una notte tropicale. Un temporale rabbioso in una notte tropicale. La luce andò via, mentre la nostra protagonista era intenta a consumare il suo frugale pasto di piselli surgelati. Mezzi bruciacchiati, perché dimenticati sul fornello. E ora cominciamo a inquadrare la nostra protagonista e cominciamo a capire che non sarà possibile annoverarla tra le eroine. Forse tra le antieroine. Dicevamo, la nostra p. cenava, in solitaria. Decise di aprire la tenda per poter sentire meglio il rumore della pioggia battente. All’improvviso calarono le tenebre nascondendo alla vista i pallini verde-nero. La pioggia da battente si fece scrosciante. Si udiva con chiarezza un rumore come di qualcosa che sbatteva. Sicuramente le finestre della casa accanto, lasciate aperte. Il vento faceva pericolosamente turbinare le palme del giardino. Illuminate a giorno dai lampi, come flash di fotografi eccitati la notte degli oscar. Polvere di pioggia cominciò a entrare dalla zanzariera tesa. P. decise allora di tirare la tenda, che si gonfiò, come una vela ripiena di vento. Tuoni carichi di ira funesta tormentavano il cielo sopra la mangiatrice di leguminose. Vicini. Vicinissimi. Troppo vicini. La nostra p. a quel punto si decise. Recuperò la sua affezionata candela alla cannella, che stava tattica sopra alla televisione, e si recò in cucina dove a tentoni cercò l’accendino. Una flebile luce rosa diede un po’di colore all’oscurità, ma venne subito neutralizzata dalla luce esterna che illuminò l’ambiente a giorno. A quel punto si ricordò della sua fetta di pane nella grigliatrice inerte. La recuperò bruciandosi medio (falangina), indice (falangina e falangetta), mignolo (falangetta) e con pane in una mano (quella scottata) e candela nell’altra, riguadagnò il suo posto al tavolo. Era come trovarsi su una nave con vento a forza 9, e il mondo che danzava tutto attorno. Anche le ombre danzavano, al ritmo delle oscillazioni della fiamma. La bottiglia, il bicchiere, disegnavano labili fluttuanti segni grigi sulla parete. Scoppiavano i tuoni. Con fragore. Esplodevano i tuoni. Brillavano. Davano un’insolita veste al paesaggio notturno. Era come se qualche aereo stesse bombardando il vicinato. Era rumore e colore. Colore e rumore. Su un sottofondo di uniforme liquido monotono frustare. Era insolitamente fresca, la casa. Con una piacevole corrente, innaturalmente naturale. Finì la sua pietanza bicolore e recuperò la sua traballante fonte di illuminazione. Il computer era acceso sul letto, suggeva energia dalla batteria, ma la connessione internet wireless era saltata. P. si sedette a gambe incrociate di fronte al suo portatile, aprì un nuovo file e cominciò a scrivere: “Era una notte buia e tempestosa.”

mercoledì 11 aprile 2007

Come sei

di Paco Zazzaroni

Sempre cammini un tappeto rosso di grazia
Baratti ingenuità simulata
Per un poco d'attenzione
A volte sorridi e il tuo sguardo indugia
Nel sottolineare un gesto, una parola.
Mai ti ho vista far torto

Alla Femminilità

martedì 3 aprile 2007

Epitaffi

di Giorgio Sorbona

Il critico letterario

“Vissi al cinque percento”
Disse Montale.
A me già parve
Peccato di ύbriς
Esser vissuto
Massimo al tre.


Giordano Bruno

Vissi per mano dei preti
Morii per mano dei preti
Questa la mia più grande bestemmia:
che da qualcuno avrò pur imparato.

martedì 27 marzo 2007

Jonathan Safran Foer - Molte forte, incredibilmente vicino

di Norberto Giffuri


Ogni cosa è illuminata dalla luce del passato” sostiene Jonathan Safran Foer - wikipedia ci dice di lui: è uno scrittore nato nel 1977 a Washington, che ora vive a Brooklyn, New York con la moglie, la scrittrice Nicole Krauss (e il loro cane, George). – nel suo romanzo d’esordio, intitolato guardacaso Everythingh is Illuminated, gioiellino della narrativa ad incastro -anche detta narrativa a scatole cinesi-.
E lo ribadisce con Molte forte, incredibilmente vicino, la sua seconda fatica editoriale, uscita in Italia nel 2006 ed edita dalla Guanda, tutta incentrata sul tema del ricordo, del passato che riaffiora e trasuda da ogni oggetto e da ogni volto.
L’oggetto nel particolare è una chiave. Il volto invece è quello paterno.
La trama? Presto detto; Oskar Schell, ragazzino newyorkese superintelligente trova la suddetta chiave in una busta, infilata in una vaso accatastato tra le cianfrusaglie del defunto padre, vittima dell’attentato alle Torri Gemelle dell’Undici Settembre. Sulla busta compare una sola parola: “black”. Oskar è ambizioso e volenteroso: decide di visitare le case di tutti i Black della città, dal primo all'ultimo dell'elenco telefonico, alla ricerca della serratura per la sua chiave. Nella sua peregrinazione urbana Oskar incontra bizzarri personaggi in una Grande Mela che cerca di scuotersi di dosso la polvere delle torri collassate. Safran Foer innesta nel filo narrativo principale il ricordo del bombardamento di Dresda (drammaticamente vissuto dai nonni di Oskar) costruendo un ideale parallelo tra Seconda Guerra Mondiale e 11 Settembre -il dolore, la morte, la tragedia hanno nomi e tempi diversi ma uguale sostanza-.
Un ragazzino sognatore -Oskar- alla ricerca della figura paterna. Detto così potrebbe sembrare la solita solfa, già vista, già sentita. Ringraziamo Safran Foer: non lo è. Il giovane scrittore sperimenta un complesso montaggio narrativo che, seppure con il limite di confondere le idee al lettore -la non linearità richiede uno sforzo intellettivo intenso per ricomporre la trama- ha il pregio di vivacizzare la macchina testuale. A voler a tutti i costi cercare di inquadrare il romanzo diciamo che esso si risolve in una narrazione principale condita con una serie di flashback che portano alla costruzione di una trama di rivelazione -di capitolo in capitolo si ricompone il puzzle-. Ma così facendo rischio di far torto al libro.
E commetterei certo un torto negando un plauso alla lingua scelta da Safran Foer: moderna, fluida, efficace. Una commistione riuscita tra la prosa schietta del romanzo americano degli anni '90 e la lingua del web. Un romanzo che vuol essere multimediale: il testo è accompagnato da fotografie che non figurano come mero elemento accessorio...sono parte integrante del meccanismo, anticipano e sottolineano gli elementi chiave della storia.
Concludo con un piccola critica. Molte forte, incredibilmente vicino pecca a volte di patetismo, cerca con ogni mezzo di suscitare la commozione del lettore. Il messaggio che passa tra le righe è chiaro: siamo una generazione che ha maledettamente bisogno di piangersi addosso.

Jonathan Safran Foer, Molte forte, incredibilmente vicino, Guanda, Parma, 2005, pp. 351, euro 16,50.