Il giudice sul mulo Periodico perenne di linguaggi letterari.

sabato 18 ottobre 2008

Colmare di certo l'incerto

di Ezechiele Lupo

Quando dalla nostra finestra, divelto il vetro, fece irruzione la lampada d’ottone del lampione di fronte a casa, mio padre decise che era giunto il tempo di andarcene. Avevamo resistito per tre mesi alla guerra che impazzava tra le strade della periferia, perché quel tempo ci aveva messo per giungere alla nostra porta, anzi alla finestra. Quella pesante lampada, quella polvere scintillante dei vetri in frantumi erano stati i messaggeri (forse divini) dell’imminente distruzione della casa nella quale ero nato. Al centro quasi esatto della sala, nel rombo di un silenzioso risucchio, si era fermata la pesante lampada, proprio in corrispondenza del lampadario di cristallo che pendeva dal nostro soffitto: quel perfetto asse di simmetria per la mia famiglia rappresentò il confine tra la vita e la fuga.
Caricammo poche cose in macchina.
Mia madre chiuse a chiave la porta di casa, pur sapendo che sciacalli, bombe e proiettili avrebbero trovato facilmente il modo per entrarvi. Passammo per le strade che facevano da raccordo tra la metropoli e i dintorni industriali: io, mio fratello, mia madre e mio padre che guidava, portavamo sulla testa delle pentole d’alluminio, elmetti fatti in casa perché non si sa mai. Giunti alla frontiera mio padre chiese a mia madre, che sedeva alla sua destra, di passargli passaporti e denaro contante. I soldati che avevano sostituito gli impiegati (decisamente più timidi in tempi come questi) ci bloccarono, schierandosi, mitra spianato, di fronte alla macchina: mia madre tirò fuori il braccio lentamente e sventolò una federa bianca. Dal finestrino vedevo questo candido drappo che si agitava enorme, senza vento, tra palazzacci grigi, sotto un cielo di piombo, pesante e pieno di rabbia o forse paura. Mio padre rallentò delicatamente e ci fermammo. Un soldato giovane si avvicinò e fece cenno di abbassare il finestrino: mia mamma continuava a sventolare terrorizzata ed assente la federa del cuscino. Poi un altro militare le intimò di fermarsi, e lei, trovando un sorriso nei meandri della sua agitatissima mente, si fermò. Mio padre allungò i passaporti al soldato, avendo cura di nascondere bene nel suo, i molti contanti che mia madre gli aveva passato. Quello guardò a lungo le foto sui documenti e diede qualche occhiata dentro al veicolo, poi disse: “Direzione?”, mio padre rispose subito, sicuro e senza esitazione “Z*******, C******”. Il soldato ci riconsegnò i passaporti e potemmo varcare finalmente quella frontiera.
Avremmo percorso qualche centinaio di metri quando una forza terribile, che pareva un fortissimo vento, spinse la nostra autovettura in avanti, sollevandola un poco da terra, e facendoci raggiungere una velocità folle: poi cominciai a non vedere più nulla. Ma non avevo perso i sensi. Nel buio più totale potevo sentire delle tremende esplosioni, una raffica di deflagrazioni assordanti, che ben presto si fusero in un unico potentissimo boato: come quando il troppo tremore conduce all’immobilismo. Ad un tratto mi accorsi che stavo rotolando su me stesso, mentre quell’assordante frastuono non accennava a diminuire. Continuavo a rotolare nel buio denso di polvere e terra. Poi mi fermai e piano piano ripresi a vedere. Mi ritrovai perfettamente seduto sul sedile di dietro, sano e salvo e senza un’ammaccatura. Accanto a me mio fratello dormiva, forse aveva perso i sensi, ma anche lui non aveva un graffio. Mio padre era accasciato sul volante, come addormentato. Mia mamma appoggiata al finestrino mezzo aperto: un sorriso tirato, ma nel complesso si sarebbe potuto dire che si stava godendo un sereno e soddisfacente sonno. Mi alzai in piedi sul sedile e guardai dietro di me: il cielo era nero, ma non coperto dalle nubi, era proprio nero, senza stelle, né luna. La città da dove eravamo fuggiti era illuminata in lontananza da fiamme altissime dalle quali si alzava una nube di fumo bianca: tutto sembrava ardere così dall’inizio, da sempre. Della frontiera potevo vedere le macerie fumanti: nessuna traccia dei giovani soldati. Scesi dalla macchina con la mia pentola in testa, che quasi mi copriva gli occhi. Appena i miei piedi ebbero toccato terra sentii un botto spaventoso, mi gettai al suolo terrorizzato, convinto che una bomba mi avrebbe smaterializzato da lì a poco: invece nulla, nessuna esplosione mortifera. Ma il rombo continuava fragoroso e paralizzante. Poi vidi segni di vita.
In lontananza, dalla città in fiamme, vidi corrermi incontro una muta di quadrupedi: il loro incedere rapidissimo, sempre più minaccioso, le zampe sbattute a terra con una velocità inconcepibile, facevano letteralmente tremare la terra. Mi raggomitolai al suolo, certo che mi sarebbero saltati addosso e mi avrebbero sbranato in pochi secondi; ma me li vidi passare avanti senza che mi degnassero di un ruggito, di un verso qualsiasi. Erano dodici esseri bastardi (non trovo altro termine per definirli), incroci tra lupo e leone, ma molto più grandi, con una foltissima criniera grigia, sopra un manto nero pezzato di bianco. Avevano il muso allungato e gli occhi rossi, dalla bocca mostravano dei canini superiori lunghi fino al mento. La loro coda era lunga il doppio del loro corpo, folta e sinuosa: sembrava godere di propria volontà. Seguii con lo sguardo la corsa di queste creature del buio, fino a che, dal nulla, spuntarono dodici enormi conigli bianchi, con le orecchie lunghe due volte il loro corpo. I conigli giganti balzarono addosso ai lupi-leoni mordendoli al collo: dopo una fragorosa lotta i conigli ebbero la meglio. I corpi dei leon-lupi si dissolsero appena l’ultimo afflato vitale lasciò i loro corpi, e comparvero dodici pozze d’acqua nera. I conigli giganti, come spinti da una forza inarrestabile, scalciando e soffiando fuoco dal loro naso, caddero nelle pozze d’acqua, da cui immediatamente uscì una luce accecante che mi costrinse a chiudere gli occhi. Quando li riaprii vidi che dai dodici stagni balzavano fuori ventiquattro rane nere, due per ogni pozza, con gli occhi verdi come lo smeraldo; queste rane cominciarono a saltare tutte insieme in fila nella direzione opposta alla città in fiamme. Lungo la loro direttrice di corsa, ad ogni balzo, il terreno si crepava: una larga crepa arrivò fino a me. Ad ogni salto delle ventiquattro rane, ventiquattro squilli di tromba provenivano dalla città. Intanto la crepa si estese fino all’orizzonte: un’altra esplosione, ancora più forte delle precedenti, scosse l’aria calda. Dalla crepa cominciò ad uscire acqua; dapprima piano, come un rivolo, poi sempre più velocemente. In qualche punto la crepa cominciava a diventare una voragine, dalla quale zampillava un getto d’acqua altissimo. Ebbi giusto il tempo di allontanarmi un po’, che la voragine si spalancò completamente: davanti a me ora c’era solo un oceano nero in burrasca. Dopo poco dalla città in fiamme provenne uno strano rumore, come un crepitio, come quando si perde la frequenza della radio: il rumore divenne sempre più fragoroso, quasi insopportabile. Improvvisamente l’oceano nero si calmò e ci fu la più grande esplosione che io abbia mai sentito in tutta la mia vita. Chiusi gli occhi e mi tappai le orecchie. Alzai le palpebre, tolsi le mani dalle orecchie: il mare nero era piatto, la città in fiamme sembrava più piccola di quattro volte la sua grandezza originale, la vedevo come attraverso una lente, e il silenzio permeava l’aria. Un silenzio imprevedibile e rilassante.
Non sapevo cosa fare, ma non riuscivo a stare fermo, così mi avvicinai alla distesa di acqua nera. Guardai in basso: sembrava petrolio, ma era indubbiamente acqua. Forse era anche pulita. Mi chinai per controllarne la temperatura: era fredda, ma non freddissima. Poi mi voltai per vedere cos’era successo ai miei genitori, a mio fratello e alla macchina. Tutto sembrava a posto: la macchina non aveva un graffio e i miei dormivano serenamente. Quando mi rivolsi all’acqua nera vidi un’enorme nave in lontananza. A vele spiegate correva verso terra, dove stavo io. Questo veliero di una grandezza smisurata viaggiava senza vento, e in pochi secondi mi fu davanti. Sulla prua gigantesca biancheggiava una statua di marmo raffigurante un leon-lupo alato, la cui coda fungeva da canapo per un’enorme ancora. Era tutto silenzioso. Ad un tratto la terra tremò. Prima piano, lentamente, un flebile dondolio accompagnava lo scorrere delle mie paure. Il pavimento della nostra casa, ricordo, tremava pressappoco così mentre transitava un tram nella nostra via. Il tremito si tramutò ben presto in vere e proprie scosse di terremoto: barcollai finché caddi. Dal suolo si susseguirono delle esplosioni; si formarono dei crateri dai quali uscivano violentissimi spruzzi di acqua nera. Intanto la terra tremava sempre di più, non riuscivo nemmeno a reggermi in equilibrio seduto. Dalla sommità delle gittate di acqua, prendevano il volo degli uccelli neri e bianchi col becco d’oro. Le loro ali erano lunghe il quadruplo del loro corpo. Contai dodici uccelli per ogni cratere, contai i crateri: erano ventiquattro. Il volo degli animali durò ben poco, perché, dopo qualche metro di ascensione, ricaddero a terra sotto forma di goccioloni d’acqua nera: fui lavato anche io.
Il terremoto cessò. L’enorme nave era ancora lì, muta e sola.
Finalmente accadde una cosa. Un portellone sul lato destro si spalancò, sbattendo pesantemente al suolo senza rumore. Da questo gigantesco antro uscì un uomo. Smilzo, molto pallido in viso, ma non sciupato, vestito in giacca, cravatta e pantaloni neri. Il suo volto era sereno e mostrava un sorriso rassicurante. Avvicinatosi a me, che stavo ancora a terra raggomitolato su me stesso, mi disse venticinque parole, che dimenticai immediatamente.
Poi si volse e tornò sulla nave.
Da quel giorno ogni venticinque giorni, da venticinque anni, mi sveglio e scrivo su un diario, a cui ogni anno aggiungo venticinque fogli, questa frase: “Mundus transit et concupiscentia eius”.
Il mio nome è Jovanni T******, e sono uno scrittore.

lunedì 13 ottobre 2008

Sull'organizzazione dei sogni

di Carlo Ferri

E poi, mi sono svegliato questa mattina e ti ho chiamato. E solo la mia voce risuonava nella casa bianca di solitudine. E poi, sono andato in cucina e mentre preparavo il caffé guardavo come ebro la tazza vuota, immobile sul tavolo. E mi sono chiesto se quella sensazione d'estraniazione non ce l'avessi perché stavo ancora sognando. Sognando d'essere me stesso senza di te, con te affianco sotto le lenzuola. E mi rendo conto che la tua mancanza mi è insopportabile quanto la tua presenza lo era allora. E poi, il caffé appena pronto, che sto bevendo, mi brucia le labbra e mi strilla addosso: sei sveglio cretino. E la partenza, la tua distanza si misura negli scaffali vuoti della libreria, buchi lasciati a ricordarmi: tu idiota l'hai cacciata dalla tua vita. E la casa tutta ha perso la propria ragione, una scatola cinese che ne nasconde al suo interno un'altra ed un'altra ancora. E mi perdo in questo labirinto di sentimenti contrapposti. Vorrei addormentarmi con te e svegliarmi senza di te. E viceversa. Ma ora la casa è vuota. Vuota della tua risata, che tutta la faceva risuonare. Vuota delle composizioni di fiori secchi sul tavolo. Vuota delle tue cose, che si mischiavano alle mie. Vuota dei profumi che seguivo camminando scalzo sul parquet. E dietro di te hai lasciato solo traccia di qualche giornale letto, caratteri che s'inseguono l'uno sull'altro, che a me poi sono sempre sfuggiti, scivolati dalle pieghe della memoria. Eppure, nonostante il sogno, tu hai lasciato la tua impronta dentro di me. Tu e la tua razza e la tua odiosa cultura siete venute fin qui, fin dentro questa casa, nei luoghi più intimi del mio essere a insozzare la mia vita. A renderla unica. A dirmi che siamo solo, che siamo soli, nel confronto con l'altro. E poi ti sei congedata lasciando dietro di te quel maledetto libro. E c'hai scritto sopra nei caratteri dolci della tua bella calligrafia : uomo o farfalla?

domenica 5 ottobre 2008

Variazione sulla corda di Ludwig

di Norberto Giffuri

Stillò la prima lacrima arrivato giusto all'ultima scena di Manhattan, Woody Allen, 1979. La domenica pomeriggio invadeva il mondo, sonnolenta e densa, come una melassa esistenziale colata dalla monotonia di un cielo tutt'altro che effetto favonico, tutt'altro che blu intenso. Sembrava piuttosto che una coperta di lino fosse stata tirata tra i quattro punti cardinali. Nel suo appartamento, sotto la coltre appena descritta e sopra la coltrice, Sebastian affondò il capo nel cuscino mentre il televisore sputava le note di Gershwin a volume smodato. Seguitò a singhiozzare, con ritmo incerto, poi si girò di scatto, allargò le braccia e si ritrovò nella posizione di un Cristo crocifisso. E così rimase, in balia dei suoi fantasmi.

La sua sofferenza tutta intellettuale non era certo più intensa e lacerante d'altre: apparteneva soltanto ad un piano di consapevolezza differente. Traeva origine da oscuri riflussi del pensiero meno semplicisti di quelli, per fare un esempio senza volontà di denigrare, di una soubrette della domenica pomeriggio o di un incolto magazziniere palestrato. Ma a lui piaceva sentirsi il più infelice di tutti, considerarsi l'estrema avanguardia di un reggimento di intellettuali spediti a morire sulla Linea Gotica del dolore.

Dovete sapere, cari lettori, che il malessere di Sebastian non aveva origini tanto bizzarre: non era un segreto rimorso a consumarlo, né un generale sconforto per le cose della vita...si trattava invece dei consueti patemi d'amore o meglio della mancanza di amore: condizione, ahimè, nella quale languiva da tempo immemore.

Era successo, circa una settimana prima, che una sera si trovasse disgraziatamente buttato in una di quelle feste di un partito sinistrorso, tutte sentimenti briosi verso la classe operaia, tutte slogan e buona volontà, almeno a parole. Non voglio dire ora che Sebastian non nutrisse una simpatia per il comunismo. Ne era affascinato come si è affascinati da un quadro di Pollock: non si capisce cosa voglia significare ma sembra che funzioni grazie ad una logica forte sottostante.

C'era andato trascinato dall'entusiasmo di Giulio, suo eterno compagno di serate di questo tipo...una figura che con cadenza bimestrale si presentava nella sua vita sponsorizzando feste della birra e quant'altro. Giulio aveva l'anima del PR, chiamava, aggregava, faceva e disfaceva...era un collante sociale che si scatenava quando la settimana sembrava sfaldarsi agonizzante. Sebastian a volte partecipava alla sua smania di mondanità, altre lo seguiva di malavoglia, altre ancora lo mandava semplicemente affanculo.
Quella sera faceva parte del secondo tipo di uscite: quelle apatiche.

O almeno lo era finché non la notò. Giulio le stava appioppando uno sgraziato doppio bacio sul viso. Lei sorrideva, candida, esile. Appariva fragilissima, circondata com'era da omaccioni barbuti armati di salamella. Sebastian scattò dalla seduta di pietra del muretto sul quale si era andato a posare. Raggiunse Giulio con passo studiatamente mascolino. Se un tale linguaggio del corpo funzionasse da richiamo per il sesso debole, non ci è dato saperlo. Fatto sta che conobbe Lidia, così si chiamava la fanciulla tanto delicata quanto dispersa nel volgo.

Lei aveva occhi grigi, labbra dolcemente incurvate e non lesinava i sorrisi. Inoltre amava Woody Allen. Dopo quindici minuti di interazione vocale Sebastian le propose il matrimonio. Lei cortesemente rifiutò, ma senza convinzione. Si lasciarono con la promessa di vedersi il venerdì seguente, in altra situazione, altro luogo.

Cominciò così una penosa settimana di attesa e speranza. Sebastian passò le notti a combinare in modo rigorosamento sparso i tratti di Lidia che aveva colto nella breve loro frequentazione. In queste circostanze era solito praticare un diabolico gioco di incastri tra reminiscenze letterarie, ricordi e frammenti pescati nella dimensione del sogno.
La sua vocazione al romanticismo più bieco lo portò presto nel maelström dell'immaginifico dell'amore: e si ritrovò a stringere la sua Lidia reinventata sotto un tiglio secolare oppure a baciarle la nuca davanti all'oceano in burrasca in qualche angolo di Normandia, piuttosto che a salvarla dalle inquietudini metropolitane di un sabato sera stanco e smorto...si espletò così la lunga e deformante trafila dell'idealizzazione.

Arrivò il venerdì seguente.
Spavaldo e in preda ad uno slancio vitalistico di proporzioni titaniche si presentò sotto casa di Lidia con un ritardo studiato. Fu elegantissimo e garbato, le aprì la portiera dell'auto, la subissò di complimenti e nei primi minuti riuscì ad infilare nel discorso quelle due o tre frasi brillanti che aveva preparato per l'occasione.
Si buttarono in un cinema d'essai, c'era una retrospettiva su Resnais. Sebastian giocò con la rima, lei ridacchiò sgraziata. Lui s'accigliò perché quel modo di sorridere non le si addiceva. Ma dissipò subito la sua amarezza quando nei primi minuti di Hiroshima mon Amour lei poggiò la guancia sulla sua spalla e si strinse verso il suo bracciolo.

Non la baciò. Ritenne che sarebbe stato un gesto affrettato. Tutto giocava a suo favore: l'aveva conquistata, la strada era definitivamente in discesa, una sinuosa strada in discesa verso una valle inondata dal sole. Si abbandonò nell'infinita consolazione dell'innamoramento. Accostò la mano a quella di Lidia, lei non si ritrasse.

All'uscita del cinema Lidia si staccò improvvisamente da lui. Attraversò la strada e fermò un tipo barbuto, dal corpo che ricordava una pera. Aveva capelli lunghi e sporchi e un vocione poco rassicurante: Sebastian ne ebbe una sgradevole impressione. Fu presentato, scambiò due battute senza interesse. Lidia invece sembrava felicissima di vederlo. Rise di gusto e più di una volta lo toccò sulla spalla e sui fianchi.
Quando poi si allontanarono lei gli confidò che il vichingo leninista -così lo aveva prontamente etichettato Sebastian - era il suo ex.

Ma non fu questa notizia a farlo vacillare. Non fu l'improvvisa consapevolezza che l'oggetto dei suoi desideri si era concessa a cotanto orrore (quell'uomo pingue, abbigliato con una smunta t-shirt e dei jeans sformati, così diverso da lui, lontano dalla sua eleganza di gesti, dal suo perfezionismo, dal suo sense of humour sofisticato), no, non fu questo.

Fu quella sigaretta, fumata da Lidia davanti al portone di casa e poi spenta a terra, schiacciata con una doppia pressione del tacco, a due metri da un cestino dei rifiuti. Quella assoluta noncuranza nel soffiargli il fumo in faccia. Quella sfrontatezza da adolescente arrabbiata che sfoderò in quei cinque minuti scarsi, ad atterrirlo completamente. Si ritrovò a fissare delle pupille improvvisamente divenute estranee. Implose e crollò, in un istante di solenne devastazione, tutta la sovrastruttura di senso che in quella settimana aveva costruito attorno alla figura di lei.

Si accomiatò simulando una serenità che più non era. Era la mezzanotte di una nuova domenica.
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Quella che avete appena finito di leggere è una libera riscrittura di un racconto di Asicheraglia.