Il giudice sul mulo Periodico perenne di linguaggi letterari.

domenica 28 ottobre 2007

Como: un posto tranquillo

di Florian Alexander

Dove andate? Chiese Disk a Nicole.
Da qualche parte con mia sorella: in un posto interessante, spero, perché ho perso tanto tempo. Ma forse diranno che dapprima devo stare in un posto tranquillo: forse Como. Perché non venite a Como?

Tratto da Tenera è la notte di Francis Scott Fitzgerald


È così che ti amo, Como. Spettinata dal respiro del lago, lucida e deserta. Sprofondata nelle armoniche del silenzio. Chiusa nel costato dei colli da tre lati, protesa verso il ventre del lago, accoccolata e luccicante sotto una luna smorta. Percorro la nuda schiena di Piazza Cavour, il salotto buono della città, lo sguardo sale il colle, verso Brunate, incontra un pulviscolo di luci zigzaganti tra le ombre dei boschi e infine trova l’iride gialla del faro che nella notte fa girotondo. Mi infilo sotto i portici, i negozi sono serrati, dorme Piazza Duomo tra lenzuola di tenue luci. Un lampione getta la propria ombra tra le mie braccia. Improvviso una danza attorno al suo torso rigido poi mi allontano svicolando tra i tavolini vuoti di un bar.
Como, sei tanto fredda stanotte, vorrei stringere le tue mani di pietra, baciare le tue labbra d’acqua dolce. Di giorno somigli ad una bella signora che con un colpo di ventaglio allontana infastidita la pletora dei suoi amanti. Ma quando cala l’oscurità e le tue vie deserte s’aprono all’eco dei miei passi, sei mia e mia soltanto.

giovedì 25 ottobre 2007

Senza titolo

di Tobia Deruna

Consuma nostalgie contorte,
come salice senza radici,
e il suo pensiero sa d’aceto,
bagnato da lacrime d’addio.

Ricorda spesso i giorni,
del melograno e del cotone,
ma già il ricordo s’avvita
e si fa spirale convulsa.

Sulla neve han messo il sale,
ed il mare è senza nubi,
ma il suo cristallo è pietra,
che non brilla più ormai.

Il canto d’un uccello
è eco di terre lontane,
dentro acqua che scivola,
senza potersi fermare.

domenica 21 ottobre 2007

Prima del diluvio

di Tobia Deruna

Ricordo i suoi occhi
prima del diluvio,
ricordo la sua voce e la fonte
prima del diluvio,
la sua voce e la fonte
prima del diluvio,
e ricordo i ciuffi d’erba verde
e i cristalli di pioggia,
ricordo i lampi, ricordo l’aria
e ricordo i corpi,
i corpi nella terra,
e la terra umida sotto i corpi,
prima del diluvio.

Questo e null’altro ricordo
del giorno del diluvio…

Ricordo la tenerezza
prima del diluvio,
ricordo le foglie
prima del diluvio
ricordo l’odore della terra
prima del diluvio
e l’odore della pioggia
e l’odore del grano
prima del diluvio,
e ricordo la sabbia e gli insetti
le sue mani e le formichine
prima del diluvio,
e le sue spalle e il suo sorriso
prima del diluvio.

Ricordo le lacrime
prima del diluvio,
le ombre e il suo volto
prima del diluvio,
e ricordo gli uccelli
e il loro canto cupo
prima del diluvio,
ricordo la terra che si muove,
ricordo le dita tra i suoi capelli,
ed i fiori appassiti,
prima del diluvio,
e ricordo uno steccato ed un pesce,
e il vento tra gli steli
ed un calzino stropicciato,
un riflesso nei suoi occhi
ed una goccia di pioggia sulle labbra
prima del diluvio.

Questo e nient’altro ricordo,
del giorno del diluvio.

lunedì 15 ottobre 2007

La leggenda di Ludvig

di Asincheraglia

Preso da un cattivo maestro, Ludvig accettò la lotta armata con entusiasmo infantile.
Il materialismo del sangue, in antitesi al freddo meccanicismo della pistola in metallo e latta, rassicurava la sua liquida personalità.
Del resto, odiava le ingiustizie da sempre. A 11 anni si era preso la briga di rubare la lente che quella fottutissima donna, detta sua madre, gli aveva autoritariamente espropriato, impedendogli di incendiare le nutrite colonie di formiche del cortile. Formiche fasciste, s’intende.
L’esuberanza del giovane si era stemperata in collegio, fra le gambe di un prete di nome Giuseppe che gli inculcò, fisicamente, il “messaggio divino”.
Terminate le scuole, più confuso che persuaso, si mise a guardare la vita.
Guardava la vita e guardava se stesso con gli occhi di un medico un po’ invasato e un po’ freudiano.
Ludvig non capì mai i criteri di felicità proposti dal dott., ma cercò di adeguarsi.
“Essere presenti in se stessi, nelle proprie azioni, nella propria esistenza. Riflettere.”
Non comprendeva perché, oltre a dover condurre una vita di merda, dovesse pure pensarci su.
Correva l’anno 2007 e iniziò un corso universitario. Fu contento improvvisamente, una notte, scopando allegramente e un po’ ubriaco dopo un concerto di marijuana.
Siccome non aveva pensato a se stesso, corse dall’invasato e freudiano, per concedersi una rivincita esistenziale. “Io parlo di felicità, non di contentezza” rispose il dott. barbuto.
Deluso, Ludvig avrebbe capito solo grazie al cattivo maestro che la felicità è borghese e non di tutti.
Seppellire una pistola non è un affare semplice. Ludvig sfogliava Gramsci.
Grazie al suo libro iniziò la lotta armata, utilizzando la copertina come paletta per dissodare il terreno e riporre il ferro.
Il cattivo maestro lo conobbe fra le mura universitarie.
In realtà non era cattivo (rimproverò Ludvig per l’episodio infantile delle formiche) e neppure un maestro (anzi studiava ancora, dopo più di 30 anni). Tuttavia, era un cattivo maestro.
Nelle campagne della pianura si mischiava il proletariato con l’ideologia.
Il cortocircuito fu immediato, dal momento che Ludvig non era proletario e, al massimo, aveva qualche idea.
Ancora una volta fu contento d’improvviso, esplodendo un colpo di pistola precisissimo contro un manichino di polistirolo e plastica.
Tuttavia, si crucciò subito dopo, non capendo se quel sentimento fosse di effettiva felicità o di evanescente contentezza.
Così, disse a voce alta: “E’ lecito domandarsi il perché l’uomo possegga la straordinaria capacità di porsi dei quesiti ai quali mai potrà dare risposta.”
Il cattivo maestro intervenne, sciorinando una salda sicumera e soluzioni per tutto.
La felicità rubata dai borghesi divenne, per Ludvig, un pensiero costante e snervante.
Sempre senza persuasione e con molta confusione, iniziò ad avere i suoi punti di riferimento.
La pistola e le sue potenzialità, il furto emotivo dei borghesi, un conto in banca sempre vivo grazie alle premure dei genitori lontani.
Cresciuto, si illuse di essere pronto ad affrontare questioni come la morte e la giustizia.
La notte fra il 3 e il 4 Marzo di qualche anno dopo, nascosta la pistola nei calzoni, si mosse verso la casa del dott. .
Seduto sulla poltroncina rossa di feltro, il vecchio era intento a scrivere un libro di trecento pagine, centellinato perché la felicità cogliesse il lettore dopo la penultima sillaba dell’ultima frase.
Una frase che non riuscì a vergare, sorpreso come fu da una scossa di pungente adrenalina alla schiena.
Era la pallottola che, senza consapevolezza, veniva scambiata per un istante di appagamento.
Ludvig rimase sospeso fra il sangue, il corpo, e la canna fumante della pistola.
Dalla mattina successiva, perso fra i Nebrodi siciliani, la storia smise di seguire le pieghe della vita di Ludvig, oramai imprigionato in una leggenda che resiste solo nelle camere oscure delle memorie più curiose.

giovedì 11 ottobre 2007

Espiazione

di C. Lavezzi

Infrangi il sogno di tremila giorni
E a quarant’anni aspetti la fuga
In quarant’anni le vite si dileguano
In quarant’anni il pulcino muore

L’insetto nell’ardere del fiammifero
Si distingue per grazia, stile ed eleganza
Vola sapendo di non volare
E di notte si getta da solo nell’inferno

Mi dici che è successo?
In quarant’anni avresti pesato le parole
Le parole d’amore aspettano tremila giorni

Intatta rimane la forma del monte
In quarant’anni il pulcino rinasce
Mille e novantasei micidiali anatemi di felicità

domenica 7 ottobre 2007

Quakers - ultima parte

di Norberto Giffuri

Li notò subito, accanto al parapetto. Un uomo, una donna, uno di fronte all’altra. Si staccavano i loro profili dal nero ventre del lago, immortalati così, nell’aura tenue della luce di un lampione che defilato osservava la scena. Una scena da romanzo rosa, una donna, un uomo e la notte, il lago, ma quella bizzarria, quella stramberia dello stare inginocchiati, immobili, come spiegarla ad una lettrice di Harmony o collana equivalente in contenuti e forma? Ma qui non si vuol far para-, si ha la pretesa di letteratura verace, istituzionale quasi…oddio dove siamo arrivati a furia di mulinare il pensiero sulle dinamiche del racconto, la nostra spocchia ci seppellirà tutti e così mi tocca dire che lei, la donna, aveva un nobile profilo, dolce, neoclassico, incorniciato da una cascata di riccioli, una vertigine di spirali che la brezza giocava a fare onde e lui, l’uomo, l’aveva virile, il profilo, un mento forte deciso, postmoderno addirittura. Si guardavano negli occhi, lei, lui, e il silenzio rotto dal respiro regolare del lago conferiva un tono sacrale, una fissità ieratica alla scena…una scena quasi da romanzo rosa, la notte, il lago, un uomo, una donna e distesa nei venti centimetri di spazio tra i loro visi l’eternità tutta o qualcosa che sapeva di essa.

E lui, l’alticcio, non fece altro che inebetirsi e osservare per cinque, venticinque, centoventicinque, seicentoventicinque, tremilacentoventicinque istanti…e la coppia: immobile…e lui altrettanto - immobile intendo-, e di fianco il lago, davanti il lago, altro fianco: stesso lago…e quel silenzio cadenzato dalle onde - c’è qualcosa di strano? Di silenzio si tratta o d’altro? – quella pace semplice di due amanti in ginocchio, una serenità che per anni aveva anelato e che poi aveva respinto, scaraventata nel pozzo nero nel quale ora stagnava con tutte le altre utopie. E fu come uno schianto accorgersi che basta così poco per…
…davvero tanto poco per…
…come quei due.

***

L’uomo accennò un movimento del capo. La donna rispose con un gesto altrettanto lieve. Lui si alzò, le tese il braccio. Lei prese la sua mano, si sollevò e fu al suo fianco. Lentamente raggiunsero il portico. Lo videro, lei sorrise.

“Now we are married.” Disse.
Fine

venerdì 5 ottobre 2007

Quakers - seconda parte

di Norberto Giffuri


Cinque minuti più tardi accostò l'auto davanti ad un ristorante. L'insegna al neon occhieggiava aggrappata ad un balcone. Vi posso assicurare che splendeva di una luce arancione cristallina e non certo di quel giallo opaco che lui, il ciucco, vedeva. E posso aggiungere che per il tragitto marciapiede-porta del ristorante solitamente occorrono molto meno di tre minuti..ma ora non pretendete che un siffatto giovane Bacco possa essere un centometrista sbronzo...accontentatevi di osservarlo mentre barcolla sui tre miseri scalini che lo separano dal terrazzo esterno...eccolo appoggiarsi con la delicatezza di una colata lavica alla ringhiera...e bradipamente issarsi verso la soletta, poi adagio, cauto, impegnato nella circumnavigazione di un tavolo e quattro sedie...una pausa di riflessione...altri 2 passi e una scritta sul vetro della porta: “chiuso”.

Si sedette con la schiena contro il muro. Il terrazzo girava, girava...e la lanterna di ferro battuto ballava la mazurca.


Si svegliò. Era ancora notte. Notte fonda. Lui non sapeva di aver dormito dieci minuti scarsi. Ma lo immaginò. Una falena incarognita batteva la testa contro l'insegna. Ronzava e sbatteva. Sbatteva e ronzava. Era un'immagine significativa che riassumeva una parte della sua esistenza....ma lui non afferrò al momento...lo capì solo in seguito......ma ora non mi va proprio di raccontarvelo.

Restiamo alla situazione ristorante. S'alzò non senza affanno. Proseguì in una direzione aleatoria, che fu questa volta pressapoco quella da sud-ovest verso nord-est. Le sue intenzioni deambulatorie cozzarono contro un muro. Un muro di pietra di una via stretta, quasi una scalinata, che scendeva verso il lago. Scese pure lui. Scivolò sotto un portico col soffitto a volta. Il buio giocò ad avvolgerlo in una coltre nera. Si fermò ad ascoltare il respiro regolare del lago e lo confrontò col suo, molto meno ordinato. Avanzò a passi tardi e lenti. Il molo si rivelò nella luce argentea della luna. Uno spiazzo d'erba affacciato sul lago, un parapetto di sasso e sulla destra una scaletta verso gli attracchi delle barche. Soltanto questo? No.

(continua)