Il giudice sul mulo Periodico perenne di linguaggi letterari.

venerdì 30 maggio 2008

Lirica per uno di Alessandria

di Nepomuceno Sadda

A te che vuoi aggiustare il mondo
Con le mani dietro la schiena
Dico: “Siediti con noi, aspetta”
Pare che i barbari non abbiano fretta.

A te che ogni santo giorno
Profetizzi una tragedia
Qui c'è posto, vieni
Vaticina nell'inedia.

I Sibariti ci pagherebbero
Per insegnar loro
Una sofisticheria più perfetta
Che fai esiti?
Coraggio, scegli di non fare
Noi si chiacchiera, si scherza
Prendi una sedia, siedi:

Se trucidati dovremmo essere
Dilaniati in pezzettini
Che le sciabole ci raggiungano
Tra un Vodka Sour e un Martini.

sabato 24 maggio 2008

Ai falliti

di Liège Bastogne

“Tutti mi dicevano vedrai
È successo a tutti però poi
Ti alzi un giorno e non ci pensi più”
Stronzate buone per bambini delle medie:
La realtà è che invece soffri
Continui a soffrire
E quando pensi di aver dato tutto
Di non avere più i denti per mangiare
Di non avere più il fegato per bere
Tutto ricomincia da capo
Come una spirale di tortura infinita.
Il cuore dei poeti
Non muore mai dissanguato.

venerdì 16 maggio 2008

Un inverno di rigore - ultima parte

di Ezechiele Lupo
Quella gelida mattina E**** era chinato con le labbra appoggiate alle mani giunte, inginocchiato tra Erbert Brown e Gilbert Simmon. Aveva freddo cercava di restare concentrato sulle orazioni e sulle parole del Padre Confessore, ma l’idea del giorno della posta lo faceva fremere e distrarre di continuo. Le solenni parole echeggiavano fino agli alti soffitti della cattedrale; una buia e alta cattedrale gotica, collegata al collegio grazie a due strette scale ai lati dei cori: una dava alle aule per le classi inferiori e superiori; mentre l’altra era solo per quelle medie. Durante le interminabili orazioni dell’alba E****, di tanto in tanto, sollevava la testa per scorgere il volto di R***** tra i banchi deputati alla preghiera delle classi intermedie. Ad un tratto gli parve di vederlo in sesta fila: sì era lui, allora non era in celletta, pensò. Ma no non è lui. Con le uniformi siamo tutti uguali, maledizione. Mentre volgeva il suo volto al rammarico, E**** incrociò lo sguardo di Padre Edison Brooks: subito tornò a guardare a terra, tra i brividi di freddo. Non capiva perché quelli delle classi inferiori non potessero avere i pantaloni lunghi come gli altri ragazzi, o almeno che fosse concessa loro una lunga tonaca come quella dei Padri Insegnati. L’unica preghiera che E**** recitò veramente concentrato, fu quella mentre lasciava con gli altri bambini in fila indiana, la chiesa: Padre Onnipotente perdonami per non aver partecipato seriamente, con il cuore e con l’anima, alle orazioni dell’alba, ma sono distratto dall’arrivo della lettera della mia mamma e del mio papà, per cui sono tanto felice. Ma sono anche tanto triste perché non vedo mio fratello R***** da tre giorni, e ho paura che non lo facciano mangiare e lo frustino. Perdonami e proteggilo, tu che puoi. Amen.
Improvvisamente si sentì strattonato per un braccio, si voltò e vide la faccia scura e irosa di Padre Edison Brooks: “Pantapolita: le orazioni dell’alba servono per rendere grazie a Dio per la nuova giornata che ci ha regalato. La tua distrazione è un’offesa per il tuo Signore: se ti senti superiore e non vuoi ringraziarlo, lui ti punirà, signorino. Devi fare il bravo perché se no vai all’Inferno, dove verrà spedito tuo fratello, se continua così. Siete due piccoli superbi. La superbia è il peggiore dei sette peccati capitali. Hai capito? Li sai tutti? Dimmeli, piccolo impertinente.”
E**** terrorizzato si mise a balbettare: “Go… gola, Acci… dia, A… Aaaa… varizia, Luu… ussuria…” poi venne interrotto bruscamente.
“Non li sai… molto male! Stai attento Pantapolita: Dio è grande e misericordioso con i virtuosi, terribile con i bambini disubbidienti. E ora va’, raggiungi gli altri per la distribuzione della posta.”
E lo congedò liberandolo da quella morsa infernale. E**** trattenne le lacrime e corse su per le scale. Li sapevo, li sapevo, li sapevo, pensò. Perché Dio non mi avrebbe perdonato? E pure io gli ho chiesto scusa. Dio è sempre pronto a perdonare. E poi perché R***** va all’Inferno? Io non voglio andare all’Inferno e non voglio che nemmeno R***** ci vada all’Inferno! Ricominciò a nevicare.
Ora era triste e aveva freddo e sapeva che per quelle scale buie da solo si sarebbe perso.
Giunse in fondo alla fila. Aveva gli occhi pieni di lacrime che non voleva far sgorgare: una volta R***** gli aveva detto che non doveva piangere, perché non era solo in quel collegio, e anche Dio lo avrebbe protetto sempre. Ma si vede che ora non era più così.
Cercò di pensare, mentre ascoltava la voce monocorde di Padre Xabier Parcson che chiamava i bambini appoggiato sull’enorme pacco di lettere, al Natale che avrebbe trascorso con sua mamma e suo papà. Tutte le voci dei bambini lo scioccavano, stava per mettersi a piangere a dirotto, quando sentì chiamare il suo cognome: Pantapolita. Per un attimo E**** si sentì solo in quell’anfratto del collegio; corse verso il Padre Postino, o almeno così tutti chiamavano Padre Xabier Parcson, per via del fatto che era sempre lui a distribuire la posta. Prese quella busta e si isolò.
Lesse nella sua mente.



12 Dicembre 19**,

cari E**** e R*****,
figli miei. So che gli studi procedono ottimamente. Io e vostro Padre vi pensiamo sempre. Non sentitevi mai soli. Ogni mese abbiamo vostre notizie dal Padre Rettore in persona, il quale ci rassicura sul vostro primato di rendimento riguardo tutte le materie dei corsi previsti dalla scuola. Ma c’è un grande cruccio, un dolore acuto che tormenta me e vostro Padre: R***** perfettissimo, conosciamo bene il tuo comportamento ribelle. Diletto figlio, il tuo modo di disubbidire ai Padri Insegnati, la tua costante idiosincrasia verso la disciplina della scuola, ci fanno vergognare viepiù di essere i tuoi genitori. Ma sappiamo bene la sfida a cui ci inviti: la tua vibrante intelligenza, applicata all’impegno puntuale nel sovvertire tutte le giuste regole di cui il Padre Rettore è custode imperituro, ti condurranno ad una vita di insoddisfazioni. Non possiamo non prendere provvedimenti per ciò che hai fatto, e non punirti severamente. Perciò, io e vostro Padre, abbiamo avvertito il Padre Rettore che i fratelli Pantapolita non torneranno a casa per il Santo Natale, ma rimarranno in collegio. Mi spiace E**** finissimo, ma questo sarà di insegnamento anche per te, affinchè tu possa evitare in futuro di incappare in sanzioni disciplinari, come è accaduto fino ad ora a tuo fratello. E’ altresì inutile che tu, R***** dolcissimo, provi ad inviare a me e tuo Padre lettere per implorarci di concedervi il Natale con noi: abbiamo chiesto ed ottenuto dal Padre Rettore, il divieto di far passare alcuna lettera dei fratelli Pantapolita. Vi vogliamo molto bene. Un bacio da parte mia. Vostro Padre vi consiglia la lettura del Fedone, ovviamente in greco, durante queste vacanze lontane da Atene.
Buon Natale E****.
Buon Natale R*****.

Vostra Madre

Fuori dal collegio la vallata era gelida. Era l’estate delle morte stagioni. Era la neve che spirava nel vento. La gelida intensità della vallata. Arano. Secchi i campi, muoiono le erbe sotto la pesante mano. La coltre della nave ricopriva tutto.
E chi sa per quanto il contadino starà, come lo studente, a guardare la valle innevata.
(Fine)

mercoledì 14 maggio 2008

Un inverno di rigore - prima parte

di Ezechiele Lupo

La brughiera era ghiacciata. Il cielo grigio, solcato dalle secche trame delle elevate vette dei busti irretiti, e le basse case dei contadini erano un’arida visione dall’alto della torre. C’era uno stretto letto per bambini addossato ad un muro scrostato. Una piccola stanza. Una ciotola ed una brocca di ceramica. Un armadio di legno di cedro con due cassettoni: di fianco una scrivania ed una sedia con un alto schienale, dove sono stati appoggiati dei calzoncini a mezza gamba grigi, una camicetta bianca, una giacchetta grigia con uno stemma sulla parte sinistra. Sopra al letto una mensola con dei libri scolastici di grammatica, aritmetica, geometria, dizione, pronuncia, metrica, musica, scienze naturali e un manualetto sgualcito di latino. Sulla scrivania un quaderno a quadretti dove sono state appuntate alcune somme, fogli con dei versi in latino divisi secondo la corretta scansione metrica, una scatola di latta contenente diversi pennini: con punta tronca e punta regolare e un pennino per tracciare il pentagramma; e poi due boccette di inchiostro, nero e blu. Sotto le coperte pesanti di grezza e pungente lana, E**** dormiva profondamente, mentre fuori tutto gelava, tutto moriva. Tre pesanti colpi alla porta e il suono di un orribile campanaccio, che percorreva i corridoi e le scale di una delle torri-dormitorio, fecero aprire gli occhi cisposi di E****. Era l’usuale sveglia delle 6. Lo sbatacchio si fece più debole e così E**** capì che Padre McGrey stava salendo le scale per andare a svegliare gli altri. Si alzò e si avvicinò al panchetto sotto il lucernario e, salendoci, in punta di piedi guardò fuori. I campi innevati, i tetti delle case dei contadini tutti bianchi, il fumo che usciva dai comignoli, la natura morta sotto quel manto diafano, la nebbia e un senso di solitudine bambina ed estrema che avrebbe voluto esprimere con un pianto. Ma proprio in quel momento la grande porta si spalancò: sulla soglia c’era William Owen con la sua piccola camicia da notte, gli occhialini rotondi e i capelli spettinati neri; sorridente e tutto emozionato gridò:
“Pantapolita ciao! Sbrigati a vestirti e a venire in chiesa! Prima ci sbrighiamo con le orazioni dell’alba e prima il Padre Rettore ci farà andare in segreteria! Dai, non startene lì, se no la torre di Madison sarà l’ultima per colpa tua!” Non è giusto. Perché lui deve essere felice ed io no. Pensava E****.
Poi William Owen aggiunse:
“E****, oggi è giorno di posta, ricordi?” E se ne andò.
E’ vero oggi è il giorno della posta. Oggi riceverò la lettera della mia mamma e del mio papà! Riceverò la lettera della mia mamma e del mio papà con il permesso di tornare a casa per le vacanze di Natale. E**** sorrise e guardò fuori dalla porta: una miriade di bambini correvano a piedi nudi per il corridoio verso i bagni comuni, facendo un gran baccano. Chissà se anche R***** si è dimenticato che oggi è il giorno di posta. Erano tre giorni che non vedeva R***** ed era triste anche per questo. Il giorno precedente nella sala della ricreazione, E**** se ne stava tutto solo a trascrivere dei versi di Orazio in bella copia, quando vide un compagno di classe di R*****, Carlton McGuinness. Allora E**** gli chiese come stava suo fratello e lo pregò di salutarlo da parte sua, ma quella canaglia di McGuinness gli rispose che non poteva salutarglielo perché R***** aveva fatto il cattivo, ed erano due giorni che stava nella celletta di punizione; gli aveva anche detto che non lo facevano mangiare e lo frustavano ogni giorno per fargliela pagare. E**** si era spaventato moltissimo, perché aveva anche sentito dire che nella torre-dormitorio di quelli più grandi, come era suo fratello, i ragazzi venivano trattati malissimo e subivano continue punizioni: tante volte a R***** aveva chiesto conto di queste dicerie, e, sebbene avesse ricevuto sempre rassicurazioni, era rimasto convinto che, invece, certe voci ritraessero la realtà.
Ora avrebbe ricevuto la lettera dei genitori e, poiché loro scrivevano solo a lui e non a R*****, sarebbe potuto andare dal fratello per comunicargli il ritorno a casa per le vacanze di Natale. Raggiunse i compagni sulle scale della torre. In silenzio, ma trepidanti si dirigevano nella grande cattedrale per le orazioni dell’alba.
Padre Nelson Taddler alzò il calice al cielo:
“Rendiamo grazie a Dio… “
Seguì un brusio informe. Poi silenzio. La chiesa conteneva tutto il collegio. I piccoli come E**** si sistemavano nelle prime file, in ginocchio sulle panche di legno scuro e lucidato a specchio. Poi, più indietro, c’erano quelli del corso intermedio: la loro divisa aveva anche la cravatta blu e i pantaloni lunghi. Quelli del corso intermedio erano i più numerosi. Infine, in fondo negli ultimi posti, i corsi superiori, quelli grandi che si dovevano diplomare. Nei due cori ai lati dell’abside prendevano posto i Padri Insegnanti e tra loro, in prima fila, in piedi, il Padre Rettore.
(continua...)

lunedì 5 maggio 2008

Messaggio poetico e letterarietà in “Il mio nome è rosso”

di Ezechiele Lupo

“Il mio nome è rosso” è forse il più celebre ed importante romanzo di Orhan Pamuk, intellettuale turco, vincitore del premio Nobel per la letteratura nel 2006. Al fine di una maggiore comprensione della piccolissima analisi proposta, vengono riportate le informazioni basilari per farsi un’idea, anche vaga sulla trama, i personaggi e la storia. Nella Istanbul del 1591, Nero, un giovane innamorato di Sekure, la bella figlia di un maestro miniaturista, viene incaricato di scoprire il responsabile di una serie di delitti. Le indagini si svolgono tra i membri del laboratorio di miniatura del Sultano. Solo una volta scoperto il colpevole Nero potrà consumare il matrimonio con Sekure. Il libro è diviso in brevi capitoli, in cui i vari personaggi narrano, in prima persona, una parte della vicenda.
L’analisi si concentra sul “messaggio poetico”, inteso come portatore di “letterarietà”.

Prima di tutto centriamo il punto: di cosa parla il romanzo? Di scrittura. La miniatura non è altro che la scrittura. Penso non sia esauriente sostenere soltanto che la tensione dialettica del messaggio si dibatte tra due poli: la rappresentazione, e quindi la referenzialità alla realtà, e la realtà rappresentata secondo un codice (per la miniatura è il codice persiano, per esempio). Credo che il punto sia un altro: il dibattito si svolge all'interno del mondo letterario, della concezione stessa di "testo" letterario, e del ruolo dei singoli attori di questa comunicazione: l'autore, il lettore, il mondo (anche come rappresentazione) e lo stile. E in questo dibattito Pamuk, l'autore reale del romanzo, ci entra giocando con finezza, attraverso il problema dello Stile, connesso strettamente col Punto di Vista. La domanda dell'autore reale è: il linguaggio letterario possiede in sè uno stile, che è dato dal punto di vista dei vari narratori all'interno del testo? Ma anche: il lettore coglie le variazioni dello stile indipendentemente dal fatto che gli si dica che il narratore cambia? In poche parole: Farfalla, Cicogna, Oliva, i tre miniaturisti che tanto anelano ad essere riconoscibili, ad avere uno stile, non sono forse, parte di uno stesso discorso? Il loro possedere uno stile non è sinonimo di personalità autorale, ma semplice scarto minimo rispetto ad una norma codificata. I narratori che si alternano nel libro sono portatori di un punto di vista diverso: questo è chiaro, ed è anche quello che l'autore reale, Pamuk, ci invita a credere. Salvo poi spiazzare il lettore alla fine, quando Sekure racconta il finale, e ci viene svelato che il narratore è unico (il figlio di Sekure, Orhan, che tra l'altro è un personaggio del racconto, quindi intradiegetico), che ha mentito, e ha cambiato il punto di vista semplicemente inventandosi che il disegno di un cane, un colore, il disegno di un albero etc., siano in grado di dare al lettore una visione del mondo: ognuno alla ricerca di uno stile. Nero è quel personaggio un po' pavido e fessacchiotto (talvolta), innamorato pazzo di Sekure? Sekure è davvero così bella e intelligente? Ovviamente non è importante saperlo o no. Pamuk gioca con i punti di vista, con i narratori, con la rappresentazione fallace della realtà, ingannando continuamente il suo lettore ideale, costruendo finti orizzonti d'attesa, per dimostrare che autore, narratore, stile, punto di vista e rappresentazione di una realtà, e quindi referenza, non sono altro che minime variazioni di uno stesso discorso. L'intenzione autorale, che è quella di avere uno stile, appare a Pamuk un'illusione: come la miniatura non doveva avere firma, così nella scrittura l'unica discriminante dev'essere quella del messaggio poetico. Orhan, il figlio di Sekure, narra una storia di intrighi, di amore, di morte, raffigurando un mondo di grande violenza, fatto anche di superstizioni e maldicenze, impossessandosi dei punti di vista dei personaggi. Ma la cosa essenziale da tenere in conto è che a punto di vista differente, non corrisponde narratore differente: questo è importante per capire il grado di finzione del discorso autorale. Il romanzo è corale fino a prova contraria, ovvero fino alle ultime righe dell’ultima pagina, quando il lettore si accorge che il progetto dell’autore reale (costruire un romanzo a più voci), è un finto scopo: poiché il narratore è unico, e, per sua stessa ammissione, ambiguo. Allora il lettore di Pamuk, il suo lettore ideale, dovrà chiedersi: ma che storia ho letto? Di cosa parla il romanzo? La risposta potrebbe essere che il romanzo parla di miniatura, cioè di scrittura. Se i fatti raccontati sono inattendibili, e poco ci importa del contesto storico, l’unica cosa importante da considerare è la scrittura. “Il mio nome è rosso” sembra essere, secondo quest’analisi, un saggio sulle possibilità del discorso finzionale, di fiction, e una confutazione di quella referenzialità che vorrebbe che la letteratura parlasse del mondo, scordando che il linguaggio, al massimo, parla di altri linguaggi. Come dice Maestro Osman, infatti, lo stile non è altro che il ricordo sopito e riaffiorato di un particolare già esistente. Ma questa non è una perfetta definizione di intertestualità? Il minaturista-scrittore crede di possedere uno stile, perché, con la propria intenzione, rappresenta uno spicchio di realtà: Maestro Osman-Pamuk ci invita a considerare che la minuatura-scrittura di finzione, rappresenta solo se stessa, con l’aiuto di altri sottotesti. In ultima analisi la destrutturazione operata da Pamuk confuta tutta la catena della comunicazione letteraria. L’intenzione autorale, che si esprime attraverso lo stile, non è altro che uno scarto rispetto ad una norma, già presente nell’orizzonte d’attesa del lettore, il quale viene messo in scacco dal finale, in cui si svela il narratore unico intradiegetico. Lo stile appare quindi il vero demone del discorso, perché implica un’intenzione rappresentativa: la letteratura di finzione non rappresenta nulla al di fuori di questo universo finzionale. Insomma la letterarietà sta nello svelamento dei meccanismi del discorso, per confutarli, e mostrare lo scheletro oltre la carne.