Il giudice sul mulo Periodico perenne di linguaggi letterari.

lunedì 21 maggio 2007

La fuga e il ritorno (prima parte)

di Ezechiele Lupo

Dal molo centrale, stretto nell’insenatura della scoscesa scogliera, stava salpando la grande nave che l’aveva condotto su quell’isola ad ovest del nord delle coste del continente. Salpavano e fuggivano le eventuali speranze di tornare a casa. La sirena alta e grave echeggiò più volte tra i crepacci e i fiordi adatti, così pareva, per la spettacolare acustica. L’immenso transatlantico, fatto il pieno di carburante, aveva aspettato due notti prima di rimettersi in viaggio, aggirare le fredde isole, circumnavigare la penisola montuosa, e scoprire che dopo tutto quel barcollare tra correnti gelate e mari in tempesta, c’erano ancora una volta i tropici. R***** era uscito dalla pancia del mostro d’acciaio una notte. Quando il sole veniva inghiottito dall’orizzonte per poche ore: solo in quei minuti si poteva tentare una fuga. La corona di luce verdognola che si alzava dal bianco mare in lontananza, non era sufficiente ad illuminare il molo e gran parte dell’isola. Colse il momento giusto. Alzò leggermente il coperchio della cassapanca sul primo ponte a poppa in cui si era nascosto in previsione dell’ammutinamento. Controllò che non ci fosse nessuno e che la botola, della quale aveva avuto la chiave la sera prima, durante una mano di dadi, ( la sua mano era finita accidentalmente nel taschino di un marinaio, e n’era uscita con l’oggetto di ferro tra le esili dita) che dava sulla scaletta dei garage fosse accessibile: la via era libera. Prese coraggio e spalancò la cassapanca. Saltò fuori con la sacca a tracolla, la chiave in una mano e una corda robusta nell’altra. Corse piegato, mentre sfruttando le ombre lunghissime cercava di mascherare la sua, si gettò a terra e infilò la chiave nella serratura della botola di ferro pesante. Dopo averla girata con forza senti il rumore che conosceva bene: la serratura di ghisa che si apriva pesantemente e lentamente. Il meno era fatto. Sapeva che la botola era troppo pesante per poterla aprire da solo: era necessario che il marinaio a guardia del garage, sentendo la serratura aprirsi, facesse forza da dentro, così che chi stava sul ponte avrebbe alzato il chiusino e sarebbe penetrato attraverso la scaletta. Aveva sperimentato che si disponeva di pochi secondi prima che quello di sotto giungesse ad aprire, scoprendolo. Così fece quello che da tanto tempo aveva progettato: legò alla maniglia del boccaporto una cima della robusta corda da àncora, si imbracò con l’altra estremità, saltò sulla ringhiera che aveva di fianco e, in bilico, cominciò a tirare con tutte le forze, finché non sentì il coperchio sollevarsi. Allora capì che il marinaio era lì sotto che spingeva. Dopo pochi secondi di sforzo la botola si aprì completamente; il marinaio, aspettandosi di vedere il volto di un collega al di là del buco, ebbe solo il tempo di dire “…ma chi è?...”, che R***** si gettò dalla ringhiera piombandogli addosso. La corda si girò e il peso di R***** trascinò il coperchio, che velocemente si chiuse senza rumore perchè lo spessore della fune fece da cuscinetto. Egli si trovò appeso con il marinaio svenuto sul fondo del garage. Sorpreso ed euforico per la riuscita dell' impresa, slegò il canapo e precipitò a terra. In ginocchio si guardò intorno più volte: nel silenzio pareva non ci fosse nessuno. Nascose lo svenuto nel gabbiotto, attraversò correndo tutto il garage fino ad un piccolo tombino tutto arrugginito. Con la chiave della botola fece perno, e a fatica riuscì ad aprirlo: sotto di lui c’era il buio, il freddo e il rumore del mare nero. Fece luce fioca fioca con un accendino; come aveva intuito sbirciando la pianta della sezione verticale della nave, capitatagli in mano quasi per caso non molto tempo prima, lì sotto passava uno stretto e marcio parapetto non più largo di 60 cm, sotto il quale la nave era forata per permettere lo scolo dei servizi e delle cucine. Attraverso una pompa di risucchio veniva incanalata l’acqua sporca, ed espulsa durante la navigazione. A quel punto si calò con abilità nello stretto e buio cunicolo fino a che non sentì sotto i piedi un appoggio stabile. Non rimaneva che proseguire sempre dritto cercando di non cadere sotto la nave, nel mare, ed essere risucchiato dai ghiacci. Giunto ad una parete che poteva sentire solo con le mani protese ansanti davanti a sé, capì (se tutto il suo piano fosse stato congeniato a dovere) di essere esattamente all’altezza di uno sportellino minuscolo, che dava sulle assi di legno freddo del molo centrale. Con uno scatto aprì lo sportellino: era ancora buio, ma davanti l’imbarcadero lo attendeva. Sorrise e dovette mordersi la lingua per non esultare. Con una furia feroce, come un leone che trova un varco nella rete di protezione del recinto e la divelte per fuggire, fece passare la sacca dal portello, e dopo essere sgusciato in quel misero spazio, fu finalmente sul molo. Era fuori. Anche se qualcuno poteva aver visto la corda ciondolante appesa allo sportello della botola, non l’avrebbero cercato, non si sarebbero arrischiati di scendere dalla nave per paura di rimanere su quell’isola, traditi a loro volta da quelli che avrebbero tradito. Ma era meglio fuggire nell’entroterra il più in fretta possibile. Così si mise a correre sempre più velocemente, tanto che gli occhi lacrimavano, forse per il gelido vento del nord che riverberava sul viso, forse perché trattenersi non era più possibile.
(continua...)

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