Il giudice sul mulo Periodico perenne di linguaggi letterari.

giovedì 24 settembre 2009

Dal monolocale (secondo movimento)

di Norberto Giffuri

Sopra la città spoglia
Delle voci, dei gesti umani
Agosto si para innanzi
Immenso
Vuoto.

In questo spazio nudo
Non trova il mio pensiero
Un viso amico
Una sonata concertata
Una pellicola
Una vaghezza
Dove posarsi e sublimare.

Dunque fa la spola
Tra la coscienza e il cuscino
Sopra la citta muta
Si veste d’abitudine.

sabato 19 settembre 2009

Un amore en passant - seconda parte

di Ezechiele Lupo


Proprio in quel momento iniziò a nevicare di nuovo. I fiocchi erano grossi e asciutti: avrebbe attecchito in fretta. Si voltò a guardar fuori. Un ragazzo alto in giacca sportiva entrò nel caffè, vedendola seduta in fondo si avvicinò e si sedette di fronte. Lei sorrise ed entrambi si sporsero per baciarsi. Lui si tolse la giacca e le chiese:
“Cosa hai preso?”
“Un cappuccino.”
“Con la cannella…” chiese lui senza chiedere.
“Si.” Annuì lei.
Lui replicò:
“Ottimo…”
“Lo so, lo so…” Disse a bassa voce lei che continuò:
“Che prendi?”
Arrivò il cameriere con il cappuccino ed il conto. Poi si voltò verso di lui e chiese:
“Cosa le porto?”
“Un caffè macchiato, per piacere.”
Lei sorseggiò piano il cappuccino e lo ripose sul piattino bianco. Lui la guardò e le disse:
“Un’ora da cappuccino, il tramonto.”
Lei si passò la lingua sul labbro e chiese: “Ora?”
Lui annuì con la testa e aggiunse: “Hai visto che freddo! Incredibile. Poi andare in giro in macchina è un suicidio.”
Lei annuì e disse: “Sì è vero fa molto freddo. C’è molto traffico in centro, ho visto.”
Bevve un altro sorso e posò la tazza sul tavolo. Lui guardò fuori dalla vetrina, poi guardò lei:
“Tutto bene oggi? Come è andata?”
“Sì tutto bene. A te come è andata?” rispose lei.
Arrivò il cameriere con il caffè. “Grazie.” Disse lui. Bevve il caffè mentre lei attaccava il cappuccino. Poi lui rispose: “Normale, niente di particolare.”
Lei guardò fuori dalla finestra. Finì il cappuccino e disse:
“C’è Renoir, ti piace vero? Vuoi venire a vederlo, un giorno?”
Lui ci pensò un attimo, poi aggiunse: “Ma… non lo so devo vedere se ce la faccio.”
E abbassò la testa. L’uomo con il giornale si alzò dal tavolo, andò a pagare e uscì. Lei lo vide dalla vetrina passare col giornale sulla testa per ripararsi dalla neve. Il ragazzo la guardò, si diede coraggio e chiese a bassa voce: “Questo clima mi ricorda di quando siamo andati a Stoccolma.”
Lei abbassò la testa.
Poi rispose sospirando quasi seccata:
“Si lo ricordo. Sei sempre peggio secondo me…”
Lui abbassò gli occhi. Poi rispose sospirando:
“Era il momento migliore per te, e il peggiore per me. Andavamo come il telefono duplex. Ma tu non l’hai mai capito.“
Lei fece cenno di no con la testa.
“Il duplex? Nel senso che facevamo un po’ a testa ad offenderci. Perché di comunicare non se ne parlava proprio. Ora è diverso, ce ne rendiamo conto tutti e due. Quando tu mi guardi chissà che pensi di me… chissà io perché non ti perdono più.” Disse lei. Poi fece una pausa ma subito aggiunse come per un bisogno impellente pur tuttavia meccanico, una necessità meccanica di spontaneismo:
“Ma magari è ancora presto: pensa che bello sarebbe poter uscire insieme altre volte, rassegnarci a dover stare insieme per la vita. Sì, perché no?” Lei sorrise.
Lui si appoggiò allo schienale della panca, la guardò e rispose:
“Perché dipende da te. E tu sei insanabile. E io un bugiardo.”
Lei fece silenzio: ormai era quasi ora di cena. Lui prese il giubbotto e se lo mise. Lei lo guardava senza aprire bocca. Poi quando fu pronto: “Va bene allora io vado.”
Lei fece cenno sì. Ma lui si risedette e disse: “Ma, dico io: un po’ di coraggio, un po’ di ambizione ci vorrebbe. Il nostro problema è che siamo due persone vanagloriose, ma senza ambizione. Nulla ci vieta di andare avanti ad ignorarci. Ma tant’è: siamo qua e infatti io me ne vado, e tu non dici nulla.”
Lei alzò gli occhi per guardarlo: “Non vedi come tutto è uno sforzo per capire e comprendere. Non è forse meglio lasciarsi tentare da cose più semplici: non è detto che la complicità si ottenga sempre ad alti livelli. E’ più spontaneo il mio rapporto con un libro, che, vuoi o non vuoi, non ti parla, non ti dice nulla, salvo stupidate. Il raggiungimento di un equilibrio al massimo grado dell’amore non ci è riuscito: proviamoci al minimo. Un amore en passant ricco di vita e povero di qualsiasi cosa ci accomuni.” Concluse lei.
“Ti ho vista spergiurare che mi avresti seguita.” Lui la fissò come se già stesse pensando ad altro, ma non era per nulla vero: lui era concentrato su quello che diceva.
Lei abbassò la testa.
“Non lo so davvero: forse è meglio se vai.” Disse lei guardandosi la mano destra.
Lui si alzò e disse:
“Dicevo… stai attenta a te.”
Così uscì dal locale. Si alzò il cappuccio e passò di fianco alla vetrina.
Giunse il cameriere e le chiese a bassa voce: “Desidera qualcos’altro, signorina?” Lei lo guardò: “No grazie ora vado.” Mentre prendeva le sue cose e si vestiva il cameriere tornò da lei e le disse: “Mi scusi, ma il suo amico non ha pagato il caffè, forse si è dimenticato…” Il cameriere si interruppe imbarazzato. Lei sorrise sotto la sciarpa e lo rassicurò:
“Ok non c’è problema lo pago io.”
La accompagnò alla cassa e lei pagò il caffè. Smise di nevicare proprio nel momento in cui stava uscendo. Voltò a destra, i lampioni erano colmi di neve e gli alberi parevano zucchero filato. Mentre tornava a casa pensava che fosse comunque semplice innamorarsi di lei.
Fine

Foto: "Stockholm Pink Subway" Stockholm 2006 © Ezechiele Lupo

venerdì 18 settembre 2009

Un amore en passant - prima parte

di Ezechiele Lupo


Usciva solitaria. Dalla porta dell’aula 110 un vociare di gente e gentaglia. Voleva andarsene: e non è che non lo fece. Voltò a destra proprio mentre nel corridoio giungeva un docente. Un ragazzo che conosceva stava bevendo ad una fontanella. Lo salutò con un gesto della mano ed un sorriso, quello la vide, alzò gli occhi: lei era già oltre. C’era una piccola bacheca a metà del corridoio dell’ala Nord dell’edificio: era di sughero con una cornice di vetro. Senza fermarsi diede un’occhiata ai foglietti appesi: uno azzurro, un manifesto che ricordava ai maschi il rinvio agli obblighi di leva, uno rosa della solita che si offriva di dare ripetizioni di matematica. Nient’altro di importante. Sulle scale c’erano due ragazze, fumavano una sigaretta e parlavano a bassa voce, sedute sull’ultimo gradino. Le salutò con un sorriso facendosi largo tra le loro gambe accavallate. Una delle due soffiò fumo dalle labbra socchiuse. Lei si voltò tenendosi al corrimano e sorrise di nuovo. Tornarono a parlare tra di loro e a gettare cumuli di cenere in un bicchiere di carta. Al piano terra un capannello di studenti scrutava un libro aperto ai piedi di una grande statua di marmo. Lei passò oltre. Vicino all’aula 90 c’era la macchinetta del caffè. Vi si avvicinò fermandosi davanti: si fissarono, lei e i tasti per la selezione della bevanda, poi andò via senza prendere niente. In guardiola il custode osservava il monitor che proponeva le immagini del lato Sud del chiostro. Sentì dei passi avvicinarsi e si volse verso il vetro. Lei passò e salutò con la mano. Il portiere ricambiò dicendo: “Salve signorina.” Stava sempre a fissare quel monitor anche durante la contestazione di qualche mese prima, quella in cui uno studente di un certo collettivo aveva spaccato l’asse di un’impalcatura. Il custode aveva solo sussurrato allo schermo: “Falliti…”
Uscì dalla porticina aperta sul lato del portone.
Era fuori con l’aria immobile e gelida. Dopo pochi passi le guance le diventarono rosee e fredde.
Cominciò a camminare lungo la via costeggiando l’edificio. Era bella. Si stringeva nella sua giacca di velluto bordeaux con i polsini di pelliccia, aveva una sciarpona marrone scuro che la imbacuccava ben bene fin quasi alla piccola bocca rosata; calzava degli stivaletti con poco tacco, indossava collant nere molto pesanti e una gonnellina che le lasciava scoperte la metà delle magre cosce; i capelli erano biondi e raccolti un cappello rossastro, in perfetto coordinato con dei guanti sottili di velluto. Sulle spalle uno zaino di pelle marrone con pochi libri e un quaderno.
I lineamenti del viso delicati e resi ancor più fragili dal pallore nel quale si distinguevano le guance rese rosee dal freddo, un nasino e degli occhi color nocciola. Il marciapiede era coperto di neve e le orme dei molti passanti affondavano nella coltre per molti centimetri. In fondo alla strada una coda di auto col tetto innevato era immobile al semaforo. C’era molto traffico a quell’ora. Un’anziana coppia stava ferma sul ciglio della strada: lui con un cappello nero e un cappotto lungo fino ai piedi, lei, sottobraccio, era immobile nella sua pelliccia di visone.
Ora che le nubi si erano diradate la luna piena si rifletteva in una vetrina di un negozio di scarpe. Lei si fermò a guardare, mentre all’interno una ragazza faceva provare dei mocassini ad un signore vestito bene: la moglie in piedi lo guardava.
Lei sentiva i clacson delle auto e si voltava senza fermarsi mai. Ad un semaforo un uomo le chiese l’ora; lei alzò il polsino della manica e gli mostrò il quadrante; lui la ringrazio e lei ricambiò con un sorriso. Attraversata la strada entrò in un caffè d’angolo con tre vetrine e molti tavoli con delle panche. Si diresse ad un tavolo vuoto e si sedette nel posto addossato alla vetrina. Negli altri tavoli: tre ragazzi bevevano caffè e parlavano, uno di loro fumava una sigaretta, un anziano signore leggeva un giornale e fumava una pipa, una coppia matura beveva un te e nel tavolo di fianco al suo, un ragazzo leggeva un libro di filosofia con tanto di tazzina da caffè vuota. Lei guardava fuori dalla vetrina poggiando il mento sul palmo della mano sinistra: i tetti delle case erano innevati, come i marciapiedi, le ringhiere dei balconi e i tetti delle macchine. Tutta quella neve con il gelo della notte sarebbe ghiacciata. Poi sentì giungere il cameriere e si voltò.
“Cosa le porto?”, diede un' occhiata alla lista che aveva sotto il gomito e disse:
“Un cappuccino per favore.”
“Con cacao o cannella?”
“Cannella.”

(continua...)
Foto: "Le Loir Dans la Théière". Paris 2008 © Ezechiele Lupo

mercoledì 9 settembre 2009

Capitalismo decaffeinato

di Norberto Giffuri

Ieri sera, mentre affrontavo una birra e un kebap in un centro commerciale della bassa milanese osservando il materiale umano eretto in fronte al bancone di un bar, mi è tornata alla mente una vecchia pubblicità della Hag, quella in cui uno scrittore si alza nella notte colto da fulminea ispirazione e prima di accingersi alla tastiera si prepara un fumante caffè dal sapore letterario. Ora, non chiedetemi perché l'associazione centro commerciale-kebap-uomini-bar mi abbia fatto pensare alla Hag. La questione è un'altra.

Quella pubblicità era la perfetta rappresentazione del mio futuro idealizzato. Quarantanni, brizzolato, piacente, scrittore, single per scelta pervicamente conteso da giovani donne interessate a fruire in un sol colpo cultura e lussuria, teoria e pratica, scritto e orale: insomma così mi son sempre sognato. Ritrovarsi poi, prima ancora dei trenta, su una traiettoria divergente da quella tanto agognata non toglie valore agli splendidi momenti vissuti decantando col pensiero quella pubblicità. Per una volta: grazie capitalismo, grazie occidente, grazie Hag.


Ora mi faccio un caffé. Ovviamente non un Hag. Odio il decaffeinato.

Foto: Tazzina da caffè di Ezechiele Lupo. Caffè bevuto dalla madre di Ezechiele Lupo. Foto scattata da Ezechiele Lupo. Ma tre quarti di limone incombono...

giovedì 3 settembre 2009

Keith Gessen - Tutti gli intellettuali giovani e tristi

di Ezechiele Lupo



Tutti gli intellettuali giovani e tristi, (titolo originale: All the sad young literary men) è il nuovo, nonché primo, romanzo di Keith Gessen, intellettuale, non più tanto giovane, di origini russe-ebraiche, notista politico e letterario per varie riviste liberal americane, una su tutte il leggendario “New Yorker”. Gessen è anche cofondatore di “n+1”, insieme a Mark Greif, testa pensante passato con disinvoltura da Harvard a Yale.
E sta tutto qua il senso di un libro come questo: un intellettuale di successo, gratificato dal proprio lavoro ed in bilico sul filo di lana di un paese che cambia ogni giorno, l’America di Obama, ripensa ai dieci anni terribili che hanno flagellato la più grande democrazia del mondo, e che stavano per tagliare una generazione di uomini d’oro della cultura e del ragionamento.
Questo è il senso: una rivincita dell’intellettuale, del suo ruolo all’interno della società, della sua voce, che finalmente (il libro ha suscitato un fervente dibattito oltre oceano) è tornata a dettare la legge del buon senso. Ma è anche l’ammissione di una sconfitta. Gessen ci dice che in questi dieci anni, dal declino Clinton, passando per la tragedia Bush, fino alla rinascita targata Obama, i giovani intellettuali erano tristi. Tristi e soli.
L’unica cosa che hanno saputo fare, questi uomini da pieni voti ad Harvard, da dottorati di ricerca illuminanti, è stata ripiegarsi su se stessi, grattare il fondo delle proprie emozioni. Hanno smesso di guardare alla società, di gridare il dissenso, e hanno cominciato a deprimersi, sopraffatti dalle loro incertezze sentimentali, dai loro fallimenti amorosi, chiudendosi in biblioteca a fingere di lavorare a tesi complicate ed infinite, rimandando sempre il confronto con la vita al di fuori, con quella società che ha voltato loro le spalle, dandosi in pasto alla smania di sangue ed ignoranza dei Repubblicani.
Bel coraggio quindi hanno mostrato i vari Sam, Mark e Keith, (quest’ultimo omonimo dell'autore, ma non più autobiografico di altri), personaggi delle tre storie raccontate dal narratore. Tutti e tre scelgono, consapevolmente od inconsapevolmente, di fuggire. Sam cerca di scrivere “il grande romanzo sionista”, ma non ci riesce perché è troppo poco sionista, e quando va in Israele, non per conoscere la situazione dei Territori, non per guardare “fuori” ma per cercare “dentro” di sé, si accorge di non esserlo per niente. E Mark? Otto anni a Syracuse, cittadina universitaria alcolica e profonda dell’East Coast, chiuso in dipartimento di Storia a scrivere una tesi di dottorando sulla Rivoluzione Russa, ma che preferisce indulgere nel porno sul web e in tre o quattro ragazze alle quali non è capace di donarsi mai completamente. Keith, il cui unico slancio contro la Bush-ocrazia è stato spaccare la tv dopo il risultato della Florida nel 2000, che consegnò il paese nelle mani del meno intellettuale degli americani.
Tutti e tre a caccia di un disperato equilibrio, in fuga da una società sulla quale non incidono, che li rende tristi. Battono in ritirata e falliscono miseramente: gli intellettuali non sanno amare perché non è quello il loro compito. Le storie d’amore dei tre personaggi, talmente simili tra loro da renderne superflua la distinzione, tanto che Gessen sembra non curarsi davvero della coesione narrativa, ma preferisce la frammentarietà ricomposta di stralci di racconto; le storie d’amore, dicevamo, sono fallimenti frustranti, grumi emozionali attraverso cui la mente dell’intellettuale si perde, e la razionalità, la matematica tipica del ragionamento politico e letterario deflagra.
I personaggi di Gessen non sanno amare perché non sanno vincere, e non sanno vincere perché pretendono di applicare teorie politiche e letterarie, buone per la società che li ha rifiutati e nella quale loro non confidano, ai sentimenti. I giovani e tristi intellettuali scelgono di perdere su tutti i fronti: pubblico e privato. Ma per fortuna c’è un “ma”. There’s always a “but”, diceva qualcuno.
Sam, Mark e Keith sono giovani: hanno tempo. E il tempo ha portato Barack Obama e una sorta di palingenesi civile e letteraria. Ora la scrittura ha un senso, si può tornare a raccontare, ad immaginare modelli di società, e anche nella fiction sarà possibile costruire i mondi possibili, i sentieri incrociati dei giovani e tristi intellettuali.
Il libro si chiude con l’immagine di Keith che corre su per le scale di un appartamento di New York: corre incontro al futuro.


Keith Gessen, Tutti gli intellettuali giovani e tristi, Einaudi, Torino, 2009, p. 260, euro 20,00.