Il giudice sul mulo Periodico perenne di linguaggi letterari.

martedì 20 ottobre 2009

Mattino in famiglia - seconda parte

di Norberto Giffuri
Il lampadario oscilla leggermente se lo si fissa a lungo. Per quanto mi professi agnostico devo pur sempre fare i conti con i riflussi dell'educazione cristiana che le istituzioni e la mia famiglia -seppur blandamente – mi impartirono nel limbo informe dell'infanzia. Questo sottobosco religioso ha resistito al machete dell'esistenzialismo, alla disillusione della maturità. Così succede che per me la domenica si accompagni al riposo e al ristoro. Lasciamo perdere la fisiologica necessità di fermarsi un giorno su sette. Nei lunghi anni dell'università ero SEMPRE fermo e grondante di tempo libero. Ciononostante passavo domeniche oziose e contemplative tra il divano e il pc. Arrivavo perfino a declinare inviti per aperitivi e altre amenità socio-relazionali preferendo la dilatazione temporale di un pomeriggio trascorso in solitudine - unica eccezione contemplata la compagnia del sonno o quella di mia madre intenta nelle sue faccende domestiche.
I minuti passano, segnati dal pulsare ritmico all'interno del cranio.

Squilla il cordless.
“Pronto”
“Signor Norberto?”
“Sì”
“Sono Elena, di Mattino in famiglia, ci siamo sentiti poco fa. Complimenti, la sua domanda è stata selezionata, resti in linea e fra pochi minuti potrà parlare con l'avvocato Sacchi”
“Ehm sì, grazie, mille grazie.”
Di nuovo i Beatles. Mi concentro sul video. Il presentatore mendace guida il cambio di scena. La bella, lo pseudo-sapiente, il reduce e l'ex spariscono, spero per sempre. Una carrellata introduce un finto salotto, finto il fuoco finto, le poltrone, il tappeto, il tavolino di cristallo. Pare finto pure il viso leguleio di Sacchi. Eccoti Sacchi, ma quella cravatta verde l'hai ponderata? Se sì, ti serve un corso rapido di teoria dei colori.
“Ed eccoci all'appuntamento con il diritto. Buongiorno Avvocato, come sta? Pronto per le domande dei nostri ascoltatori?”
“Come sempre.
“Non perdiamo tempo dunque. Via alla prima telefonata.”
I Beatles tacciono. Poi in contemporanea, da cornetta e tv: “Buongiorno, con chi parlo?”
Deciso, “Norberto. Sono Norberto”
“Ah, buongiorno, da dove chiama?”
“Dal mio divano.”
“Ah Ah -risata falsa- che simpatia il nostro Norberto...da dove chiama?”
“No senta, ho appena risposto...e comunque non ho chiamato per fare conversazione sulla geografia di questo paese.”
Con imbarazzo, cercando di limitare i danni, “Ah ah, vedo che ha fretta di parlare con l'avvocato..dica, esponga pure!”
“Guardi, in verità devo fare una richiesta ma non direttamente all'avvocato...è una richiesta generale, se così si può dire...”
Accigliato, “Scusi?”
“Sarò breve: è domenica mattina, mi sto deprimendo misuratamente, ho mal di testa e il telecomando è abbandonato ad una distanza superiore a quella del mio braccio. Ho le ossa indolenzite, non ho voglia di alzarmi e mia madre si è dileguata. La richiesta: essendo un vostro spettatore voi in un certo qual modo siete miei debitori: di attenzione, tempo e pazienza. Considerate le ragioni addotte vi chiedo di interrompere le trasmissioni per quindici minuti circa, una pausa necessaria affinché io prenda nuovamente sonno. Niente musiche rilassanti, né immagini da intervallo...uno schermo nero, oppure quel disco policromo vattelapesca e...mi raccomando silenzio, assoluto silenzio. Grazie. ”

Dieci minuti dopo di fronte al disco variopinto, nella pace serenissima, finalmente, chiudevo gli occhi.
Fine

lunedì 19 ottobre 2009

Mattino in famiglia - prima parte

di Norberto Giffuri
Mattinata di domenica, nella casa dei miei genitori, indolente, roso dall'emicrania, giaccio supino sul divano del salotto. Uno scampolo di cielo relegato nel contorno della porta-finestra, appare denso, lontano. Il corridoio convoglia uno spiffero d'aria freddo giusto nella nudità dei miei piedi. Chiudo le dita a riccio e cerco conforto tra le pieghe del divano. Sono troppo annoiato per dilungarmi nel procacciare una coperta, troppo falsamente stanco per spegnere il vociare atono ed irritante della tv, lasciata accesa da qualcuno sul secondo canale. Del telecomando non v'è traccia.

“Maaaa! Mamma?”
Si perde il grido tra la carta da parati e un Monet replicante inchiodato al muro.

La spossatezza e il mal di testa non sono frutto di un sabato notte burrascoso e smodato, non sono il risultato di una baldanza alcolica: arrivano dal nulla di una serata passata a stemperare sentimento e curiosità tra le pagine di un browser. La consapevolezza di subire una punizione ingiusta non fa che corroborare il disagio. Mi ritrovo a fissare la televisione in perfetto stato catatonico. Sullo schermo dei personaggi dai volti lucidi ciarlano seduti nel mezzo di uno studio fin troppo colorato. C'è il presentatore dal sorriso insincero, la soubrette inutile e bellissima, il tuttologo, il reduce del reality, l'ex sportivo belloccio: ci sono tutti, tutti.
“Ma tu credi che lei stia giocando con Sergio? Pensi che il loro rapporto sia uno stratagemma televisivo, un modo per guadagnare attenzioni?”
“Io non la conosco e non la voglio giudicare...”
“Ma se nelle due settimane passate insieme le hai sempre parlato alle spalle!”
“Ma che dici, taci! Da che pulpito!”
Il pubblico si agita, il presentatore smorza i toni. La discussione continua.
In sovraimpressione scorre una scritta gialla: “Vuoi fare una domanda al nostro avvocato? Chiama lo 02392820900”. Eccolo il telecomando! All’estremo angolo del tavolo tondo di noce, poggiato in bilico con un lato tutto sporgente. È decisamente fuori dalle mie possibilità estensorie. Forse un braccio come quello di Shaquille O’Neal, sicuramente un allungo di Plastic Man, basterebbero a ghermire il controllore remoto... “Vuoi fare una domanda al nostro avvocato? Chiama lo 02392820900” ...indiscutibilmente remoto, insomma, l’aggeggio è fuori dal mio universo fenomenico, relegato nell’altrove, inarrivabile come una galassia distante un miliardo di parsec o come Megan Fox. “Vuoi fare una domanda al nostro avvocato? Chiama lo 02392820900”.
Afferro il cordless dal tavolino basso - l'unico oggetto alla mia portata -. Chiamo lo 02392820900.
Squilla. Prendo la linea: messaggio preregistrato. Attendo. Parte Let it be. I Beatles regnano nei centralini di tutto il globo. Whisper words of wisdom.

Mattino in famiglia, buongiorno, con chi parlo?”
“Sono in diretta?”
“No.” Risata femminile. “Sono una centralinista. Come si chiama?”
“Giffuri, Giffuri Norberto.” (Bond, James Bond)
“Buongiorno signor Norberto, ha chiamato per fare una domanda al nostro avvocato?”
“Ehm, sì certo, naturalmente.”
“La diretta con l’avvocato inizierà fra trenta minuti circa. Nel frattempo mi può riassumere brevemente cosa ha intenzione di chiedere? Valuteremo la sua domanda e se sarà scelto la richiameremo a breve.”
“Bene, guardi, è una questione di diritto informatico. Sono il titolare di un esercizio commerciale, una tavola calda di fronte ad una università, e vorrei fornire il servizio di navigazione internet wi-fi a tutti i miei clienti. Mi sono informato e mi hanno riferito che non in Italia non è possibile fornire un servizio di questo tipo in quanto se un utente dovesse usare la connessione internet a scopo fraudolento sarei io ad essere perseguibile legalmente. Vorrei chiedere all’avvocato se questo corrisponde a verità e come posso fare altrimenti.”
“Ok, grazie, si tratta di una iniziativa lodevole e la ritengo una domanda interessante. Se sarà selezionato la richiameremo fra pochi minuti.”
“Grazie allora.”
“Grazie a lei, arrivederci.”
(continua...)

martedì 13 ottobre 2009

Ingenui profeti del nulla?

Luigi Sampietro, critico letterario de "Il Sole 24 Ore", il 13 settembre scriveva un articolo in cui cercava (per l'ennesima volta) di smitizzare gli idoli della cultura beat. Nello specifico:

"Ma mentre in America i beat sono passati e tornati di moda più di una volta, in Italia si direbbe che si sono italianizzati. [...]Classici senza esserlo per niente. [...]Nel rivolgere un rispettoso pensiero al ricordo della Nanda Pivano che il loro mito ha mantenuto in vita con il proprio respiro, ci permettiamo di dire [...] che è venuto il momento di tornare a leggere i poeti veri."

Come diceva mia nonna, colonna del Marcantonio Colonna (storico liceo di Roma, era una professoressa di lettere), anche lei scomparsa nell'anno della Pivano: apriti cielo. La settimana seguente un lettore interessato protesta e chiede conto di codeste affermazioni.
Qui riportiamo la polemica che ci ricorda tanto le belle querelle di una volta tra Neoclassici e Romantici, Impressionisti e Modernisti, Riveristi e Mazzolisti.


Caro Sampietro, confesso di essere rimasto molto stupito nel leggere il suo articolo Crepuscolo degli idoli, per diversi motivi. Intanto perché sostiene che i poeti e gli scrittori beat siano trattati come dei classici in Italia, ma io la sfido a trovare dei licei il cui programma di letteratura preveda il loro studio, così come sono pochissimi i corsi universitari nelle Facoltà italiane di Lettere ad interessarsene. Un secondo motivo che mi lascia perplesso è la mancanza di argomentazione ad accompagnare le sue affermazioni quando scrive che sono sopravvalutati e che bisognerebbe tornare ai “veri” poeti. E chi sarebbero i veri poeti? Che cosa li rende tali?
Io credo che la poesia si fondi sulla ricerca della bellezza nelle sue forme più diverse e credo che la poesia beat (e la scrittura beat in generale) sia stata prodotta da persone animate da questo spirito, seppur con mezzi molto lontani dall’abusato lirismo nostrano.
Sono convinto che la grandezza di quegli uomini sia stata proprio il cercare la bellezza per strade lontane da quelle normalmente battute dai “classici” poeti. Hanno avuto il coraggio di uscire dai percorsi panoramici della lirica e di avventurarsi “in strade di negri all’alba in cerca di droga rabbiosa”, a raccontare vite sull’orlo del baratro e a estrarne la bellezza della disperazione. Ci hanno insegnato che la letteratura non è solo il viaggio mentale di un intellettuale inetto e stereotipato ma che la scrittura può nascere sulla strada, ed essere ugualmente bella.
Certo, sono d’accordo che la loro vita in ultima istanza è stata un vicolo cieco, un percorso impossibile da continuare al di fuori del loro contesto, se non pagando il prezzo del ridicolo. Ma questo non vuol dire che la loro opera esplorativa sia stata inutile e sopravvalutata; al contrario la loro opera è forse, almeno dal mio punto di vista, la massima espressione letteraria di quella precisa epoca e di quel luogo che era l’America di allora. Grazie. (Giovanni Scavino)


* * *


A mio parere, caro signor Savino, il suo stupore è la prova indiretta che i nostri beat, in prosa e in versi, sono stati imbullonati a un basamento in pietra, neanche si trattasse di tanti piccoli Garibaldi a cavallo. Sono stati importanti, come no? Ma non è parlarne male se dico che non sono granchè come scrittori. Sono stati oggetto di periodici revival in tutto il mondo, ma da noi, come ho scritto, sono diventati “di ruolo”. […] Il fatto è che quando si nomina la poesia americana, sembra quasi che non ci sia altro. O che, comunque, si tratti di giganti. E così non è.
I beat hanno aperto la strada a un cambiamento epocale nella storia del costume, e sono un “mito”, sissignore, ma non sono un mito letterario, anche se i giornali hanno continuato a parlarne come fossero dei classici. Lei, caro Savino, mi chiede giustamente quali sono i poeti americani che sarebbe stato meglio leggere. Al loro livello, millanta che tutta la notte canta. Meglio di loro, per limitarci ai coetanei, ne cito solo quattro: Elizabeth Bishop, Robert Lowell, Richard Wilbur e A. R. Ammons. Non ho lo spazio per dire perché lo siano, e me ne scuso, ma la invito a riflettere sul fatto che due giganti fuori discussione come W. H. Auden e Robert Frost siano, da noi, di gran lunga meno noti dei signori beat.
Non bisogna confondere la bravura, che è un fatto tecnico, con l’importanza di uno scrittore.
I beat hanno segnato un’epoca, così come da noi, tanto tempo fa, il sullodato Garibaldi e il suo di lei quasi concittadino Silvio Pellico. Ma per l’uno e per l’altro – il Garibaldi autore di un romanzo-strazio come Clelia e il Pellico della Francesca da Rimini (un drammone che è comunque assai meglio dell’opera del Generale) – non è detto che si debba trovare il tempo per leggerli. L’importanza di quei due signori esula dalla letteratura.
Ora, lasciando da parte la letteratura (che è il loro punto debole), penso che i beat siano stati oltretutto dei cattivi maestri: non nel senso in cui lo sono grandi artisti come Neruda (stalinista), Pound (fascista) o Céline (antisemita), ma perché furono gli ingenui profeti del nulla. Kerouac si mise sulla strada, come un picaro, alla ricerca di sensazioni; e Ginsberg, con la scusa che il mondo era “fuori di sesto”, cominciò col tessere l’elogio della follia – quella vera – per passare più tardi a sostenere altre forme (stupefacenti) di “beatitudine”.
L’uno e l’altro indicarono nella trasgressione la via maestra verso la libertà assoluta – qui e anche altrove, nel mondo e nel cosmo – e sono stati, proprio per questo, cattivi maestri. Perpetui adolescenti. La trasgressione eretta a modus vivendi altro non è, infatti, che una forma di dipendenza da un’autorità – un ostacolo, un muro – cui appoggiarsi per reggersi in piedi. Altra cosa è la libertà, che non è mai tale se non è concepita come pura e semplice responsabilità.
(Luigi Sampietro)

Foto: "Ode to Jack Kerouac" trovata su Flickr. ©
Olivander.

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