Il giudice sul mulo Periodico perenne di linguaggi letterari.

giovedì 25 novembre 2010

Dal monolocale – terzo movimento

di Norberto Giffuri

Esisto
Auspicando cataclismi, olocausti nucleari
Terremoti geologici e sociali
Come pretesto
Dai quali uscire salvo con medaglie al petto
Donne a braccetto
Lauree honoris causa e gloria in eccesso
Quando in realtà
Ciò che manca per fare incendio del presente
E' il comburente
Lo costanza, la fede, il diletto.

Verrà un giorno di cesura
Nel quale all'orgoglio subentrerà pietà
Ricordate quel tipo di cui parlo Edgar Lee?
Attesero tutti il suo genio, tutta la vita:
Genio non era.
Forse sono quel tipo.
Il mio talento presunto,
Arido, inespresso, pigro
Quanto ancora domanderà persuasione?
Verrà il dominio del condizionale passato:
Avrei potuto, sarei stato.
Ma in che gironi di decadenti ho trovato posto fisso,
Io che anticipo la rovina di una maturità cascante
Quasi a volerla edulcorare
Di modo che venuto il suo tempo
Sia avanzo di una cena scipita
Piuttosto che veleno dopo un lauto pranzo?

E il mio maestro mi posava sulla spalla la mano
Bianca come asfodelo, mano di chi è alieno al lavoro
E sentivo il peso morto
Di tutto il suo decoro.

Domenica,
E nuovamente stempero la serata
Osservando muto dal monolocale al sesto piano
Il che conferisce al mio animo
Un'angoscia tutta verticale.
Negare ogni sicurezza
Per quella strana libertà
Che si prova sui terreni incerti...
...l'alibi, per la caduta eventuale
È tanto importante per la stirpe - la mia -
Di quelli che lasciano il tempo passare
Pensando a come passarlo proficuamente
Una mise en abime
Tutta domenicale.

E il mio maestro mi confidò
Che il sesto piano è un buon partire
Avrei presto ambito
All'ottavo con terrazza
Dunque al decimo attico
Complemento ideale
Di una vita ascensionale.
Accogliere con un celato sussulto gioioso
La comparsa dei ravioli monoporzione
Esaltarsi per un parcheggio libero
Ai margini dell'happy hour
Ancora infangarmi dei vostri discorsi
Grondanti di qualunquismo
Proferiti da smorfie idiote
Di bocche aperte, di sorrisi da uomini arrivati
Bolsi, stereotipati
Anzi fantasmi di stereotipi
Che del modello han ricavato solo la forma evanescente.

Ma io rispondo sempre "Presente!"
Alla ressa dell'ipermercato
Alla tangenziale ferma del venerdì dopolavoro
Al grufolare nelle ceste dei saldi
E non mi accuccio a difesa della mia dignità
Che la dignità è persa al primo Vodka Martini
Di una qualunque di queste sere.

Nasce a volte la voglia di sfidarvi
Con l'isolamento il diniego
Tra quattro pareti intonse sparire
Come un personaggio di Auster
Spopolare il mio intorno con un brusco colpo di mano
Scrivere e respirare, a volte tutte e due insieme
Vivere protetto da voi da un millimetro di neoprene
Esistenziale...e lasciatemi stare.
Ma quale subdolo e ritorto pensiero
M'elegge nell'élite del senso e del gusto?
Uno sgiribizzo dell'anima
Che non resiste allo sfacelo di ogni notte
Che nel trambusto buio
Si svapora tra il cuscino e la mente.
Quest'orgoglio del vivere differente
Amputato ad ogni giro di sonno
Al mattino non resta
Che il torso arcaico di Apollo.

E il mio maestro mi insegnò com'è difficile trovare il pollo dentro nel McChicken.

lunedì 1 novembre 2010

Ritratto del mio cane

di Norberto Giffuri

Premessa: tre anni orsono mi fu chiesto, nell'ambito di un corso universitario che stavo frequentando, di redigere un breve testo descrittivo di un soggetto a piacere. Potete immaginare il mio disappunto di fronte ad un compito che mi pareva maggiormente adatto a studenti delle scuole primarie piuttosto che ad attempati universitari. Nonostante il disagio riuscii a partorire lo scritto che segue. Il docente premiò le due migliori descrizioni con una lettura pubblica davanti alla classe. La mia non fu scelta. Non ne ho mai compreso le ragioni.



Il mio cane.

Il mio cane, uno schnauzer taglia gigante, aveva uno sguardo cattivo sotto la frangetta nera che gli celava perennemente gli occhi. O forse quello sguardo prima indulgente si indemoniava proprio nell'atto di scansare la frangia di pelo. Non indagai mai a fondo la questione. Il mio cane amava trascorrere il suo tempo oziando. Indolente, alieno alla disciplina, rinunciatario, aveva solo due sveglie biologiche: la caccia e il cibo. Durante la notte catturava e uccideva animali di qualsiasi specie rei di aver varcato il suo territorio di competenza. I cadaveri venivano poi occultati in cespugli o sotterrati in luoghi poco accessibili. Quando veniva scoperto in flagranza di reato, il mio cane abbassava colpevolmente le orecchie e la testa e domandava perdono. Aveva una irresistibile capacità di suscitare la misericordia nell'animo. Forse perché nel momento in cui veniva colto in fallo in lui pareva esserci davvero un sincero sentimento di colpa.  
Quando reclamava il cibo quotidiano alternava rabbia chiassosa e disperazione silente. Si piazzava sotto la finestra della cucina e abbaiava e latrava in segno di sfida, come se avesse il mondo degli uomini intero a gran dispitto. Di fronte al nostro reiterato rifiuto di elargire doni edibili si ritirava in un silenzio di protesta salvo poi tornare, dopo poco minuti, a dichiarare a gran voce il proprio status di affamato. Questa farsa poteva durare anche due ore.
Il mio cane era conscio della propria condizione canina. Non si immischiava mai nelle faccende umane se non vedeva occasione per trarne un vantaggio personale. Se ne stava semplicemente a ponzare al sole aspettandosi di essere servito e riverito. Ma il suo distacco era simulazione, inganno.
Più volte lo vidi piangere: davanti alla sua ultima vittima, prima di addormentarsi nella sua ciambella di coperte, al ritorno dalle sue fughe durante le quali semplicemente vagava senza meta nella notte. Ma non pianse il giorno in cui i miei genitori lo portarono allo studio veterinario affinché gli venisse praticata l'eutanasia. Aveva un cancro terminale che lo stava consumando lentamente. Prima di salire sull'auto mi guardò per l'ultima volta e mentre gli carezzavo la testa emise una specie di ringhio sommesso.
Il mio cane era Louis-Ferdinand Auguste Destouches Céline.