Il giudice sul mulo Periodico perenne di linguaggi letterari.

sabato 28 giugno 2008

Chitarra e coniglio

di Ezechiele Lupo

Me ne stavo lì
Seduto per terra
Suonando la chitarra
Per il mio coniglio

Suonavo un mi
In un clima da serra
Lui saltava e annusava
Curioso ma assonnato

Eccolo che si sdraia
Si rinfresca sul marmo fresco
Gli piace quando suono
La mia chitarra nera

Mi guarda rilassato
A volte sorpreso
Mai infastidito
Un piacere per me e per lui.

giovedì 19 giugno 2008

Ora, qui

di Asincheraglia

La grande sera giunse dopo una notte particolarmente poetica, fra letture a la page, luci che rimbombano nel buio della stanza, bottiglie verdi sparse, sguardi gettati oltre la finestra, verso nuvole nere, autentiche bende di una primavera profeticamente riottosa a concedersi.
Il giorno era stato perplesso e Ludvig, senziente allora più di altre volte, aveva osservato con grande ostinazione il cielo apparentemente in bilico. Il grigio si macchiava di luce per poi incupirsi senza pudore.
Una telefonata rapida e schiva lo avvertì che lei lo aspettava alle 22.00 per una lunga passeggiata verso casa. Decise di andare. Chiusa la porta, e apprezzando il vento dalla temperatura inedita, giunse a due conclusioni. La prima era che, decisamente, mancava di forma. Un autentico guaio. Se n’era accorto in precedenza, scambiando brevi battute con l’uomo del latte.
“Intero o parzialmente scremato?”
“Intero…anzi no” rispose.
“Non ho capito, intero?”
“No” pensò, “Si!” disse.
Tutta colpa di una sorta di fastidiosa corrente elettrica pietrificante. Prima morde il diaframma. Poi, consumato il centro del corpo, diffonde come una macchia tossica la stanchezza più profonda, l’accidia meno dignitosa. Così, giunse alla seconda conclusione: per evadere dalla corrente avrebbe dovuto compiere un gesto simbolico, eclatante, catartico. Preso il telefono cellulare dalla tasca, iniziò a scorrere vorticosamente e a caso la rubrica. Bloccò il dito. Prof. Ajello.
“Pronto?..chi parla?..”. Silenzio. Seguì un altro “pronto” decisamente irritato.
“Ehm…sono Ludvig, III D, anni fa…”
“Cosa? Al telefono si favella, non si bisbiglia!”
“Eh eh..” la risata , che intendeva apparire cortese, schizzò come un rantolo asmatico.
“E’ uno scherzo? Sta cercando di farmi eccitare?
“No no, per carità. Sono…si ricorda la scuola? III D…tempo fa…”
“Non la sento, parli più forte, per dio!”
Eppure, Ludvig interruppe la chiamata illudendosi di aver conquistato un granello di “forma” in più.
Dopo diversi metri rigidi, accompagnati da inquietudini a piacere, lei apparve seduta sul muretto, in una delle più tipiche e affascinanti posture. Ben presto la conversazione si gonfiò d’aria – a tratti tiepida – e qualche vortice stonato giungeva direttamente dalla scarsa “forma” di Ludvig. Egli temeva che, quella sera, le sue importantissime elucubrazioni sarebbero, irrimediabilmente, rimaste ancorate alla geografia, al meteo, alla gastronomia. Temi poco efficienti se, seppur sotto innumerevoli strati di finta e tragica sufficienza, si anela la possibilità di una conoscenza, se non nitidamente biblica, quantomeno apocrifa.
A pochi passi dal portone di casa, nel corso inquinato da qualche tardivo locale, lei decise che era ora di sciogliere l’ambiguità. Lui, impreparato, senza individuare solidi legami con i temi fino ad allora condivisi, rimase senza respiro. Per Ludvig l’ambiguità era quella coperta che gli copriva la testa da piccolo, in mattinata, quando le finestre si aprivano e fra il sonno e la veglia, fra gli imperativi di alzarsi e la sua sonnecchiosa recita nascosta, rimaneva sospeso con un occhio fuori e uno sotto il lenzuolo. Nell’ambiguità valevano le sue regole, poteva essere sincero nella menzogna e mentire nella verità. Soprattutto poteva fuggire, illudendosi di non essere visto, rimanendo puro, senza peccato. Libero.
“Dovremmo, prima o poi, parlare di noi.” Affermò lei con tono sicuro. Le labbra si dischiudevano con bellezza navigata. Era evidente che il coraggio fosse tale perché stava affrontando, in quell’esatto momento, l’infantile pudicizia dei rapporti umani. Frase dopo frase la timidezza veniva umiliata, in un conflitto che, in ogni caso, l’avrebbe vista trionfare. Ma il contenuto di quella raffica sommessa, per Ludvig, fu arcano e amaro. In fondo, il coraggio non rende meno scivolosi i sentimenti. “Tu credi che io sia misteriosa. Non è così. Io faccio ciò che voglio e cerco di essere chiara. Mi piace cogliere i momenti, ma non mi piace vivere gli attimi - (Qui Ludvig notò una impercettibile contraddizione) - ecco se tu domani non volessi più sentirmi lo capirei”. (“Cosa?” urlò a mente). Il silenzio lasciò decantare le apparenti antinomie. Lei aveva indubbiamente e inaspettatamente lanciato un chiaroscuro messaggio.
Ludvig fu sorpreso da tanto coraggio. Decise, dunque, di onorarlo con parole almeno sincere. Si meravigliò nel sentirsi pronunciare vocaboli validi e temerari, come se verità, intelligenza e coraggio fossero dettagli chimici partecipi e dimentichi di un unico composto organico.
“Curiosità”, nel senso più ampio e puro, fu la parola chiave. Nel contempo, la notte dissolse le ultime anime sparpagliate nella via. La solitudine fu accolta da muti ed eloquenti sguardi. Ludvig abbozzò un’introduzione verbosa. Poi tacque, silenziato da lei, e la baciò.
Il suono del vento, e lontane note mozartiane da qualche finestra, e gli occhi dolenti sbarrati, e il portone come sfondo, i colori, aprirono una fessura olistica. Sollievo. Rimase ancora lì, senza avere la minima idea di quale forza stesse muovendo i pensieri di lei. E poi, che qualità di pensieri. Rimasero in due, finalmente privi di fede, per un attimo privi di aspirazioni. Teneramente umani, umidi, con delle note soffuse in tasca. Irriducibili e lontani.
Il caos – pensò Ludvig a memoria – è la sola partitura su cui è scritta la realtà.

sabato 14 giugno 2008

La leggenda del deus ex machina

di Milady

Si narra che ogni uomo abbia diritto una volta nella vita a un consiglio dall’alto. Per l’eccezione che conferma la leggenda ecco la storia di un uomo che di consigli ne ebbe due.
Nella Sparta senza fronzoli di Licurgo viveva un giovane calzolaio di nome Polistrate.
Faceva il suo lavoro con passione, sfornava sandali che erano una meraviglia, non seguiva la moda, la creava. Probabilmente i suoi calzari non piacevano a Cupido, che un bel giorno decise di farlo innamorare della bella Crisalide. “Bella? Superlativa, magnifica, divina irrangiungibile, maestosa!” Così Polistrate gridava a tutti quelli che citavano la sua amata come “la bella Crisalide”. Perse molti clienti in quel periodo e si beccò anche un paio di denunce per aggressione verbale ingiustificata. Passava il suo tempo a disegnare cuori rosso porpora su tutto quello che gli capitava, le mandava lunghe lettere melense: fu il primo ed ultimo Spartano ad usare la rima cuore amore otto volte nella stessa frase, ma Lei non lo degnava di uno sguardo. Intanto i mesi passavano, la cotta no. Un bel giorno mentre camminava per le vie del mercato planò davanti a lui con grazia un bimbetto riccioluto che gli disse candido: “hai provato con le rose? le donne le adorano.” Detto questo gli strizzò l’occhio, si tuffò in un cespuglio di acanto e sparì. Il nostro eroe partì di corsa verso il fiorista. “Rose! rose!! rose!! presto me ne dia dodici, anzi no trenta, anzi tutte quelle che ha...”, “eh giovanotto, coi tempi che corrono...” rispose l’anziano fiorista senza staccare gli occhi dalla pergamena che stava leggendo, “vedi io le rose te le darei volentieri ma Licurgo la settimana scorsa le ha bandite. Posso farti un bel bouquet di cardi e felci di montagna se vuoi”. Ma Polistrate stava già correndo verso le porte della città. Corse e corse senza fermarsi fino ad Atene, alla volta della bottega Pollice Verde. “Rose, rose!” gridò una volta giunto lì col poco fiato che gli restava. Un commesso dall’aria untuosa gli mise una mano sulla spalla: “Niente rose purtroppo. La siccità ha fatto fuori il raccolto. Ultimamente vanno molto i cactus, anzi oserei dire che il cactus è la nuova rosa. Mai sentito il proverbio: non c’è cactus senza spine?” Il povero calzolaio disperato stava già seriamente pensando di comprare un cactus quand’ecco che dal camino planò con grazia il solito putto boccoloso che lo apostrofò scocciato: “Non pensarci neanche. Ho detto rose!” e si tuffò in un vaso d’edera.
Polistrate battè tutta la città palmo a palmo ma di quei maledetti fiori nemmeno l’ombra. Sfinito entrò in un teatro. Erano in corso le prove di “Tempesta di passioni” commedia musicale del grande regista Euripilo. Il maestro, noto in tutta la Grecia per il suo genio e in tutto il mediterraneo per i suoi nervi instabili, stava appunto dando prova della nevrosi artistica che lo contraddistingueva. “Un disastro! un artista del mio rango costretto a lavorare con incompetenti!” gemeva aggirandosi freneticamente per il palco tra attori e assistenti, “questa scena finale è un insulto alle muse, agli dei, alle parche!” Lo sforzo dei presenti di non fargli notare che il finale l’aveva scritto lui come tutto il resto della commedia era enorme. Un particolare catturò l’attenzione di Polistrate: un vaso di rose campeggiava a latere del sipario. Approfittando della confusione generale si avvicinò con cautela senza farsi vedere, ma proprio mentre tendeva il braccio per afferrare il prezioso bouquet, Euripilo si accorse della sua presenza. “Fermo lì! chi diavolo sei? chiamate la sicurezza!” “Signore mi lasci spiegare... ho bisogno delle rose...” supplicò il giovane. Euripilo lo guardò con diffidenza “Rose? vuoi dirmi che non sei un fan?” “Beh veramente no...” “Non sei qui per un autografo? Un bassorilievo di me con in braccio uno dei tuoi nipotini? Una mia ciocca di capelli da tenere come reliquia in soggiorno?” “No..” “Ottimo”, dichiarò il maestro “odio i fan, odio i nipotini e sono molto geloso della mia chioma. Dimmi quindi cosa vuoi per la grazia di Bacco e levati dai piedi”
Polistrate cominciò il racconto: “Un dio o qualcosa del genere è sceso dall’alto e mi ha consigliato di regalare delle rose alla donna che amo...” ma già Euripilo non lo ascoltava più “Un dio che scende dall’alto... geniale! geniale! questo è il finale adatto! un dio che scende dall’alto e dice al protagonista cosa fare. Non so come ho fatto a non pensarci. Giovanotto” eclamò rivolgendosi al calzolaio “tu hai delle doti e io farò di te una star!”
Quando ormai la tiepida primavera lasciava posto all’estate, Atene si affollava di gente da ogni provincia della Grecia per la prima di “Olio profumato per capelli”, la nuova commedia musicale firmata Euripilo. Musiche frizzanti, cast d’eccezione e come aiuto regista il nostro Polistrate. Il grande giorno dopo aver debitamente sedato il maestro in preda a quella che si dice in gergo tecnico “isteria registica da prima assoluta”, l’ex calzolaio si godeva lo spettacolo da uno sgabello di fianco al palco. E mentre il coro cantava “era estate fuori cittàààà, era estate un attimo faaaaa...” vide in terza fila Crisalide che gli sorrideva agitando un fazzolettino bianco.
Se giudicate troppo frivola questa fiaba siete autorizzati ad aggiungerci un’epidemia di peste, un lazzaretto e una bella squadra di turpi monatti.
Se state pensando che Crisalide era in fondo una sciocca superficiale per essersi accorta di Polistrate solo a successo raggiunto, posso dirvi che comunque lui l’ha lasciata dopo una settimana.
Se invece volete una morale potrebbe essere questa: mai regalare cactus alla propria amata. Con o senza spine.

venerdì 6 giugno 2008

Coldplay

di Ezechiele Lupo

Se mi vuoi, perché mi lasci andare
Se mi vuoi, perché mi lasci andare
Se mi vuoi, perché mi lasci andare

Se mi vuoi, perché mi lasci andare

Attraverso i campi del passato
Rifuggo complessi edipici
Più grandi di me
E tutto contribuisce alla somma di un carattere

Se mi vuoi, perché mi lasci andare

L’ultimo ricordo non può essere sangue sul lenzuolo
Dalla tua parola spesso nasce un ragionamento umano
La mia freddezza ti insulta
Forse più di una sprezzante manata sul naso
(Bada bene: una bella mano fa comunque male)

Se mi vuoi, perché mi lasci andare
Se mi vuoi, perché mi lasci andare

Sono interrotto dall’ignoranza
Interdetto nel non detto
Irrequieto tre le mie due facciate popolare e borghese
Imperfetto per te: amavi, sognavi, partivi…

No dai, freddo no.

Se mi vuoi, perché mi lasci andare
Se mi vuoi, perché mi lasci andare
Se mi vuoi, perché mi lasci andare.