Il giudice sul mulo Periodico perenne di linguaggi letterari.

sabato 30 gennaio 2010

L'amministratore delegato - seconda parte

di Nepomuceno Sadda


Il giorno seguente alle sette e venti di mattina lo trovo nella sala da pranzo dell'albergo. La sua colazione è composta di quattro fette biscottate, marmellata di albicocca e the caldo. Mi confida che sua moglie gli ha insegnato ad evitare le brioche e il burro. In casa sua sono banditi, così come i cibi fritti e le merendine da ipermercato. Dice che è andato a correre, poco prima, alle sei. Il lungomare era splendido. Poi ha risposto a qualche mail di lavoro e quindi eccolo al tavolino. Mi chiede se ho passato una buona nottata. Annuisco. Accanto a noi c'è un tv color appeso alla parete, sintonizzato su un canale di news. La speaker sta informando sulla politica di Obama riguardo alla sanità pubblica. Lui sogghigna e ripete due volte: “Non gliela lasceranno fare”, la prima volta con ironia, la seconda deciso, serio, puntuale.

Più tardi, in auto, nel tragitto verso l'ufficio di un cliente mi dice che un Audi che pesa duemila chili che trasporta due persone di sessantacinque chili è uno spreco immane. L'industria automobilistica punta ancora su una tecnologia, il motore a scoppio, vecchia di due secoli. D'altra parte non esiste al momento una valida alternativa al petrolio. Le auto elettriche sono buone soltanto per andare a fare la spesa nel paesino di campagna. La conversazione è interrotta dallo squillare del suo palmare.


Nel primo pomeriggio siamo ancora in auto, direzione Milano. Mi domanda se ho fame, rispondo che pranzerei volentieri. Mi chiede di pazientare qualche minuto, uscirà dall'autostrada e andremo in una taverna dove servono delle magnifiche trofie al pesto. Accanto alla taverna c'è la casa di un cliente quindi approfitterà della sosta per discutere alcune questioni con lui.

Venti minuti dopo siamo in un minuscolo paese arroccato in una valle chiusa e ombrosa. Dalla piazzetta centrale si vede il raccordo autostradale. Le auto sfilano veloci in una processione monotona. La taverna è una casa di mattoni rossi incastrata tra una chiesetta e un minimarket. La porta d'ingresso è incorniciata dall'edera, il menù esposto in una teca di legno appesa a fianco.


Entriamo e ci sediamo al primo tavolo libero. Il servizio è rapido, dieci minuti e le trofie sono fumanti nei nostri piatti. Lo vedo mangiare di fretta, trafficando con il palmare. Ad un tratto si scusa e mi dice che deve salire dal cliente. Io posso senz'altro rimanere lì, se chiedo alla cameriera posso avere la chiave per la rete Wi-Fi e lavorare in tranquillità. Mi dice di ordinare pure il dolce e il caffè, sistema poi lui con la proprietaria. Dunque esce. Da una finestra lo vedo attraversare la piazzetta ed imbucarsi in una porta a doppia anta di una casa alta e stretta con i balconcini ornati dai gerani.


Dieci minuti dopo mentre assaggio una torta di mele sento trillare il suo palmare. L'ha dimenticato nella tasca del giaccone. Lascio che squilli, nel silenzio della taverna. Due minuti più tardi il trillo ricomincia. Lo prendo e rifiuto la chiamata. Imposto la modalità silenziosa. Le telefonate si susseguono. Prendo il palmare ed esco nella piazza. Entro nella casa alta e stretta. C'è una scala che sale e conduce ad una balconata che fa da perimetro ad un cortile interno. In sottofondo si sente una canzone, un brano dei Jefferson Airplane di fine anni sessanta. Proviene dal lato destro del cortile. Proseguo lungo la balconata e d'un tratto lo vedo. L'amministratore delegato che danza in camicia azzurra e boxer incorniciato in una porta finestra. Indietreggia, le mani alzate verso il soffitto, ondeggiando. La bocca è aperta in una largo sorriso. Nella cornice entra una donna, avrà trentanni, è in reggiseno e indossa una specie di pareo. Tiene un bicchiere da cocktail tra le mani congiunte sopra la testa e balla ancheggiando. La musica psichedelica dei Jefferson Airplane giunge ovattata dai doppi vetri. Si sente un un lieve rimbombo, si colgono gli accordi di chitarra, il rullante della batteria. Torno sui miei passi, scendo le scale, mi siedo nella taverna, lavoro sul notebook.


Trenta minuti ed è di ritorno. Chiede scusa per l'assenza, tasta il palmare nella giacca, lo prende, legge le chiamate non risposte poi mi dice che possiamo ripartire. In auto mi domanda se ho apprezzato le trofie. Annuisco. Dice che dovrà fare qualche telefonata di lavoro. Se voglio riposare posso rilassarmi sui sedili di pelle, sono traspiranti e ventilati. Poi incomincia il giro di telefonate. La pianura scorre fuori dal finestrino. Prima di Tortona, sto già dormendo.

sabato 9 gennaio 2010

L'amministratore delegato - prima parte

di Nepomuceno Sadda

Alle otto e quindici minuti, la sua Audi A5 bianca gira l'angolo del palazzo e si ferma davanti a me. L'amministratore è al telefono, mi sorride e mi fa cenno di salire a bordo. Mette in moto, imbocca l'autostrada, terza corsia, cruise control. Dopo una ventina di minuti chiude la telefonata. Conversiamo. Convenevoli poi si passa all'auto nuova. Ha scelto il colore bianco su consiglio del suo arredatore. L'arredatore sostiene che il bianco metallizzato è il colore del momento per le berline tedesche. Si fida del suo designer d'interni: hanno studiato insieme all'università, si conoscono da vent'anni. Sta seguendo i lavori nella sua nuova casa, una cascina sui colli piacentini. Dice che trasloca da Milano per fare crescere in modo più sano i figli. Vivranno lì solo nei weekend e nelle vacanze, perché comunque frequentano la scuola americana a Milano. Hanno sei e otto anni, due maschietti. Aveva pensato ad una proprietà in Maremma ma era troppo isolata, fuori dai giri che contano. Dice proprio così: ‹‹Fuori dai giri che contano››. Forse ci penserà per la pensione. E poi hanno già la villa dei genitori di sua moglie, a Lipari. Forse ci faranno un albergo.
Poi parliamo di lavoro, per tutta la strada fino a Riccione.

La sera lo incontro nuovamente. Mi dice che conosce un buon ristorante, un posto di classe. Il locale è un rustico che pare recentemente ristrutturato. Luci segna-passo e camerieri servili ci guidano dal corridoio al tavolo. Ci accomodiamo.
Mi chiede se sono stato stagista. Lo sono stato. Nella sua azienda c'è uno stagista ogni cinque dipendenti e lui si è ripromesso di assumere uno stagista su cinque. Poi è arrivata la crisi e insomma, finché tutte le altre aziende ricorreranno al lavoro precario lo farà anche la sua. Gli dico che è un circolo vizioso. Annuisce, mi versa del vino bianco e sorride. Dice che il precariato è il modo errato di educare la nostra società al dinamismo. Sostiene che il modello sono gli Usa, dove i figli non seguono la strada dei padri, dove si incontrano manager trentenni, dove il posto fisso non è un mito. Obietto che la crisi ha avuto origine. Risponde che i mali della finanza americana non devono condizionare il nostro giudizio sul loro sistema nella totalità. Milano invece? Milano è la città più americana d'Italia, dal punto di vista dell'organizzazione del lavoro: ma non basta. Dice che Milano è un piccolo feudo circondato dal deserto.

Dopo cena passeggiamo sul lungomare, direzione albergo. Squilla il telefono. Lavoro: dal tono confidenziale sembra una conversazione con un partner di lunga data. Chiede scusa, si allontana. Lo vedo camminare sulla spiaggia, trascinando i piedi, il palmare appoggiato all'orecchio destro, gesticolando con la mano libera. Lontano, dal buio informe, arriva lo scrosciare del mare sulla battigia. Sono le undici di sera.