Il giudice sul mulo Periodico perenne di linguaggi letterari.

domenica 27 maggio 2007

Sentimenti IV

di Ariel Andrès Clanovas

Facciamo un rito,
Agli albori del mito
Divertirsì laggiù;
e diventa clou,
Se ti offri tu.
Obliamoci d’oppio,
Salutando falloppio
Nella penombra fulva,
Si nascose la vulva.
Ve la legate al dito
Ve la legate al clito,
Il dito nel clito
Sotto l’arco di tito.
E, tiepido magma,
Parliamo di smegma.
Che la bocca ti bagna,
E ti colgo in castagna.

mercoledì 23 maggio 2007

La fuga e il ritorno (ultima parte)

di Ezechiele Lupo

Il porto era immenso. Ne aveva avuto coscienza solo allora, mentre lo misurava a passi distesi e frenetici, frattanto che cercava di regolare la respirazione calda col freddo di fuori. I suoi gesti erano neri come il fondale marino, e come questo, all’interno R***** aveva un brulicare di vita, un fermento di dinamiche spinte, di correnti. In quel momento si accorse in modo terribile che il suo correre a perdifiato non era che un modo per proseguire ad uscire dalla nave. I suoi movimenti tendevano in continuazione ad uscire da un interno che era sempre diverso da quello che credeva. Provò a fermarsi. Il porto era ancora intorno a lui, ma la nave era già lontana. Pensò di esserne uscito davvero. Riprese a correre verso un grumo nero ad ovest rispetto al molo centrale. Era un groviglio di alberi, segno inequivocabile dell’uscita dal porto. Accelerò la sua andatura. Dopo pochi secondi si accorse della luce: sulla sua sinistra una luce di forma rettangolare si era accesa nel cielo. Pensò ci fosse una casa abitata, magari qualcuno che potesse offrirgli un letto o qualcosa su cui riposarsi, magari anche mangiare. R***** allora corse più veloce per uscire dal porto e raggiungere quella casa. Raggiunse infine una sorta di posto di blocco: sulla sua destra c’era un gabbiotto vuoto, di fronte una sbarra di ferro bianca e rossa. La oltrepassò e, aiutato dal sole che lentamente riemergeva dal pelo dell’acqua, prese la strada principale fino ad un tornante; superata la curva guadagnò la cima di un altopiano spoglio di vegetazione, sul quale riconobbe la luce rettangolare che vedeva dal porto. L’illuminazione apparteneva ad una costruzione cubica con cinque identiche finestre ognuna su un lato e sul tetto. La porta era sul lato est tenendo le spalle alla nave, ma su quello nord avendo come punto di riferimento l’ovest del porto. R***** notò la presenza di almeno una persona e bussò alla porta. Aprì un uomo sulla cinquantina, maglione a collo alto blu, barba brizzolata ma completamente pelato. R***** si presentò: “Buona sera, anzi dovrei dire buon giorno oramai: sono P*** della B****.” L’uomo lo guardò con diffidenza e soggiunse: “Io non parlo bene la vostra lingua, è qui per un controllo immagino.” R***** si stupì dell’ingenuità del suo interlocutore e confermò. Quello lo fece entrare. Era un laboratorio della B**** come R***** aveva immaginato. Sulla parete nord campeggiavano una brandina e un comodino, ad est tutti i vecchi macchinari del mestiere, ad ovest un cucinotto. Al centro della stanza una scaletta portava ad un bagno. Non si aspettava niente di che. Chiese: “Qui c’è solo lei?” L’uomo fece segno che non capiva. R***** allora indicò la branda e fece segno “uno” con la mano; quello annuì. “Come procedono i lavori? Mi faccia vedere delle carte, le risultanze.” L’uomo andò al fornello e mise un bollitore sul fuoco. Allora R***** gli si mise davanti e cercò di farsi capire: “Le risultanze… le carte. Avrà delle carte?” L’uomo sembrò seccarsi ma lo capì. Aprì un cassetto del comodino, prese un plico di non più di cinque pagine e glielo consegnò aggiungendo: “Non è scritto in vostra lingua.” R***** gli fece segno che non era un problema e finse di sfogliarlo. Poi disse: “Non va bene. La B**** non sarà soddisfatta del suo lavoro… signor…?” L’uomo lo fissò per qualche istante, forse per capire se era giunto il momento giusto, e capì che non ce ne sarebbe stato uno migliore. “Io mi chiamo P***... come lei.” E sorrise. R***** capì di non essere uscito né dalla nave e né dal porto. Spalancò la porta e si ritrovò sul ponte superiore, in pieno sole.
P***, intellettuale dell’intellighenzia della P******, nonché scrittore di fama mondiale, sorseggiava un buon daiquiri, mentre la più grande nave della flotta della C**** C****** lo faceva viaggiare immobile lungo le rotte più alla moda del mar mediterraneo. Dal ponte superiore godeva la vista della luce solare che lampeggiava sulla piattezza placida del blocco di acqua blu, sul quale scorreva veloce la mastodontica imbarcazione. Ora scorgeva una costa, ora un peschereccio, ora delle barche a vela che facevano il girotondo. Sul lettino di fianco prendeva il sole, con degli occhiali alla moda degli anni cinquanta, la sua bionda compagna di vita: bella e statuaria, l’orgoglio della P******. Si godeva la vita P***! Peccato che stesse tornando a casa. Peccato che la vacanza stesse già finendo. Eppure per evitare questo ritorno, pensava, potrei escogitare una fuga: una fuga notturna col favore delle tenebre, potrei calarmi con una corda nello scolo delle cucine, attraversare uno stretto passetto, ci sarà per forza uno stretto passetto, sbucare da un ancora più angusto tombino, e correre a perdifiato verso il fuori. Tuttavia ci sarebbero altre soluzioni per raccontare una fuga, tante quante sarebbero le possibilità della fuga stessa, ma solo una sarebbe giusta: dovrei all’infinito tentare di raccontare un percorso che va da A a B, passando ogni volta per tante X, quante il numero delle possibilità di fuggire, al fine di trovare quella che mi consenta una ri-uscita. La mia fuga da questa vacanza sarà il mio ritorno, infine pensò lo scrittore P***.
Fine

lunedì 21 maggio 2007

La fuga e il ritorno (prima parte)

di Ezechiele Lupo

Dal molo centrale, stretto nell’insenatura della scoscesa scogliera, stava salpando la grande nave che l’aveva condotto su quell’isola ad ovest del nord delle coste del continente. Salpavano e fuggivano le eventuali speranze di tornare a casa. La sirena alta e grave echeggiò più volte tra i crepacci e i fiordi adatti, così pareva, per la spettacolare acustica. L’immenso transatlantico, fatto il pieno di carburante, aveva aspettato due notti prima di rimettersi in viaggio, aggirare le fredde isole, circumnavigare la penisola montuosa, e scoprire che dopo tutto quel barcollare tra correnti gelate e mari in tempesta, c’erano ancora una volta i tropici. R***** era uscito dalla pancia del mostro d’acciaio una notte. Quando il sole veniva inghiottito dall’orizzonte per poche ore: solo in quei minuti si poteva tentare una fuga. La corona di luce verdognola che si alzava dal bianco mare in lontananza, non era sufficiente ad illuminare il molo e gran parte dell’isola. Colse il momento giusto. Alzò leggermente il coperchio della cassapanca sul primo ponte a poppa in cui si era nascosto in previsione dell’ammutinamento. Controllò che non ci fosse nessuno e che la botola, della quale aveva avuto la chiave la sera prima, durante una mano di dadi, ( la sua mano era finita accidentalmente nel taschino di un marinaio, e n’era uscita con l’oggetto di ferro tra le esili dita) che dava sulla scaletta dei garage fosse accessibile: la via era libera. Prese coraggio e spalancò la cassapanca. Saltò fuori con la sacca a tracolla, la chiave in una mano e una corda robusta nell’altra. Corse piegato, mentre sfruttando le ombre lunghissime cercava di mascherare la sua, si gettò a terra e infilò la chiave nella serratura della botola di ferro pesante. Dopo averla girata con forza senti il rumore che conosceva bene: la serratura di ghisa che si apriva pesantemente e lentamente. Il meno era fatto. Sapeva che la botola era troppo pesante per poterla aprire da solo: era necessario che il marinaio a guardia del garage, sentendo la serratura aprirsi, facesse forza da dentro, così che chi stava sul ponte avrebbe alzato il chiusino e sarebbe penetrato attraverso la scaletta. Aveva sperimentato che si disponeva di pochi secondi prima che quello di sotto giungesse ad aprire, scoprendolo. Così fece quello che da tanto tempo aveva progettato: legò alla maniglia del boccaporto una cima della robusta corda da àncora, si imbracò con l’altra estremità, saltò sulla ringhiera che aveva di fianco e, in bilico, cominciò a tirare con tutte le forze, finché non sentì il coperchio sollevarsi. Allora capì che il marinaio era lì sotto che spingeva. Dopo pochi secondi di sforzo la botola si aprì completamente; il marinaio, aspettandosi di vedere il volto di un collega al di là del buco, ebbe solo il tempo di dire “…ma chi è?...”, che R***** si gettò dalla ringhiera piombandogli addosso. La corda si girò e il peso di R***** trascinò il coperchio, che velocemente si chiuse senza rumore perchè lo spessore della fune fece da cuscinetto. Egli si trovò appeso con il marinaio svenuto sul fondo del garage. Sorpreso ed euforico per la riuscita dell' impresa, slegò il canapo e precipitò a terra. In ginocchio si guardò intorno più volte: nel silenzio pareva non ci fosse nessuno. Nascose lo svenuto nel gabbiotto, attraversò correndo tutto il garage fino ad un piccolo tombino tutto arrugginito. Con la chiave della botola fece perno, e a fatica riuscì ad aprirlo: sotto di lui c’era il buio, il freddo e il rumore del mare nero. Fece luce fioca fioca con un accendino; come aveva intuito sbirciando la pianta della sezione verticale della nave, capitatagli in mano quasi per caso non molto tempo prima, lì sotto passava uno stretto e marcio parapetto non più largo di 60 cm, sotto il quale la nave era forata per permettere lo scolo dei servizi e delle cucine. Attraverso una pompa di risucchio veniva incanalata l’acqua sporca, ed espulsa durante la navigazione. A quel punto si calò con abilità nello stretto e buio cunicolo fino a che non sentì sotto i piedi un appoggio stabile. Non rimaneva che proseguire sempre dritto cercando di non cadere sotto la nave, nel mare, ed essere risucchiato dai ghiacci. Giunto ad una parete che poteva sentire solo con le mani protese ansanti davanti a sé, capì (se tutto il suo piano fosse stato congeniato a dovere) di essere esattamente all’altezza di uno sportellino minuscolo, che dava sulle assi di legno freddo del molo centrale. Con uno scatto aprì lo sportellino: era ancora buio, ma davanti l’imbarcadero lo attendeva. Sorrise e dovette mordersi la lingua per non esultare. Con una furia feroce, come un leone che trova un varco nella rete di protezione del recinto e la divelte per fuggire, fece passare la sacca dal portello, e dopo essere sgusciato in quel misero spazio, fu finalmente sul molo. Era fuori. Anche se qualcuno poteva aver visto la corda ciondolante appesa allo sportello della botola, non l’avrebbero cercato, non si sarebbero arrischiati di scendere dalla nave per paura di rimanere su quell’isola, traditi a loro volta da quelli che avrebbero tradito. Ma era meglio fuggire nell’entroterra il più in fretta possibile. Così si mise a correre sempre più velocemente, tanto che gli occhi lacrimavano, forse per il gelido vento del nord che riverberava sul viso, forse perché trattenersi non era più possibile.
(continua...)

martedì 15 maggio 2007

No dai, non dalla parte del cuore

di Ezechiele Lupo

No dai, non dalla parte del cuore
Sia mia la tua
Immagine dal basso
Che è quella che più preferisco

No dai, non uscire
Non vedi che ha già piovuto
Potevamo continuare ad ignorarlo
Fu l’effetto della biologia

No dai, non chiudere gli spifferi
Puoi stare senza pesare
Ma non dalla parte del cuore
Mi ricordi il calcio balilla

Tra un tavolo e un cassetto
Chiudo con un versetto
Non dalla parte del cuore
Al momento è già tutto vapore.

sabato 12 maggio 2007

Le avventure del signor B. - n°4 -

di Norberto Giffuri

Prima lettera d'amore del Signor B. pubblicata nella sezione Annunci, varie ed eventuali della prestigiosa testata Cronaca Qui e anche La a spese del suddetto.

Ti ho vista oggi sul metro ed eri bella come il sole o forse più. Chiacchieravi con le tue amiche e sorridevi serena. Indossavi una camicetta bianca attillata e dei jeans ancora più attillati...tanto stretti che ho potuto valutare dal rilievo il contenuto delle tue tasche: un lucidalabbra, un i-pod e 2 euro e 35 cent.
Sei scesa alla fermata Lima, non Lima in Perù ma Lima in Buenos Aires; non Buenos Aires in Argentina ma Buenos Aires in Milano. Io invece ho proseguito fino a Loreto. Poi ho preso la verde e sono sceso a Lambrate. Mi sono avviato verso casa, la luna splendeva nel cielo e non facevo che pensare al tuo sorriso.
Dovevo essere un poco distratto perché sono finito un una zona morta dietro una siepe dove sostavano due tipi loschi che mi hanno spintonato e poi afferrato. Prontamente ho reagito e con una testata ho colpito il pugno di uno dei due energumeni (come mi ha insegnato il mio maestro di arti marziali Woody A.). Qualcosa della mia tecnica di autodifesa non deve aver funzionato perché mi sono ritrovato knockout sul marciapiede. Sopra di me le stelle della via lattea danzavano in cerchio. Mentre i due brutti ceffi mi alleggerivano del portafogli, delle scarpe di vero cuoio, dei pantaloni e temo della mia verginità anale, le stelle convergevano verso un ideale punto fisso disegnando il profilo del tuo dolce volto.

Il tuo ammiratore segreto.

Signor B., via Simone Cristicchi 25,
Milano-citofonare ore pasti

venerdì 4 maggio 2007

A passeggio per Bordighera

di Norberto Giffuri

A passeggio per Bordighera, nella luce che soffolce;
Quel fare corrusco del mare, infilzato obliquo dal sole...
La Liguria, cerniera dai denti che son monti stempiati, brulli alle cime, brizzolati di macchia sui fianchi.

Il piede impara le modulazioni dello scoglio,
indugia sulla sabbia,
con baldanza attacca il marmo del molo.

Un satiro con l'orecchino di caucciù, lisciando le labbra, squadra una ragazzina;
Un terrier si scuote, imperlando il suo intorno di gocce e una giunone teutonica si scosta con livore. La casa bianca dal volto rabberciato dove si dice Cadorna -Luigi- mancò; nemmanco una targa a rammentarcene il disonore.

A passeggio per Bordighera nella chiarità della mattina,
sfiorare con la spalla il costato di una chiesa,
dietro l'angolo scoprire una corona di narcisi dare tono regale
ad un ciuffo d'erba proteso verso la marina.

Uno storpio mendica, le mani vibranti, la testa china, stravaccato in cenci lerci;
Il sole lo violenta col suo fulgore, mette a nudo la sua miseria, sulla faccia lustra della banchina.

A passeggio per Bordighera, tra le risate sghembe dei gabbiani;
Realizzare, senza emozione, che la vita parla la lingua brusca
della contraddizione.