Il giudice sul mulo Periodico perenne di linguaggi letterari.

venerdì 20 novembre 2009

Nick Hornby - Tutta un'altra musica

di Ezechiele Lupo


«Bob Dylan meriterebbe il Nobel per la letteratura: inizio una campagna stasera». Parte forte Nick Hornby, imprimendo il suo stile alto/basso, ironico, distaccato e profondamente umano alla presentazione del'ultimo libro, Tutta un’altra musica (titolo originale Juliet, Naked), edito come sempre da Guanda.

La provocazione, che poi tanto provocazione non è, definisce il mondo poetico di Hornby per cui «everything is culture, tutto è cultura, perché prodotto dalla nostra società». Un universo fatto di calcio e Dickens, caposaldo per lo scrittore di North London, di musica e arte contemporanea, di pub traboccanti di birra e redazioni di importanti riviste letterarie (da McSweeney’s di Dave Eggers al New Yorker) dalle quali passa la letteratura anglosassone che conta.

A quindici anni dall’uscita di High Fidelity, il suo più grande successo commerciale, Tutta un’altra musica, vuole dare un taglio alle ossessioni che ti possono rovinare la vita. Duncan e Annie, i protagonisti del romanzo, vivono insieme da quindici anni (parallelismo interessante) una relazione insoddisfacente. Ad aggravare le cose Duncan condivide con pochi adepti, iscritti ad un forum su internet, l’ossessione incontrollabile per la vita e l’opera di un cantautore americano scomparso dalla scena molti anni prima: Tucker Crowe. Questa mania lo risucchia totalmente e costituirà l’espediente narrativo, nonché il motore dell’intreccio. Se i personaggi dei romanzi precedenti, dal narratore/autore tifosissimo dell’Arsenal di Febbre a 90°, al misantropo e anaffettivo Will di About a boy, passando per Rob di Alta Fedeltà, “sfigato” e snob collezionista di musica, erano schiavi delle proprie fissazioni, Duncan di Tutta un’altra musica scoprirà che la vita è ben altro.

Prendendo in prestito una felice definizione di Michele Serra, i personaggi di Hornby sono tutti “adulti, normotipi, democratici e occidentali”, e per questo impastati nella contemporaneità, come il loro creatore: «Non credo agli scrittori della mia generazione che rivendicano come unica fonte di ispirazione la letteratura: io sono nato nel ’57, sono cresciuto con la tv, la musica dei Beatles, le riviste, i fumetti. Questo libro ha una duplice matrice: un’intervista a Sly Stone (musicista scomparso per anni) apparsa su Vanity Fair, e il caso di J. D. Salinger, vittima della paradossale condanna alla presenza pur nell’assenza». Ancora cultura alta e pop che si amalgamano perfettamente in un impasto che coinvolge il lettore. «Io ho la fortuna di vedere le cose da due punti di vista, quello dell’artista e quello del fan: ho grandi passioni che vivo senza guardare nulla dall’alto. L’intellettuale più importante in Europa secondo me è Arsene Wenger (allenatore dell’Arsenal, squadra di cui Hornby è tifoso, ndr) – dice scherzando, ma non troppo – certo poi c’è John Carey, il miglior critico d’arte vivente sul suolo inglese, che ha scritto un libro sul significato dell’arte, in cui ne decostruisce tutti i canoni (What Good Are The Arts?). Ecco per me la cultura è quello che ognuno di noi reputa cultura». Tutto molto bello e democratico ma poi, per fortuna, le sue recensioni sono imbevute di critica letteraria finissima.

Sembra proprio che Nick Hornby incarni quel punto di saldatura tra pop ed elite colta, da non confondere con la mediocrità del pastone pseudo culturale, in cui spesso siamo immersi. C’è la sensazione che la forza espressiva dello scrittore calciofilo, stia nell’aver ben chiara la differenza tra pop e trash, tra stucchevole accademismo e critica consapevole; nel saper dosare amore e odio per la realtà contemporanea, con un’umana ed ironica indulgenza verso le irrisolutezze del pensiero (debole, anzi debolissimo) del suo lettore. Una visione che si colora di compiaciuta malinconia: «del resto scrivere un libro è una buona scusa per essere depressi».
Foto: Nick Hornby, uno a cui picciono i Royksopp.