Il giudice sul mulo Periodico perenne di linguaggi letterari.

martedì 27 marzo 2007

Jonathan Safran Foer - Molte forte, incredibilmente vicino

di Norberto Giffuri


Ogni cosa è illuminata dalla luce del passato” sostiene Jonathan Safran Foer - wikipedia ci dice di lui: è uno scrittore nato nel 1977 a Washington, che ora vive a Brooklyn, New York con la moglie, la scrittrice Nicole Krauss (e il loro cane, George). – nel suo romanzo d’esordio, intitolato guardacaso Everythingh is Illuminated, gioiellino della narrativa ad incastro -anche detta narrativa a scatole cinesi-.
E lo ribadisce con Molte forte, incredibilmente vicino, la sua seconda fatica editoriale, uscita in Italia nel 2006 ed edita dalla Guanda, tutta incentrata sul tema del ricordo, del passato che riaffiora e trasuda da ogni oggetto e da ogni volto.
L’oggetto nel particolare è una chiave. Il volto invece è quello paterno.
La trama? Presto detto; Oskar Schell, ragazzino newyorkese superintelligente trova la suddetta chiave in una busta, infilata in una vaso accatastato tra le cianfrusaglie del defunto padre, vittima dell’attentato alle Torri Gemelle dell’Undici Settembre. Sulla busta compare una sola parola: “black”. Oskar è ambizioso e volenteroso: decide di visitare le case di tutti i Black della città, dal primo all'ultimo dell'elenco telefonico, alla ricerca della serratura per la sua chiave. Nella sua peregrinazione urbana Oskar incontra bizzarri personaggi in una Grande Mela che cerca di scuotersi di dosso la polvere delle torri collassate. Safran Foer innesta nel filo narrativo principale il ricordo del bombardamento di Dresda (drammaticamente vissuto dai nonni di Oskar) costruendo un ideale parallelo tra Seconda Guerra Mondiale e 11 Settembre -il dolore, la morte, la tragedia hanno nomi e tempi diversi ma uguale sostanza-.
Un ragazzino sognatore -Oskar- alla ricerca della figura paterna. Detto così potrebbe sembrare la solita solfa, già vista, già sentita. Ringraziamo Safran Foer: non lo è. Il giovane scrittore sperimenta un complesso montaggio narrativo che, seppure con il limite di confondere le idee al lettore -la non linearità richiede uno sforzo intellettivo intenso per ricomporre la trama- ha il pregio di vivacizzare la macchina testuale. A voler a tutti i costi cercare di inquadrare il romanzo diciamo che esso si risolve in una narrazione principale condita con una serie di flashback che portano alla costruzione di una trama di rivelazione -di capitolo in capitolo si ricompone il puzzle-. Ma così facendo rischio di far torto al libro.
E commetterei certo un torto negando un plauso alla lingua scelta da Safran Foer: moderna, fluida, efficace. Una commistione riuscita tra la prosa schietta del romanzo americano degli anni '90 e la lingua del web. Un romanzo che vuol essere multimediale: il testo è accompagnato da fotografie che non figurano come mero elemento accessorio...sono parte integrante del meccanismo, anticipano e sottolineano gli elementi chiave della storia.
Concludo con un piccola critica. Molte forte, incredibilmente vicino pecca a volte di patetismo, cerca con ogni mezzo di suscitare la commozione del lettore. Il messaggio che passa tra le righe è chiaro: siamo una generazione che ha maledettamente bisogno di piangersi addosso.

Jonathan Safran Foer, Molte forte, incredibilmente vicino, Guanda, Parma, 2005, pp. 351, euro 16,50.

giovedì 22 marzo 2007

Memorie di vetro

di Sebastièn de Stermarie

Ehi.. giochiamo che ti copri la gamba di sassolini di mare, pescati in spiaggia a mano aperta, e vediamo chi trova più vetrini? Che ora ti bacio e sentirai la mia barba ovunque sarai, a distanza di tempo, di vento, di emozioni? Ricordi I vetrini?.. quelli gialli, intrisi dei raggi d’oro liquido che bagnavano quel giorno.. o gli smeraldi, o quelli viola, che non ho cambiato idea, ancora non credo esistano, erano solo una leggenda di quei tempi sospesi nella tiepida noia.. scaglie di mare iridescenti, piccoli tesori trasparenti di cui dimenticarsi all’ombra degli ultimi baci in fiore, preziose ancore dell’ingenuità, il nostalgico tentativo di colorare di felicità infantile le labbra un po’ screpolate, come allora..
Giochiamo che I sassi ti coprono solo le pieghe dei jeans disegnate dal tuo stare seduta scomposta, e che, alzandoti, disegnino cascate sinuose e fruscianti, in fretta, chè vuoi sfiorare l’acqua, e sentirla gelida..
Giochiamo che le sfumature rabbiose della risacca ci ricordano lo scrosciare del cielo, il faro danza a cercare aerei da abbattere, giochiamo che ora ti desti, con la tua mano nervosa spolveri ciò che rimane della ghiaia che riposava sulle tue gambe e mi raggiungi. Facciamo che dal bocciolo della tua pelle rosa non siano fiorite pietre, e che questa non sia la mia ultima lacrima, riemersa nello specchio che riconosce me, ma dimentica rapido una data spenta.

lunedì 19 marzo 2007

Contro i Buddha Rinunciatari

di Norberto Giffuri

Un risarcimento divino,
ancora tu attendi
che ti ripaghi dell'amore
che sempre ti fu rifiutato?

Ancora ti credi,
creditore?

A braccia conserte aspetti,
che da solo si aggiusti il fato.
Immobile ti ritroverò fra un lustro.
Che avrai riscosso?
Giusto un dito di polvere e d'inedia sul capo.

venerdì 16 marzo 2007

Io ero un ipocondriaco (seconda parte)

di Ezechiele Lupo

La sera stessa torno dal papà della mia ragazza e gli mostro le analisi. In tutta questa storia, in quel momento, fu l’unica volta che vidi un medico in silenzio, a pensare. Mi fece anche una piccola visita, sempre in silenzio. Poi disse: “C’è qualcosa che non va, un’infezione, ma queste analisi non ci dicono nulla. La medicina non è una scienza esatta: magari il fegato è in disordine per qualcosa che hai mangiato, o magari no. Ora non possiamo saperlo.” Aggiunge che, a questo punto, è inutile che io assuma il Ketoprofene. Prendo appuntamento col mio medico per fargli vedere le analisi, lo ottengo quattro giorni dopo. Intanto i sintomi non accennano a diminuire, anzi: ogni giorno sono più stanco e spossato, ho sempre due, tre linee di febbre, fastidi alle articolazioni soprattutto la mattina, e quella ghiandola sotto la mandibola che diventa sempre più grossa e dolorosa. Il giorno in cui il medico mi visita le dimensioni della ghiandola, o almeno così io la chiamavo, erano pressappoco quelle di un’albicocca: era ben visibile, dovevo nasconderla con la sciarpa. Dopo la visita si pronuncia: “Sento che c’è una sofferenza del fegato, io penso che tu abbia un’epatite.” Ma per sicurezza mi prescrive ancora delle analisi, e mentre le stampa, mi viene in mente un racconto della mia ragazza: il figlio di un collega del padre, fu ricoverato in ospedale perché presentava una tumefazione delle dimensioni di una palla da tennis sotto la mandibola; dopo le analisi scoprirono che era un linfonodo ingrossato, e poteva trattarsi di mononucleosi. Così provai ad azzardare una richiesta: “Può farmi fare il test per la mononucleosi?” Il dottore mi guarda muto, ma si vede che non sta pensando, o forse si chiede come abbia osato mettere il naso nella diagnostica ippocratea. Dopo un quarto d’ora di spiegazioni sul perché era impossibile che io avessi la mononucleosi, si convince, e mi prescrive il mono-test. Mi dice di tornare in ogni caso due giorni dopo, perché vuole controllare quel bozzo sotto la mandibola. In due giorni la tumefazione cresce e sembra una piccola pesca. Ma quando torno da lui, più che stare attento alla piccola pesca, mi raccomanda di insistere affinché il centro prelievi lo chiami non appena si fosse saputo qualcosa delle analisi, così da intervenire immediatamente nel caso di risultati imprevisti. La richiesta mi sembrò sospetta, e mi impuntai per sapere cosa presumeva di trovare di imprevisto. Allora quello confessò: “No niente. Ho pensato anche ad una forma di leucemia, ma… insomma vediamo, non stare a preoccuparti, sono io il medico!” Vado a fare ancora le analisi, e con mio grande disappunto mi comunicano che per l’esito ci sarebbe voluta più di una settimana. Dovevamo aspettare. Intanto la sera comincio a sentire un fastidio intenso nella deglutizione. Il giorno seguente non posso più deglutire nulla: ho le tonsille completamente coperte di placche. Ho difficoltà persino ad ingoiare la mia stessa saliva. Chiamo il medico di sopra e gli spiego tutte le cose successe dopo la sua ultima visita. Mi guarda la gola, e stavolta decide di farmi una visita totale: mi fa spogliare, sdraiare, mi ausculta, ma soprattutto mi tasta il collo, le spalle, sotto le ascelle, l’inguine, sotto la mandibola dove c’era la piccola pesca. Insomma in tutti i punti dove poteva determinare il rigonfiamento e la sofferenza di linfonodi. Mi fa rivestire e ci mettiamo seduti al tavolo nel salotto. Comincia a parlare: “Il dolore al collo che senti è dovuto al rigonfiamento dei linfonodi, come quello decisamente più dilatato e visibile che hai sotto la mandibola. Il fegato e milza sono ingrossati, e le analisi sono sballate a causa di un virus, che è motivo di tutti gli altri sintomi, come la febbriciattola, la stanchezza, i dolori articolari. Io credo che questo virus sia la mononucleosi. Malattia autoimmune che passa da sola senza lasciare conseguenze. Dati i due mesi e più di malattia, il tuo organismo ora è debilitato e alla mononucleosi si è aggiunta una tonsillite batterica molto importante, proprio perché ha trovato terreno fertile: per questa prendi un antibiotico, l’Augmentin per sette giorni. Poi quando saprai il risultato delle analisi, che saranno sicuramente positive alla mononucleosi, non dovrai fare altro che attendere di sviluppare gli anticorpi E tutto sarà finito.” Dopo due giorni di digiuno forzato, a causa di dolori lancinanti alla gola, riesco a magiare qualcosa, e noto che la piccola pesca sotto la mia mandibola si sta sgonfiando piano piano. Guarito completamente dalla tonsillite, ritiro le analisi: il fegato è sempre in disordine come linfociti e neutrofili, ma il mono-test è positivo. Ho la mononucleosi. Dopo pochi giorni la febbre mi passa, il linfonodo si sgonfia, spossatezza e dolori spariscono. Rimane ancora un generale senso di debolezza e la perdita di otto chili, ma i medici dicono sia normale. A Natale sto bene. Agli inizi di febbraio ripeto le analisi di controllo per vedere se i valori sono tornati a posto e, ovviamente, lo sono. Il medico del piano di sopra mi ha detto di non fare più le analisi, perché non ce n’è bisogno. Sono passato per: postumi di un intervento dentario, influenza, reumatite, epatite, leucemia, prima di scoprire di avere una banalissima mononucleosi.
Io ero un ipocondriaco. Ma per colpa mia?
Fine

mercoledì 14 marzo 2007

Io ero un ipocondriaco - (prima parte)

di Ezechiele Lupo

Verso la fine di agosto scopro, guardandomi allo specchio della stanza di una pensione, in una località anni cinquanta della riviera romagnola, un buchino nel quarto incisivo a destra appena sotto la gengiva. In settembre, non ravvisando miglioramenti, ma anzi, cominciando a sentire fastidio nel contatto con una bevanda fredda o calda, fisso un appuntamento dalla dentista. Sono i primi di ottobre quando mi riceve. Alla fine dell’ intervento di otturazione, mi dice che c’è la possibilità che il nervo mi possa far male. E aggiunge: “Prendi due Aulin, uno ora, uno stasera per dormire, perché ti farà male. Domani ancora, ma dopodomani cerchi di non prenderli, perché devi sentire se il tipo di dolore è da nervo o da gengiva.” Le chiedo come potessi mai riconoscere la differenza tra i due dolori, e lei mi rassicura, dicendomi che se sento fitte pulsanti è il nervo, se sento fitte brucianti è la gengiva. Dopo aver avuto questi strumenti per valutare il mio quadro clinico, saluto e me ne vado a casa. Nel tardo pomeriggio, appena passato l’effetto dell’Aulin, non è il dente a dolermi, ma il collo e la testa. Il terzo giorno non assumo medicinali e noto che mal di collo e testa vanno e vengono per tutta la giornata. Passo un paio di giorni con dolori intermittenti, ai quali si aggiunge, nel pomeriggio, una strana spossatezza che, verso sera, sparisce. Decido di chiamare la dentista, pensando che questi sintomi potessero in qualche modo riguardare l’intervento. Lei mi dice: “Non è niente, ma magari ti si è infiammata la zona per la posizione del collo durante la visita. Capita sai…” Ignoro i fastidi, e continuo a condurre una vita regolare. Dopo pochi giorni accuso altri sintomi: la mattina faccio molta fatica a svegliarmi per una grande stanchezza, e ho per tutto il giorno dolori alle articolazioni, soprattutto dell’anca e delle spalle. Poi un giorno mi sento peggio del solito. A metà pomeriggio mi misuro la febbre e scopro di avere qualche linea. Chiamo un medico che abita sopra di me, un amico, che mi guarda la gola, e dice: “Ti sei beccato un po’ di influenza: prendi l’Aspirina, stai al caldo e ti passa tutto.” Faccio come mi consiglia lui, persona fidata e competente. Sto al caldo tre o quattro giorni senza uscire di casa, prendo l’Aspirina, ma né i dolori alle ossa, né al collo, né la stanchezza generale, né la febbriciattola se ne vanno, anzi toccandomi la ghiandola destra sotto la mandibola, la trovo leggermente gonfia e dolente. Decido di andare dal mio medico curante, il quale mi riceve tre giorni dopo e visitandomi, mi comunica: “Tutti i tuoi sintomi riconducono ad una patologia precisa. Hai una reumatite.” La reumatite, o artrite reumatica è una malattia degenerativa cronica del sangue; si contrae trascurando un’infezione, ad esempio una faringite: il batterio entra nel sangue e va in circolo. Causa dolore alle articolazioni, (perché l’organismo matura degli anticorpi che rimangono per sempre nel sangue, consumando molto lentamente le cartilagini) stanchezza e febbriciattole cicliche. In certi casi, se non diagnosticata in tempo, può portare alla cardite, un’infiammazione del pericardio, o a problemi, temporanei, ma recidivi, del sistema nervoso, tra cui la cosiddetta Corea, o Ballo di San Vito, patologia che si manifesta con movimenti incontrollati di braccia, gambe e muscoli del viso. Queste informazioni le trovai su internet appena tornato a casa. Ma il medico mi rassicurò sostenendo che la fase acuta stesse passando. Tuttavia mi diede del Ketoprofene, una compressa prima di cena, per il dolore alle ossa e, escludendo qualsiasi complicazione cardiaca, mi disse di fare un'ecografia al cuore, così per scrupolo, con delle analisi del sangue e il test per la reumatite. La sera chiedo al papà della mia ragazza, un medico, cosa ne pensasse della diagnosi del mio: “E’ una diagnosi compatibile con i tuoi sintomi. Viste anche le analisi che il collega ti farà fare. Ma comunque non ti preoccupare, se la reumatite è stata sviluppata per contrastare un comune stafilococco, ti basterà prendere un antibiotico a largo spettro per debellare il batterio, e le manifestazione della reumatite saranno talmente rare, che te ne dimenticherai. Se vi fosse stafilococco-beta, invece, la terapia sono punture inframuscolo di penicillina, per due, tre mesi. Ad ogni modo, starai bene, non preoccuparti.” Il giorno seguente vado a fare le analisi. Ho le risposte due giorni dopo e con mia grande sorpresa l’esame della Proteina C-Reattiva, per vedere che tipo di stafilococco ho in corpo, è negativo: non ho la reumatite. Ma in compenso alcuni valori sono sballati in maniera imbarazzante: ho più del doppio dei valori massimi consentiti nelle transaminasi del fegato, linfociti e neutrofili invertiti per numero (non va bene), la VES (sintomo di infezione) oltre il limite massimo.
(continua...)

lunedì 12 marzo 2007

Storia di come eravamo

di Ezechiele Lupo

I

Eravamo vicini nei campi a mezzogiorno
io rosso e cicciotto
tu lunga lunga tutta gialla
ci hanno strappato alla terra
io separato in quarti
tu in chicchi d’oro
ora ci ritroviamo in questa insalata.

II

Tu mi fai girar
tu mi fai girar
diceva il vinile
al perno del piatto

arrivò il cd
se la rideva
con il suo laser

e l’mp3
il troione dei formati.

III

La lontananza ci ha stancati
eri troppo distante
non c’era contatto tra di noi
lo vedevo attraverso di te
mi chiamavi cristallino
ma eri una montatura
ora sto bene
io con la mia lente a contatto.

sabato 10 marzo 2007

Michele Mari - Cento poesie d'amore a Ladyhawke

di Ezechiele Lupo

Michele Mari pubblica per Einaudi il suo primo libro di poesie. Considerato il fatto che “libro di poesie” non è la giusta denominazione per una raccolta di poesie (non stiamo parlando, si badi, di ricette), e che “raccolta di poesie” fa già troppo campionario di stoffe, chiameremo il libello (corto, di libello si tratta) servendoci del numero dei componimenti presenti nelle poche pagine: cento poesie. Mari sceglie un titolo che non lascia dubbio alcuno sulla paternità dei componimenti: Cento poesie d’amore a Ladyhawke. Già nel titolo c’è gran parte della sua scia tortuosa e spiazzante, della sua vocazione letteraria alla letterarietà, intesa in senso dogmatico: nella cristallizzazione della parola, del lessico, sta la vera libertà aurorale, nell’accostamento di semplicità, leggerezza e riferimenti (parodistici) a mondi altri, o meglio, fuori dalla pagina.
Ne Il portaborse di Luchetti, il Ministro Botero, interpretato con perizia e fantasia da Nanni Moretti, sostiene irridente di non aver mai letto un libro fino alla fine, e si stupisce che i libri di poesie si leggano ancora. Anche a me è capitato di stupirmi su quest’ultimo punto. Mi sono spesso chiesto cosa fosse fare poesia oggi; avvenute tutte le decostruzione, persa quella verginità letteraria di cui parla Eco. Che vuol dire scrivere un verso? Non sono un amante della poesia e forse mai lo sarò; la poesia mi dice poco o nulla, qualsiasi. Ho letto per intero solo pochi libri di poesia tra cui le Lyrical Ballads (e ne vado fiero, cari miei!), e non posso dire di conoscere la contemporaneità del genere, ma Mari è un nome che accostato alla poesia fa sorridere. O perlomeno incuriosisce. Nei suoi romanzi e racconti, e anche nel suo modo di parlar semplice, (chi ha assistito alle sue lezioni lo sa) c’è una ricerca del registro alto, quasi tragico, nel quale non è raro imbattersi in spie testuali di un linguaggio basso, satiresco talvolta. Sarei quasi portato a dire che riesce a cristallizzare contenuti opposti in identiche forme, ma banalizzerei. Ad esempio tra le cento poesie ci imbattiamo in questa: Il mio amore è un trapano tremendo/Con punte/Al tungsteno/Al molibdeno/Al vanadio/Che fanno paura soltanto a vedersi/Il guaio è che da ragazzo/Mi han fregato il mandrino/E ancora/Lo sto cercando; la forma è evidentemente liberissima e l’amore come trapano è una similitudine fuori dal lessico poetico. Ma non bisogna fermarsi alle parole, dobbiamo guardare l’insieme del discorso: incredibilmente i tecnicismi, che non sono materiale poetico, vengono imbrigliati in una forma poetica che, se pur affatto che canonica, si canonizza. E’ quello a cui la lingua di Mari punta: creare un canone, o meglio, farsi canone letterario. Le cento poesie sono percorse da un’ironia a tratti irresistibile e fulminea, che può ricordare quella degli epigrammi latini: vi è il gusto per il mottetto, il particolare lascivo, la svisata erotica. E’ il percorso di un amore che si conclude con la morte: una fine impossibile e leggendaria, forse la morte delle parole, l’impossibilità di riferirsi all’esperienza amorosa, conclusasi come una mancata partita di poker. Non mancano tra i componimenti banalissime dediche da baci perugina come Centoundici, e versi fulminanti che versi non sono: Come un serial killer/faccio pagare alle altre donne/la colpa/di non essere te; poesia-non-poesia totalmente inutile, che se un merito possiede, è quello di illudere che essa sia davvero una poesia. La poetica di Mari recupera il medioevo italiano e lo ripropone senza gusto per la citazione colta: non attualizza temi e forme, ma restituisce testo e contesto, così come sono, comunicando ingenuità e sorpresa. Ci viene da chiederci: è poesia questa? Il linguaggio poetico ha recuperato la sua verginale ingenuità? O è solo l’ennesima maschera post-moderna di un narratore estremamente abile? Come dice Pasolini forse questa è una delle “enigmatiche correlazioni” che non ci è dato di sciogliere. Per me, che poco o nulla so di poesia, vale solo il piacere (sì, il santo piacere) di leggere versi come questi:


Nella mia testa
c’è sempre stata una stanza vuota per te
quante volte ci ho portato dei fiori
quante volte l’ho difesa dai mostri

Adesso ci abito io
e io mostri sono entrati con me



Michele Mari, Cento poesie d'amore a Ladyhawke, Einaudi, Torino, 2007, p. 112, euro 11,50.

giovedì 8 marzo 2007

Le avventure del signor B. - n°3 -

di Norberto Giffuri

Dalla calandra venne calata una scala di corda e un messaggio “Siamo spiacenti ma il raggio teletrasportatore è momentaneamente fuori servizio.” Il signor B. si rassegnò dunque a salire manualmente.

L’interno del velivolo era arredato Ikea con simpatici cuscini Alvine Brede poltrone Ektorp Jennylund che davano proprio un tono all’ambiente. Due alieni attendevano in piedi accanto ad una console di comando. Il signor B. li descrive come vagamente antropomorfi, alti circa due metri, bianchicci e flaccidi, dal collo lungo e il viso appuntito. In pratica una copia extraterrestre di Piero Fassino. I due alieni furono estremamente gentili. Fecero accomodare il signor B. su un lettino asettico, lo spogliarono, lo legarono e lo sottoposero ad un check-up completo, compreso prelievo del sangue e test del tasso alcolemico. Terminata la visita, fecero rivestire il signor B, gli offrirono dei biscottini allo zenzero, lo slegarono per permettergli la fruizione del prodotto dolciario, lo ringraziarono, lo salutarono e gli diedero uno strappo fino al cancello di casa. Tre giorni dopo il signor B. ricevette i risultati dell’esame del sangue. Aveva i trigliceridi alti.

Il signor B raccontò l’accaduto alla moglie, al figlio, al vicino, ai colleghi di lavoro, ad alcuni giornalisti di riviste pseudoscientifiche, ad un signore gentile che una volta gli aveva annaffiato i fiori mentre lui era in vacanza, a due agenti della buoncostume in incognito, a tre agenti dell’FBI in incognito ed infine ad una commissione istituita dal ministero della sanità che decise di radiarlo dall’ordine degli psicologi per manifesta infermità mentale.

Il signor B. in seguito si è trasferito per sfuggire le malelingue del quartiere. Attualmente è domiciliato a Rozzangeles, Italia, e svolge quello che da un recente sondaggio della rivista “cosmopolitan ubermensch” pare essere il lavoro più desiderabile per un uomo bipede caucasico dell’era contemporanea: il bidello/portinaio all’Università Statale degli studi di Milano.

(fine)


mercoledì 7 marzo 2007

Le avventure del signor B. - n°2 -

di Norberto Giffuri

Come ogni sera, dopo aver degustato i piatti preparati dalla sua dolce metà (la signora B., pesoforma attorno alle 350 libbre), il signor B. portò il cane fuori. Il cane, uno splendido esemplare di Collie
GoBackLassie, veniva portato sistematicamente a passeggio attorno all’isolato dalle 21:35 alle 22:05, con una tale regolarità che a volte accadeva dispensasse il signor B. dall’impegno avvisando premurosamente con un post-it attaccato alla cuccia recante il messaggio: “Stasera faccio da me”.

Quella sera, invece, il cane accettò di buon grado la compagnia del padrone. Mentre il signor B. deambulava con atteggiamento al di sopra d’ogni sospetto, notò improvvisamente una serie di oggetti luminosi intenti a solcare il cielo a grandissima velocità. Tali oggetti non identificati descrivevano parabole, spirali, doppie e triple eliche inverosimili per un qualunque velivolo commerciale -e non- di produzione terrestre. D’un tratto uno degli oggetti si staccò dalla formazione, planò verso il suolo con folle celerità, passo pochi metri sopra la testa del Signor B, sollevando un gran polverone, si allontanò di qualche centinaio di metri, poi innestò la retromarcia (il signor B. ricorda di aver sentito chiaramente l’avviso acustico) e si posizionò a perpendicolo su di lui. L’oggetto volante era ovale, di color bianco perla con riflessi argentati. Misurava all’incirca 12,35 x 8,44 metri. Pesava pressappoco 12560 kg e aveva il minimo del motore regolato male, sostiene il signor B. Il signor B. è un attento osservatore.

(continua...)

giovedì 1 marzo 2007

Il non ricordo. Ad una persona che ho perduto.

di Norberto Giffuri

Tu non puoi rammentare
Un mattino d'autunno, nelle Langhe
Fredda e bianca bruma che
Come sudario
Fascia le vigne, cinge i colli
D'un rugiadoso abbraccio.

Tu non puoi rammentare
Delle piovose nubi il livore
Nel pomeriggio di sabato
Trascorso senza indugiare oltre la veranda
Nel timore d'inzupparci,
In attesa che l'orizzonte diaccio
Ci regalasse un raggio di sole.

Tu non puoi rammentare
Il gioco del vento nella tua acconciatura
E l'improvvisa gioia nei tuoi occhi
Al primo accenno del sereno
Un azzurro lembo di cielo
Ed un poco di calura
In un luogo tanto ameno.

Tu non puoi rammentare
La bruma, le vigne, le nubi
La pioggia, la veranda ed il vento
Tutto ciò non è altro che sogno
E sogno soltanto
E nel sogno le cose hanno profilo incerto
E il tuo volto sfuma lungo la linea dei colli.