Il giudice sul mulo Periodico perenne di linguaggi letterari.

lunedì 29 settembre 2008

Racconto Nero (Racconto Bianco)

di Ezechiele Lupo

Da bambino mi piacevano gli astucci multistrato. Quelli in cui ogni matita, ogni penna, ogni pennarello, e poi il temperino, la gomma, anzi le gomme, avevano il loro alloggiamento: un anello di elastico e stoffa che teneva tutto fermo, tutto al suo posto.
Poi alle medie, ma forse già in quinta elementare, ho cominciato ad usare astucci a busta: tutto diventò più confuso e disordinato. Al ginnasio usavo una piccola scatola di latta, grigio metallizzato, che conteneva una penna, una matita e una gomma. In prima, seconda e terza liceo non avevo niente; chiedevo in prestito tutto e perdevo tutto, quasi quotidianamente. Cosa vorrà dire? Che il disordine porta al nulla? Ma allora anche l'ordine conduce al disordine. Che porta al nulla. E dal nulla rinasce l'ordine. Insomma l'evoluzione di un astuccio può rappresentare una weltanschauung? Sì penso di sì.
Ora è tutto disordine.
Un giorno provo a prendere tutte le penne, le matite e i pennarelli che trovo sulla scrivania, nei barattoli, nei cassetti, sopra il comodino (escludo le matite per gli occhi di mia moglie) e cerco di catalogare. Ma non mi decido quale dev'essere la discriminante e lascio stare: tutta quella fatica a rintracciare tutte quelle matite, quelle penne, quei pennarelli. Un altro giorno apro un cassetto e vedo una vecchia scatola di pastelli a cera; la apro e appare uno spettacolo bellissimo: ogni spazio è occupato da un pastello, tutti i pastelli sono della stessa altezza e da sinistra a destra sono ordinati per progressive gradazioni di colore. Rimango affascinato da quella perfezione, dall'armonia e dalla bellezza. Quanti anni erano che qualcosa di mio non era così ordinato, ed equilibrato.
Erano sei anni che non scrivevo una lettera a mio fratello.
Decisi di andare da una psicologa.
Il mio medico curante aveva appena affittato una stanza del suo grande studio ad una psicologa: la dott.ssa B****. Un giorno, sarà stato aprile, andai a farmi prescrivere un antibiotico e vidi questa nuova targhetta sulla porta d'ingresso. Due studi quindi, ma una sola sala d'aspetto. Mi vergognavo e divertivo molto a pensare quali tra questi pazienti che attendevano, come me, il loro turno, fossero in realtà dei picchiatelli, e quali invece, come me, fossero sani: almeno di mente. Mi divertivo e mi vergognavo, sì: perché anche gli altri avrebbero potuto pensare di me le stesse cose. Anche loro avrebbero potuto fare illazioni riguardo la mia salute mentale, anche loro avrebbero potuto pensare: "ah… quello lì si vede che sta male, poveretto…". Ecco perché ogni volta che andavo dal mio medico mi preoccupavo di essere sempre in ordine. La preparazione iniziava dalle scarpe: ogni volta le pulivo e le lucidavo; ma non solo. Già perché avevo anche cura di alternarle, nel caso, alquanto remoto per la verità, avessi incontrato le stesse persone della volta precedente. Prima di uscire di casa inoltre stiravo i pantaloni, indossavo una bella camicia, e solitamente una cravatta allegra, ma non pacchiana. Poi infilavo una giacca, anche sportiva talvolta, di velluto, o di filo di scozia. Non portavo le lenti a contatto, ma mettevo gli occhiali: danno decisamente tutta un'altra aria. Pettinavo i capelli che cercavo di tenere sempre alla medesima lunghezza: esprimevano un senso di ordine, di cura, di autostima direi quasi. Eppure… eppure qualcosa andava sempre storto, c'era sempre un particolare che turbava questo ordine, questa bellezza. Le scarpe si sporcavano se pioveva, i pantaloni non tenevano la piega, il nodo della cravatta non era triangolare e sottile come piace a me, oppure avevo le mani sporche di vernice. Insomma c'era sempre qualcosa fuori posto. Ma confrontato agli altri pazienti ero di gran lunga il più ordinato. Una volta entrò un uomo sulla cinquantina, grasso, gonfio direi quasi, con la pelle cotta dal sole: indossava dei pantaloni blu di un tessuto scadente e rigido, aveva ai piedi pesanti scarpe da lavoro, e un gilet del colore e della stoffa dei pantaloni. Sotto il gilet portava una smunta maglia nera. I suoi occhi chiari significavano smarrimento quanto la camminata inferma. Quello era senza dubbio un paziente della dottoressa B****.Certo, era un caso eclatante, riconoscibile tra mille; ma ce n'erano altri che cercavano di nascondere le loro patologie, di far finta di essere sani di mente, come me. Ma io li ho scoperti tutti: tutti. Ad esempio: un pomeriggio di settembre si siede in sala d'aspetto un uomo che al massimo avrà avuto quarant'anni. Io sfoggiavo scarpe bianche di Prada, jeans Emporio Armani, camicia blu e maglioncino bianco a righe blu in stile marinaretto: impeccabile e ordinato (se escludiamo il polsino destro della camicia a cui era saltato il bottone mentre scendevo dalla macchina). L'uomo era il classico impiegato e portava dignitosissimamente un vestito grigio con camicia azzurra e cravatta regimental. All'apparenza un tipo da medico di base. Ma il tempo e il mio spirito di osservazione lo hanno tradito. Eravamo seduti entrambi da quasi quaranta minuti quando, di fronte alla mia calma tibetana, che si esprimeva stando seduto con la schiena perfettamente eretta, con le mani ordinatamente sulle cosce e lo sguardo dritto verso il muro di fronte a me (così immobile, imperturbabile, ordinato: sarebbe potuto passare un caccia bombardiere nucleare che non mi sarei mosso di un millimetro. Ordinato, sereno, sano di mente), l'uomo chiude la rivista che stava leggendo (così senza preavviso, senza un segnale premonitore), tira fuori dalla tasca il cellulare, guarda qualcosa e sbuffa: un comportamento assolutamente irrazionale, segno di un disordine mentale acuto. Perché una scena di quel tipo? Che bisogno c'era di reagire in quel modo scomposto? Io per quaranta minuti sono stato fermo immobile, ordinato: come una matita nel proprio astuccio.
L'ultima volta che sono andato dal mio medico ho avuto l'impressione che fossero tutti picchiatelli, che fossero tutti pazienti della dottoressa B****. E allora ho capito: ero l'unico sano, l'unico polo di ordine in un universo di caos.
Tutto questo disordine intorno a me mi ha convinto che anche io devo andare dalla psicologa, anche io devo fare la figura del picchiatello, come tutti gli altri. Forse lei, la psicologa, potrà farmi capire perché una volta ero sempre ordinato: ora non lo sono quasi mai, tranne quando vengo dal mio medico, entrando in un contesto in cui sono tutti malati di mente, e io l'unico sano.
Quando ero piccolo mio fratello mi ha messo in disordine tutto l'astuccio, e io ho pianto per ore, giorni, forse mesi. Poi un giorno lui è scomparso e io, da quel giorno, ho sempre avuto paura del pozzo che sta nel giardino della casa dei miei: loro, infatti, su mia richiesta lo fecero murare.

giovedì 25 settembre 2008

Il tempo di un respiro

di Asincheraglia

Trasse nel suo studio, il giorno dopo, i primi pensieri articolati. Dalla nebbia acquosa dell’ebbrezza in fase di smaltimento, distinse solo un paio di sorrisi. La serata, allegra, si era consumata in un locale disperso. Un concerto di una comitiva di amici lo aveva condotto fin lì, nella periferia a cavallo fra Milano e la monotona zona nord, liscia, verde, miseramente umana. Per arrivare, Ludvig, percosse un lungo tratto pedibus calcantibus. Le distanze, dalle cartine colorate di un giornale trovato nel cassetto, gli erano parse allegre. E invece, nel tragitto, un manipolo di italianissimi bravi aveva spaventato, svogliatamente, una ragazza che, cellulare lampeggiante con Winnie the pooh alla mano, scappava correndo. Si ricordò anche della pioggia. C’erano lampi e alberi ondeggianti. Case operaie con tv al plasma dentro. Vialoni senza bellezza e un buio utile per le macchine di grossa cilindrata. Una puttana di colore era lì lì per adescarlo.
Così, quando dalla super-strada con le auto che, prima di sfrecciargli accanto, gli illuminavano il culo di luce fredda – adrenalina e sollievo per non essere colpito – vide il locale, anche l’insegna fluorescente, grande e grezza, gli parve spargesse un calore familiare.
Dentro, il complesso di amici suonava un rock casareccio onesto e coinvolgente. Ed allora, nel ricordo, il sorriso si allargò al volto chiaro, agli occhi e agli zigomi russi, come la Madame Chauchat dipinta da Mann. Era la cameriera del locale. Stimò il suo culo uno dei più belli mai visti. Come il protagonista della Montagna Incantata, sentì il sentimento gonfiare da dettagli insignificanti. Il modo di muoversi fra i tavoli, la capacità di brandire le portate, i sorrisi, che solo dopo si accorse essere molto più maliziosi di quanto credesse. Non sapendo come, se ne innamorò. Senza aver scambiato una parola – al di là di un ‘grazie’ silente –, senza averne sondato l’umorismo, senza aver neppure dissertato di teoretica.
Insomma, quella mattina, chiuso nel suo studio e rivolto allo specchio, sciogliendo nel mal di testa le ultime resistenze della memoria ghermita dall’alcool, capì di avere in mente una ragazza di grande spessore. Nonostante quei capelli colorati malissimo, compensati da una capacità fuori dal comune di muoversi sulle note rock‘n’roll.
La sera precedente era tornato in macchina, fermandosi nella saletta dei musicisti. Riti post-concertistici. Si accorse di quanta bellezza permea gli sguardi di un gruppo che ha appena fatto musica. Luis, batterista ansiolitico, sfoggiava il suo ipercriticismo birra alla mano. Il bassista, silenzioso come un basso che conta, rifletteva la serenità inquieta della fidanzata belga. Luca ha un padre suicida, e il punto interrogativo dell’esistenza permea ogni sua caustica e risolutiva affermazione. Jack non afferma. E’ affermato, con tanti soldi e una bella ragazza americana. Pensò a quanta globalizzazione fra le anonime strade di Milano che, da sole, non significano nulla. Milano è la città più umana che esista. Di suo non ha niente. Conta solo in relazione a quanto riesce a produrre l’uomo.
Decise che sarebbe tornato al “Paddok” il prima possibile. L’unica voglia che s’arrampicava nella confusione, quello e i momenti successivi sobri o ebbri che fossero, era quella di rivederla.

Il giorno in cui scelse di prendere un amico e trascinarlo al “Paddok” non era stato dei più sereni. Una fastidiosa febbriciattola gli pulsava nei polsi, alimentata da piccoli impegni che continuava a rimandare distrattamente. Alla fine, i doveri si accumularono come una montagnola di spazzatura nella mente e così, Ludvig, non poté far altro che optare per un’uscita irresponsabile.
Ripensò alla macchia che era diventata l’immagine della giovane cameriera. Ricordava solo alcuni dettagli – il sorriso, gli zigomi – e il resto si traduceva in malcerte sicurezze emozionali. Sentiva gli occhi bellissimi ma non ne distingueva il colore, e intuiva la rotondità del sedere per quanto non ne avesse misurato la qualità.
Pensò che non poteva recarsi lì a mani vuote, e decise di comporre una poesia per lei. Adottò il metodo di sempre, chiudendosi nel suo studio e bevendo una lauta dose di acqua ghiacciata, di quelle che sprizzano direttamente nella vescica suggerendo una vivace voglia di pipì. Ludvig, in condizioni concitate, eccitate, sorprendenti, credeva di dare il meglio di se.
Puntuale, l’amico squillò. La serata offriva una luna bellissima e stranamente cangiante. Da rossa e vicinissima, nel giro di un paio di curve, si trasformò in lattea e distante. Tipici trucchi dei giorni estivi, che sembrano non riuscire a gestire la libertà di cui godono potendo tramontare quando vogliono.
Il Paddok, distante dalle luci di una festa allegra e per bene, aveva assunto sembianze più autentiche. Neon blu, tavolini in alluminio protesi verso la strada periferica, clientela rigorosamente maschile. Ludvig e il suo socio sedettero strategicamente su sedie utili per osservare l’interno del locale. Le cameriere sfilanti si rivelavano tutte rigorosamente belle e straniere. Il rosso delle pareti di quel casermone in mezzo al nulla urlava il suo provincialismo. Lei arrivò poco dopo, con un sorriso meccanicamente stampato in viso. I capelli erano colorati con maggiore cura, ma il sorriso, questa volta, palesava, oltre la malizia, il conformismo di ciò che viene fatto perché si deve.
Andrea incalzò: “Ciao! Io e il mio socio abbiamo fatto una scommessa: tu sei ucraina, giusto?”
Andrea usava sempre osare. Per questo Ludvig lo aveva invitato. Le conversazioni, con lui, si trasformavano in partite di tennis. A volte vibranti, a volte atrocemente inconcludenti. Aveva un modo originalissimo di maneggiare trasparenza e sincerità.
“Sono rumena”, disse lei, senza perdere l’aria estatica, “parlo bene l’italiano perché i miei fratelli vivono qui da anni”. Era bassina, magra, dolce. Ludvig avvertì come un peccato il fatto che ci fosse qualcosa che non andava. Mentre venivano serviti secondo i tipici criteri del locale in cui si beve ma non si va li per bere, le mani della clientela maschile viaggiavano spedite verso aree anatomicamente specifiche delle cameriere. Lo squallore sembrava posarsi su ogni dettaglio come neve nera del giorno dopo. L’idea della ragazza semplice e affascinabile, Ludvig, la convogliò in un unico punto della sua mente. Si ricordò di una cosa che gli ripeteva, in infanzia, un amico traviato verso lo Yoga da suo padre. “Se hai mal di testa, immagina che tutto il dolore si concentri in un unico punto della tua zucca. Poi immagina del fumo che, da quel punto, si alza fino a formare una nuvoletta. Ecco, ora il mal di testa è fuori di te.”
Fece così col pensiero di lei, non prima di aver valutato l’ipotesi di rapirla, strapparla ai suoi sorrisi e agli sguardi del pappone eccitato che osservava dall’alto, di farla innamorare. Il pensiero svanì come una pozzanghera stanca evapora ad agosto. E Ludvig era veramente stanco di osservare un giovanotto che trafficava con la sua cameriera prima di trascinarla in macchina.

Ludvig se ne andò, leggero come un brano di Dave Brubeck. Pensò a come le congiunture esistenziali portino a preferire una persona, ad assaporare il piacere un brivido colpevolmente dimentico della sua origine del tutto casuale e momentanea. Niente, neppure il sentimento più puro, può scampare alle sofisticazioni di un mondo che gira indipendente.
Lei, dietro il vetro scuro della macchina, mentre l’auto stava per imboccare l’enorme strada piena di luci, lesse a stralci, nel buio dei sedili posteriori, la poesia trovata nel tavolo insieme a briciole di mancia.
E ti ho pensata / Come un capello che vola via / Nell’incapacità / Mia e del mondo / Che dilata astrattamente / Particelle di un secondo.
Dopo aver accartocciato il foglio e averlo gettato dal finestrino dischiuso, riuscì a concludere un respiro profondo.

domenica 21 settembre 2008

Frammenti dialogati - 1 -

di Norberto Giffuri

(Mattina, cielo terso, primi di settembre. Villetta in campagna. Un uomo a torso nudo su una sedia sdraio legge Underworld di DeLillo. Entra in scena una donna.)

Madre: “È arrivata una cartolina dalla Florida. Per te. Scritta da te. Perché?”
Uomo: “Per dimostrare che esisto.”
Madre: “Ti serve una cartolina per farlo?”
Uomo: “Forse.”

(La donna dà un buffetto sulla testa all'uomo)

Uomo: “Ho quasi trentanni, mamma.” - con tono rassegnato -

(qualche secondo di pausa)

Madre: “La cartolina dice: una testimonianza della mia esistenza su questo grande sasso... c'è una palma, il mare, il tramonto... non vedo sassi....”
Uomo: “Ha un impianto metaforico.”
Madre: “Cosa?”
Uomo: “Cosa!?!” - adirato - “La cartolina, dico!”
Madre: “Ah.”

(qualche secondo di pausa. Si sente il rumore di un aereo lontano nel cielo)

Uomo: “Insomma, non ti posso spiegare tutto... non si può spiegare tutto... l'arte sai... l'arte è un chiaroscuro, un gioco perenne di interpretazioni...”
Madre: “E questa sarebbe arte?” - stizzita, agita la cartolina -
Uomo: “È, non è... comunque il punto è che tutto non è limpido e accessibile... questa non è una fiction RAI, questa non è una fiction RAI” - urlato, in crescendo - “QUESTA NON È UNA FICTION RAI!!!!!”

(La donna lancia la cartolina sul petto dell'uomo e se ne va. L'uomo continua a ripetere sottovoce “Questa non è una fiction RAI” con tono sempre più sommesso)

(dissolvenza in nero – 2 secondi – dissolvenza dal nero, stessa scena. La donna rientra nell'inquadratura.)

Madre: “La Terra!”
Uomo: “Cosa?”
Madre: “Il grande sasso è il pianeta Terra!”
(L'uomo poggia il libro, si alza e abbraccia la donna teneramente. Dissolvenza in nero.)

lunedì 15 settembre 2008

Due poesie

di Asincheraglia

1.

In un cassetto pieno di buio
Prismi di emozioni sfumano
Nel passato e nel futuro
Tempi che si misurano
Mentre il termometro di ciò che succede
È rotto dall’assenza del pensiero
E dalla forza della vita
Bianca a tratti
Come il vento che di notte abbraccia
E fa respirare
Spolverando brani di idee.


2.

Chissà cosa pensiamo
Quando abbiamo altro a cui pensare
E mentre ti guardo
Rapida passante
E mentre ti ascolto parlare
Il rumore dei tacchi non c’è più
Il foglio che si sfoglia tace
Sento solo un filo di nailon
Che lega i nostri occhi
E ritaglia fantasie troppo diverse
Per non riconoscersi.

domenica 7 settembre 2008

Ogni anno, ogni mese, ogni giorno

di Ezechiele Lupo

Vie


A Milano via Farini non si chiama via Farini. O meglio: i milanesi non la chiamano così. A Milano via Farini è semplicemente “La Carlo Farini”, senza via. Ad esempio: due amici si incontrano, parlottano un po', poi si danno appuntamento per la sera, e uno dei due dice: “Allora d'accordo, ci vediamo in Carlo Farini”; oppure “Allora alle 10 al ponte di Carlo Farini?”. Stesso discorso vale per Piazzale Maciachini. A Milano non si dice mai: “Vediamoci in piazzale Maciachini”, ma piuttosto “Ok, va bene, allora stasera in Maciachini”. Semplicemente così, “in Maciachini”. A Roma si dice: “Vediamoci in Piazza del Popolo”. A Milano: “Appuntamento, puntuali, in Cadorna”, o “in Cairoli”. I romani si incontrano “in via Cola di Rienzo”; i milanesi “in Moscova”, che poi sarebbe via della Moscova. A Roma la gente chiacchiera “a Villa Borghese”; a Milano si gioca a pallacanestro “in Sempione”. 
Una domenica prendo la bici e vado a fare un giro per le strade intorno a casa mia, ma senza accorgermene arrivo fino a via Borsieri, e passo davanti al Frida, che a quell'ora è chiuso, o forse è chiuso perché è il 10 agosto. Quando leggo la targa di via Borsieri mi stupisco di esserci arrivato in così poco tempo, e scopro che esiste una sopraelevata che attraversa i binari della stazione di Porta Garibaldi (“Ci vediamo in Garibaldi allora?”), e che collega il quartiere Isola alla zona dei Bastioni di Porta Nuova. Su questa strada siamo solo io e due ragazze, su una bici anche loro: fanno un po' fatica a salire perché la bici non ha le marce e non sembrano abituate ad andare in due. Forse fanno anche un po' finta di cadere, forse straniere, forse milanesi. Mi ritrovo in largo La Foppa e decido di andare a vedere se Rossignoli in Corso Garibaldi è aperto, o almeno se espone la pompa pubblica per gonfiare le ruote della bici. Lo trovo chiuso. Allora proseguo e giro per via Luchino Visconti e mi ritrovo dietro al Teatro Strehler. In quella piazza ci sono venuto a giocare a calcio, di notte: sarà stato il 2003. Ci sono venuto due volte: la prima era stata molto più divertente, forse perché era giugno e faceva caldo, ma in quella piazzetta si stava proprio bene. La seconda volta era autunno, forse fine ottobre, e faceva freddo, ma non tanto, quindi finiva che sudavi, ma poi avevi ancora più freddo. Sulla porta di Rossignoli c'è un cartello: dice che per le riparazioni delle biciclette, durante tutto il mese di agosto, è aperto un negozio affiliato in via De Cristoforis. Io non mi ricordo subito dov'è, ma dopo un po' mi viene in mente che sta dietro corso Como, e allora ci vado perché tanto non ho niente da fare, ed ho proprio voglia di girare Milano senza fretta, e soprattutto: senza rumore. Corso Como è quasi bello la domenica in agosto a Milano. Non c'è nessuno e i locali aperti sono pochi. Sì, ci sono delle persone ai tavolini, ma sono quasi trasparenti, innocue e per nulla volgari. Anche questo negozio di biciclette è chiuso, ma solo perché è domenica: avrei dovuto immaginarlo, comunque. Penso che non mi va di tornare a casa, e penso anche che quelle vie intorno a Corso Como non le ho mai viste, e così prendo via Alessio Di Tocqueville. Attraverso via Tito Speri, guardo la targa, e vedo che era un patriota. Poi sbuco in via Maroncelli. Guardo la targa di questa lunga via stretta con i marciapiedi stretti e il pavè: Pietro Maroncelli, scrittore e patriota. Anche lui. Via Maroncelli è bella, mi piace: le case sono basse e ordinate, i portoni di legno, molto signorili. Mi fermo all'angolo con via Quadrio, e anche di Maurizio Quadrio, guardo la targa: scrittore e patriota. Penso che in anni giusti, in posti giusti, con la formazione giusta, non dovesse essere così difficile amare la propria patria. E persino dilettarsi con la scrittura. Mentre penso queste cose un signore abbronzato e vestito sportivo è di ritorno dalla passeggiata con il suo enorme cane di razza: lo guardo. Lui guarda me, e probabilmente si chiede che ci faccio in mezzo ad un incrocio, solitamente trafficatissimo, a fissarlo mentre porta a spasso il cane. Ma no... non è vero: io non guardavo lui. Guardavo il suo bel portone di legno verniciato in verde scuro. Come mi piacerebbe abitare in via Maroncelli: uscire ogni mattina da quel bel portone verde e rientrare ogni sera attraverso quel bellissimo portone di legno. Eh... bèh... sarebbe proprio tutta un'altra cosa.

Scelte

Quando avevo quattordici anni conobbi a Viserba, una località di mare sulla riviera romagnola, una ragazza di nome Sara. Me ne innamorai immediatamente. O meglio, credevo di essermene innamorato, prima di capire cosa fosse davvero l’amore; cosa di cui non sono per nulla sicuro nemmeno adesso, ma gli anni e le esperienze, poche per la verità, mi hanno convinto a formarmi un’opinione sull’argomento, tanto da tracciare dei confini entro cui riconoscere questo sentimento. Sara era molto bella e molto strana. Lei mi raccontava sempre di un ragazzo che nel paese dove abitava, era considerato il più bello ed affascinante. Anche lei ne era affascinata, ma io non ero geloso. Io non sono mai geloso. Sara aveva una passione per Che Guevara: lo idolatrava, e per questo diceva di essere comunista. Io non sapevo nulla di politica, ma l’anno prima ero andato a Predappio sulla tomba di Mussolini con dei miei parenti fascisti, anzi fascistissimi. Decisi ad ogni modo di diventare anche io comunista e, a settembre, tornato a casa, cominciai ad informarmi. Scovai un partito che si chiamava Partito della Rifondazione Comunista, e il suo segretario, Fausto Bertinotti, era un tipo bizzarro con una erre moscia coinvolgente, una parlantina colta e ricca di sinonimi e belle allitterazioni. Spesso di Bertinotti non si capiva davvero cosa volesse dire, ma era talmente piacevole sentirlo parlare, che in un batti baleno mi trovai a dichiarare senza pudore, né dubbi alcuni, che sì, ero un comunista, e avrei votato per Bertinotti. Così in generale. Questa fu la mia prima scelta in campo politico. Oggi non credo che le mie decisioni siano dettate da un ragionamento più acuto, profondo, ponderato e strutturato di quello. 
Nel febbraio del 2002 arrivò alla mia casella mail una lettera promozionale di una nota catena di negozi di elettronica. Oltre alla pubblicità, in basso, era segnalato un indirizzo al quale inviare il proprio curriculum per lavorare in una delle loro filiali come assistente alle vendite, che poi è fare il commesso. Pensai immediatamente che sarebbe stato un buon modo per occupare in maniera frustrante il mio tempo, invece di andare a seguire i corsi all’università. Inviai subito la lettera senza curriculum: non avrei potuto compilarne uno, perché non avevo alcun tipo di esperienza nel campo dell’elettronica; anzi: nessun tipo di esperienza punto. Allegai una piccola nota in cui specificavo: no lavoro full-time, solo nel reparto musica, e non nel week-end. Malgrado le mie richieste mi chiamarono e mi offrirono: 700 euro al mese compresi contributi, per lavorare otto ore, ma solo venerdì, sabato e domenica al reparto audio e tv. Ovviamente accettai. Era tanto vicino a casa. 
In Val d’Aosta ci sono tre tipi di turisti: i ricchi industriali, o commercianti, o agenti di borsa, o architetti, o professionisti in genere; poi ci sono gli studenti figli dei ricchi industriali eccetera eccetera; e poi ci sono gli amici che approfittano delle case in montagna dei figli dei ricchi industriali eccetera eccetera. Erano anni che i miei amici andavano in settimana bianca in Val d’Aosta. Io non so sciare, ma un anno decisi di andare con loro. Pensai che non sarebbe stato difficile imparare in una settimana, tanto più che tutti i miei cari amici mi promettevano lezioni gratuite, e un’attenzione scrupolosa ad ogni mia necessità. Il primo giorno noleggiai scarponi e sci e mi portai sulla pista “Baby”, per prendere contatto con i primi rudimenti di questo sport, che tante soddisfazioni ha dato ai colori italiani negli anni ’80 e ’90. Per la mia prima lezione sulla neve erano schierate tre persone, pronte a guidarmi passo a passo. Furono ore drammatiche in cui i miei tre maestri mi guidavano dicendo contemporaneamente cose differenti. Ma non sbagliavano loro: ero io che avrei dovuto fare i tre movimenti insieme. Alla fine della mattinata decisi che gli sport invernali non facevano per me, e promisi a me stesso di non mettere mai più piede in uno scarpone da sci. E infatti fu così. Malgrado la mia decisione tenni l’equipaggiamento per tutta la durata della vacanza: li avevo noleggiati per una settimana e non avevo lo spirito di dichiarami sconfitto al noleggiatore.  


Stelle


Ho lavorato per pochi mesi al planetario dei giardini di via Palestro, che da qualche anno sono stati dedicati ad Indro Montanelli, del quale c’è un criticatissimo monumento all’interno di questi giardini. Mi offrirono questo lavoro il 4 settembre 2003. Ero tornato da pochi giorni da una vacanza nelle Cicladi, che non mi ero affatto goduto: zaino in spalla, io ed altri neoamici visitammo Paros, Koufonissi, Folegandros e Santorini. Malgrado mi fossero stati assicurati sempre un letto ed un tetto robusto, finimmo per ben due volte a dormire in campeggio. Il campeggio di Koufonissi era poi specialmente scalcagnato: senza un’ombreggiatura adeguata (anzi: senza alcuna ombreggiatura), senza acqua calda né porte nei bagni. Solo un bagno poteva vantare un porta, ed era sempre il più ambito per i momenti particolari. Ma c’era una cosa che valeva il tanto disagio: il cielo di notte. Nel buio del campeggio, a pochi passi dal mare più che trasparente, se alzavi gli occhi avresti potuto vedere tutti gli astri della volta celeste, e forse qualcosa in più. Il cielo era nero con puntini di luce, o era fatto di luce con puntini bui? Questa era una buona domanda a Koufonissi. Nella pausa pranzo al planetario a volte pensavo a quel cielo d’agosto, su quell’isola greca. Io credo nell’isolamento, credo nell’individuo che da solo trova la propria realizzazione, che da solo comprende i propri comportamenti; ma non credo nella solitudine degli asociali, e, tuttavia, non credo nei gruppi. Spesso, con un toast in mano, guardavo la vita dei giardini a mezzogiorno: con il sole era peggio. Mi piacciono quei giardini con la luce biancastra della Milano di inizio novembre, con gli anziani alti alti con il paltò lungo, il borsalino e il giornale sotto braccio, mentre passeggiano tra i filari di alberi, verso l’interno del parco, verso Palazzo Dugnani, la fontana e panchine tutt’intorno: da dietro sembrano tanto Indro Montanelli. Otto ore al planetario non erano faticose; oserei persino dire che fossero piacevoli: arrivavo sempre puntuale alle nove, dopo aver percorso tutto corso Venezia con i primi rigori dell’inverno precoce che mi sferzavano, ma con rispetto, il volto. Parcheggiavo la bici, dopo essere passato di fronte al Museo di Storia Naturale, nelle rastrelliere fuori dal planetario. A volte prendevo un caffè alla macchinetta, talvolta addirittura andavo in un bar a prendere un cappuccino e una brioche. Fino alle dieci non c’era mai nulla da fare. Poi il planetario si animava. Eravamo sempre in tre, quattro persone a far andare il grande proiettore e tutti i meccanismi che servivano a far apparire le stelle ed i pianeti, ma anche gli assi di rotazione, i meridiani, i paralleli, a far sorgere il sole, a farlo tramontare, ad osare un eclissi lunare, una solare, un aurora boreale ad ottobre, in via Palestro, a Milano. Ovviamente non ero io al comando del proiettore: quello è un lavoro di grande responsabilità, devi sapere bene cosa toccare, quali leve abbassare al momento giusto, per creare un effetto particolare, una messa a fuoco chiara. Io stavo su: “in regia” con un’altra persona, pronti ad intervenire per accendere e spegnere la luce principale, o a venire in soccorso qualora il proiettore non avesse risposto adeguatamente: quest’ultima opzione, per fortuna, non capitò mai. Le scolaresche, i bambini di quarta elementare erano i più interessati, arrivavano ad ogni ora, ma soprattutto la mattina. La guida, che poi spiegava le cose che venivano proiettate sulla volta della cupola, faceva anche da guardarobiera: i soldi del comune erano pochi e così ci si doveva arrangiare. Io guardavo le loro teste per aria, mentre apparivano e scomparivano le costellazioni e i pianeti, mentre la via Lattea illuminava metà della volta. Era molto rilassante seguire le evoluzioni di quei puntini di luce, ed anche osservare con che maestria il manovratore inclinava di pochi gradi l’immenso proiettore, per ruotare l’asse di tutto il pianeta Terra. Com’era rilassante il barcollio di quel silenzioso, immenso proiettore. 
A gennaio 2004 il mio contratto con il comune di Milano scadeva e non mi fu mai rinnovato. L’ultimo giorno il manovratore mi disse: “Purtroppo non possiamo tenerti: il proiettore è vecchio, comincia a perdere colpi, e non ci sarebbero soldi nemmeno per conservare lui. Ah… non sai quanto mi piacerebbe avere a disposizione tutte quelle nuove tecnologie digitali, da integrare al vecchio proiettore: sarebbe una cosa bellissima. Vedi: oggi, io posso mostrare le stelle del cielo; ma con quelle nuove e costose tecnologie potrei proiettare, su questa volta dei giardini di via Palestro, tutte le galassie dell’infinito Universo.”