Il giudice sul mulo Periodico perenne di linguaggi letterari.

mercoledì 24 dicembre 2008

Tre libri: tre regali in tre minuti


Boris Vian – La schiuma dei giorni

di Norberto Giffuri

Vian, scrittore e musicista francese vicino all'Esistenzialismo e alla letteratura matematica di Raymond Queneau, racconta una storia d'amore con leggerezza, purezza e una pennellata di surrealismo.
Il risultato è una fiaba moderna atipica e avvincente. Vian, tra un'invenzione e l'altra, trova anche il modo di collocare una forte denuncia al conformismo della società francese del secondo dopoguerra.
Un'apologia della fantasia: dopo l'ecatombe la letteratura veste ali di farfalla.

Boris Vian, La schiuma dei giorni, Marcos y Marcos, Milano, 2005, pp. 268, euro 13,50.

* * *

Luciano Bianciardi – Non leggete i libri, fateveli raccontare

di Ezechiele Lupo

Nel 1967 Luciano Bianciardi, grossetano trapiantato nella grande Milano degli anni ‘50, intellettuale contro, quasi animalesco, ma dotato di sapida ironia e sensibilità leggera, pubblica in sei puntate sulla rivista ‹‹ABC›› un pamphlet oggi riproposto dalla piccola casa di saggistica Nuovi Equilibri, all’interno della collana Eretica. In Non leggete i libri, fateveli raccontare – Sei lezioni per diventare un intellettuale dedicate in particolare ai giovani privi di talento il Bianciardi introduce il lettore nell’ambiente culturale, che egli stesso ha sempre disprezzato e trattato con quell’ironia della tristezza, dell’insoddisfazione, del “complessato”, del diverso, fino a morirne. Un manuale che insegna a vivere “come un intellettuale”, che mette sullo stesso piano l’allevamento di pollame e il mestiere dello scrittore, abbassando volontariamente con rabbia, rassegnazione e sferzante satira nera, il grottesco mondo della cultura che si compiace del proprio elitarismo, e che espone come Venerdì civilizzato il metalmeccanico con l’‹‹Unità›› in tasca. Lo stesso mondo intellettuale che Bianciardi ha rifiutato per debolezza e fragilità mentale: ribellandosi col sarcasmo del cinico e l’irruenza irrazionale del bambino. L’intellettuale è un gattino da salotto, o una bestia selvaggia da cui la civiltà fugge? Bianciardi, con una delle sue più belle immagini, protestava terribilmente: ‹‹Ma che succede? Più mi ribello e meglio vengo accettato nei salotti: come una specie di tigre da esibire.››

Luciano Bianciardi, Non leggete i libri, fateveli raccontare, Nuovi Equilibri, Viterbo, 2008, pp. 93, euro 9,00.

* * *


La morte dell’autore: Suicide di Edouard Levè

di R. Castoro

Magari infiocchettatelo per il vostro peggior nemico, ma non perdete l’occasione di far leggere Suicide di Edouard Levè a qualche persona, rivale o meno, che sapete essere in grado di pensare e sentire. Dopo aver consegnato il manoscritto al suo editore, Edouard Leve – narratore e fotografo francese di 43 anni quasi ignorato in Italia, oggi riscoperto da Bompiani con la traduzione di Sergio Claudio Perroni – si toglie la vita. Il testo, partendo dalla morte auto inferta di un amico, svolge la memoria dell’autore, imprimendo un taglio da istantanea a ricordi che modellano una vera e propria genealogia della vita. Della vita, appunto, e non della morte, come spesso accade per la letteratura che parla di fine, di male d’essere, di paura, di, in fondo, stati d’animo che cercano una giustificazione. In un unico respiro, senza interruzioni, la narrazione si ferma a tracciare episodi ed idee del suicida, in un incalzante climax ondulato, che passa da momenti cronachistici a sottili indagini psicologiche, fino ad una raccolta di terzine che racchiudono il solipsistico ed egocentrico caos vitale in cui si perdono, insieme, protagonista ed autore. “La tua morte è stata la morte della vita. Eppure mi piace credere che tu incarni il contrario, la vita della morte. Non so sotto quale specie tu sopravviva al tuo suicido, ma la tua scomparsa è tanto inaccettabile da generare questa follia: credere nella tua eternità.”

Edouard Leve, Suicidio, Bompiani, Milano, 2008, pp. 120, euro 14,00.

domenica 21 dicembre 2008

Nascita

di Victor Attilio Campagna

Placida onda, 

vizi il mare.

Non con sciabordare
ma col passare
inerpichi te
sulle scogliere
ed è qui che il sole
batte come vento.

È fuoco che arde
sulla pietra – il resto
tace – 
è una lotta
sulla terra:
nudi sulla nudità;
bagnati dall’estasi
delle mani.
Ve ne state avvinghiati,
acqua e fuoco;
il giudice inerte
osserva,
con la solita freddezza invita
le mandrie respirate
a staccarsi
solo per riprendere
ancora.

Da pubblico 
la sabbia,
l’amica sabbia,
che tanto l’acque ama,
e il vento,
che tace 
quando il sole passa.

Il fiato da ultimo
annoiato 
siede sul pietrisco;

in un catino si raduna 
il loro sudore,
biancastro e schiumoso;
“la nudità eccita
urla e si dibatte,
cade e salta,
non ferma in lode s’avvicina.”
Così urlano, così
pensano.
I giorni passano,
ma la nuda lotta 
imperterrita
spare e compare,
continua,
invano il tempo s’avvicina
a sussurrare:
“Ferma, è Luna!”

Perché fuoco e acqua 
già giacciono stanchi 
sulla terra spoglia,
spogli anche loro:
sono veri;
le loro cosce
infinite,
(il suo seno limpido,
la sua bocca carnosa,
il suo sorriso d’altura,
la sua mano pesante):
sono nudi,
uomo e donna,
donna e uomo,
coscienti della loro stanchezza,
in mano 
hanno unito il seme.

Nacque solo un viso:
nacque quel che si dice 
Afrodite
dalla spuma dell’acqua
e dalle mani del sole;

già nata 
sapeva dell’Amore.

(innato l’istinto 
maturava una carezza).

venerdì 12 dicembre 2008

No - ultima parte

di Asincheraglia

Turchia, Iran, Afghanistan, Pakistan, Nepal. Per lui, quel viaggio, era durato due anni e due mesi. Ora restava solo una foto sorridente, occhi piccoli, sbarbato, con la nonna e Jano, il cane pastore di campagna. Negli anni ’70 quello non era un itinerario, ma un percorso esistenziale, una ricerca vera e propria. Si chiama rotta Hippie, e lo zio Alberto l’aveva descritta minuziosamente in un diario custodito dalla nonna. Prima, in famiglia, aveva ingenerato imbarazzo – più o meno come quell’avo ottocentesco, deputato del Regno, sfuggito spregevolmente a un duello perché autore della precoce deflorazione della bella baronessa Lupo – poi l’impresa era stata coperta da un’aura mitologica, perché, in fondo, è più piacevole ostentare che glissare. E così, codardi antenati fedifraghi e zii irrequieti morti di lsd, rientravano in uno speciale pantheon familistico dall’eccezionale indulgenza. Due anni e due mesi “per riscoprire, oltre la banalità della perifrasi, ciò che sono, ciò che voglio” recitava il diario dello zio Alberto. A Michele erano stati concessi cinque giorni. E adesso li distingueva uno per uno e ne coglieva il senso. In ospedale, il medico abbronzato avrebbe potuto operarlo anche il mattino seguente. Forse sarebbe stato meglio. Minuto dopo minuto, ogni sospiro in più non sarebbe stato seguito da uno di sollievo. Ma, umanamente, un interstizio cronologico per accomodare quello che puoi o vuoi o devi, è necessario. Per riordinare le idee, per farle ordinare, soprattutto, a chi ti ha visto e non solo rischia, come te, di non vederti più, ma dovrà perfino sopravvivere agli eventi.
Istanbul, Teheran, Kabul, Islamabad, Kathmandu. Tutto il tempo e tutto lo spazio per comprendere. E, se proprio non ci arrivi, l’appercezione traghettata dalle droghe. Michele, per trovare se stesso, fece il giro dell’isolato. In due ore e due minuti. Per aiutarsi, bevve mezza Coca Cola.
Le scuole elementari, il nido, il liceo che già dall’anno dopo la sua dipartita era stato abbandonato per un nuovo ma sempre fatiscente edificio. Macerie della memoria che non evocavano nulla o quasi. Una certa tristezza, subito travolta dall’angoscia pulsante nelle orecchie. Avvertì, allora, una nostalgia più forte, che aveva a che fare col futuro. Quella dei ricordi possibili e potenziali, dei ricordi in cantiere data l’assenza di esperienze sufficienti. Pensò che sarebbe stato piacevole, alla fine, trovare un filo conduttore, una sorta di telaio di cotone in grado di legare tutti gli eventi di una vita. Per questo valeva la pena andare oltre i 25 anni, e per poco altro. Perché quella domanda se l’era posta senza riuscire a concepire risposte risolutive. In effetti, non esiste alcun valido motivo per vivere. Solo una gamma di voglie, capricci, aspirazioni, tutte volubili e momentanee. E il dispiacere montava perché, del resto, non esiste neppure alcun valido motivo per morire. Il pensiero, relegando gli acquerelli del passato sullo sfondo, si ostinava a sbrigliare le immagini della vacanza da poco trascorsa. Le lunghe spiagge, la biblica sensazione di camminare fino al largo, la guida astratta e sicura dell’ amico. Il “no” di quella ragazza, che avrebbe amato volentieri – ecco un altro legittimo motivo per scommettere sul chirurgo abbronzato – con l’amore denso di quella canzone che faceva “Quando in anticipo sul tuo stupore verranno a chiederti del nostro amore, tu regalagli un trucco che con me non portavi e loro si stupiranno che tu non mi bastavi. I tuoi occhi troppo stanchi per non vergognarsi di confessarlo nei miei proprio identici ai tuoi, sono riusciti a cambiarci ci son riusciti lo sai.”

In fondo, “no” era la sua parola preferita. Grazie al rigore di quelli che come lui ritenevano che prima di tutto e di qualsiasi altra parola importante, bisogna dire “no” a tutto ciò che lo merita, aveva sentito vibrare il suo cuore in maniera strana. Il giorno dell’operazione non era affatto riposato. Gli spiacque cedere all’anestesia perché sentiva che gli sarebbe bastato solo qualche secondo in più per capire quello che aveva sempre saputo. Prima le mani ronzano, i pensieri si muovono, il cuore batte. Poi, in un istante

Fine

mercoledì 10 dicembre 2008

No - prima parte

di Asincheraglia

Con la testa reclinata ed un occhio chiuso, osservava catatonico il triangolo disegnato dal finestrino dell’auto insieme ad un segmento della carlinga. Sulla sinistra, la guida sicura ed astratta dell’amico. A destra, l’asfalto e la dinamica banda ingrigita ma baluginante nel buio illuminato della sera. Nel cuore marciva un dolore sordo.
La sua risposta era stata, elise facili sofisticherie, “no” e nella notte, quando i pensieri sono tiranni, immaginava la sua vita disposta su una tela pronta per essere colpita al centro.
Sogni pieni di fragilità – le zampe di un cavallo, l’esistenza di un insetto, la durata di una pozzanghera in estate – crescevano come bolle, mentre nel cuore una coltre sempre più pesante si depositava polverosa.
Il mare, da quelle parti, asseconda la voglia di riposo assoluto. Nella sabbia che ti fa toccare fino al largo e nei massi artificiali disposti in acqua che ti impediscono di osservare l’orizzonte, Michele aveva trovato un appoggio sicuro. Nulla a che spartire con le onde siciliane, sempre agitate nel percuotere gli scogli. E poi gli abissi immediati e l’orizzonte così vicino. Insomma, aveva preso coraggio e per lei si era perfino confrontato con la bizzarra umanità che affolla le discoteche della riviera, quando oltre alla musica e al calore della moltitudine pressata, improvvisi ed ingiustificati getti di schiuma lubrificano gli incontri. Schiumaparty, dicono. Poi la notte aveva inghiottito tutto, i lampioni provvidenzialmente rotti tacevano, e l’olfatto godeva dello straordinario odore, diffuso dalle braccia di lei, dell’acqua dolce che lava l’acqua salata.
Ma la risposta era stata “no”, e allora i ricordi si macchiavano e si mescolavano, creando un pasticcio volontario nella memoria. Imbarazzato, ripensava alla sua reazione, tutto sommato dignitosa, nel momento in cui credeva che perfino le zanzare, sospese per ascoltare la conversazione, avessero intonato una risata collettiva di scherno.
“Ah..Beh, non ti biasimo. “No” è una parola importantissima, la più importante secondo Jose Saramago, autore che apprezzo particolarmente. Prima di tutto e di qualsiasi altra parola importante, secondo lui bisogna dire “no” a tutto ciò che lo merita.”
Ora la linea bianca della strada tornava più grande e luminosa, come se le pupille si fossero improvvisamente dilatate, e i pensieri ronzavano distanti come scacciati da una scossa elettrica. Ci vollero tre sospiri prima di capire che l’ossigeno sembrava bloccarsi all’altezza delle spalle. Una calma lugubre lo accompagnò per i minuti successivi, nei quali il ricordo di una corsa interrotta a metà, tempo prima, fu ricollegato ai medesimi sintomi. In più, allora, un formicolio diffuso gli aveva setacciato il corpo. Evidentemente, il suo cuore non era più abituato alle prove fisiche. Né a quelle emotive.

Dovrebbero educarti fin da bambino, pensò. Dalla scuola materna 5 ore settimanali di preparazione alla morte. Morirai. Tu morirai. Fino a quando il suono ferroso di quel sostantivo non diventi indifferente come quello di sedia o finestra o pane. Pane no. Sedia. Non poté fare a meno di sentirsi colpevole. In fondo, le religioni non sono che delle tecniche di allenamento. Le chiese delle palestre all’avanguardia, i preti dei personal trainer molto incompetenti come quasi tutti gli istruttori di ginnastica. E lui non aveva mai ascoltato per bene quelle parole e l’ultima volta che era entrato in chiesa era capitato quasi per sbaglio. Masticava pensieri e adrenalina salendo le scale del policlinico. Tutto orribilmente candido. La stanza del prof. puzzava di farmaci e il medico, abbronzato e alto, sembrava mortificare i pazienti con un’ipertrofica sicurezza salutista. Dalle orecchie pulsanti distinse delle battute cordiali. Il muscolo più importante della mia vita non funziona e lui scherza, pensò. Ogni cosa gli sembrava fuori luogo: lo stetoscopio gelato, tossire, ancora, le mani sulle spalle, la luce che disegnava i particolari del suo cuore, una sorta di Calcutta dal satellite, nera di smog e piena di arterie sovrapposte. La diagnosi, qualunque esse fosse, prevedeva l’operazione cinque giorni dopo, preferibilmente a stomaco vuoto.
“Il problema sarà riprendere a mangiare dopo questa notizia” sussurrò Michele.
“Onestamente, non avevo idea della gravità del caso. Il dott. Fazi mi aveva solo accennato. In occasioni simili bisogna considerarsi fortunati ad aver constatato per tempo la disfunzione. Da quest’ottica anche l’operazione diventa più accessibile.”
Ma l’ottica di Michele era crollata così in fondo che a stento riusciva a scorgere l’ovale del prof. Si resse al lettino. Era come se osservasse distintamente la forza del proprio corpo prendere forma e fuggire, dalle gambe, dalle braccia, dallo stomaco, fuggire, abbandonare la nave in naufragio.
“Io non do mai percentuali di riuscita, le statistiche in chirurgia hanno poco senso. In questi giorni si rilassi e cerchi di arrivare alla data dell’operazione riposato.”
Lentamente scese le scale mentre il Professore, sempre più alto e abbronzato, lo guardava appoggiato allo stipite della porta, con occhi di speranza che Michele faticava a comprendere.
Ora avrebbe incontrato i suoi genitori fermi in sala d’aspetto, che inquadrò da lontano senza essere visto. Parlottavano ignari. Sua madre era certa si trattasse di una sciocchezza. Suo padre aveva evitato giudizi. Un’allegra e vaga incuria fatalista era sempre stata la forza della loro famiglia. La superficialità necessaria per stare in superficie. Ma in quel momento, la serenità che, pur fra alti e bassi, li aveva accompagnati per i primi 25 anni di vita gli parve una bugia, per di più priva di valore.
(continua...)

venerdì 5 dicembre 2008

Contro il suicidio

di Ezechiele Lupo

Quando sull’apice una punta trafigge
La figura della gloria

Quando l’idea dello scopo diventa la fine,
Una figura della gloria

Quando il tutto riempie ogni cosa
E nulla si svuota di gloria

Quando l’ultima corda completa il cerchio
E il raggio si acquieta nella gloria

Quando l’arrivo non è una stazione,
Manca la vita. E della gloria?

Io sono quel pezzo infinitesimale di cuore
Che rimane nella bocca del suicida.

martedì 2 dicembre 2008

Destino.

di Norberto Giffuri

“ Hai presente Tom e Jerry? ”
“ Ti pare che non possa averli presenti?”
“ Infatti..hai avuto anche tu un'infanzia...non la si nega a nessuno.”
“ A qualcuno sì...”
“ Beh, sì.”

(silenzio)

“ Dicevo, Tom e Jerry. Non so esattamente quale puntata, ma una di quelle più vecchie...”
“ Quelle disegnate meglio? ”
“ Quelle disegnate meglio. ”
“ Finale...la governante nera e grassoccia rincasa...apre la porta e si mette le mani nei capelli...anzi, nella cuffietta gialla o bianca, non ricordo...comunque, immaginatela con le mani sopra la testa e la bocca aperta anzi apertissima..cos'ha visto? Un gran trambusto, sedie rovesciate, finestre spalancate, porte staccate dai cardini e...carbone. ”
“ Carbone? ”
“ Sì, carbone...non so come sia accaduto...non mi domandare le dinamiche...certo è stato un brutto tiro giocato da Jerry...la casa piena di carbone, ovunque...nero il pavimento, nere le tende, neri i mobili, nera la governante nera che si infuria si volta e chi vede? Tom...il colpevole...per lei, dico. ”
“ Ma di chi è la colpa? ”
“ Di Jerry...ma è stato provocato...e poi comunque, non è così scontato arrivare ad un giudizio...sai quel proverbio...se tiri una pietra in aria qualcuno colpevole lo colpisci di sicuro...”
“ Questo è puro relativismo culturale. E non lo apprezzo. ”
“ Direi di passare oltre allora. La serva negra strilla e si agita. Tom è terrorizzato, tiene la coda tra le gambe, le orecchie basse...indietreggia...poi comincia a correre, a predifiato, attraversando un verde prato che risale una collina...la serva raccoglie un pezzo di carbone e lo scaglia con le sue braccia nerborute...il lancio disegna un parabola nel cielo...Tom è oramai all'orizzonte..sembra fatta. Ma ecco il pezzo di carbone che piomba perfettamente a perpendicolo sulla testa di Tom...una traiettoria perfetta e zac, steso...caput. Sai dirmi cos'è quel nero pezzo di carbone? ”
“ No, cosa? ”
“ Te lo dico io. È il Destino. ”

sabato 29 novembre 2008

L'esercito della nebbia - ultima parte

di Guido Micheli
VII) Marco
Quando i membri dell’ Esercito della Nebbia ebbero saziato le loro voglie omicide, lasciarono il paese in silenzio portandosi via quello che più loro piaceva tenersi appresso: le vite di quante più anime sofferenti riuscissero a mietere. Camminavano avvolti dal manto grigio del furore assassino e scivolavano pigri in attesa di giungere a nuove fonti di soddisfazione omicida. Da quel giorno sul paese splendette spesso un caldo e simpatico sole, e la narcotica sensazione che regolava le vite di tutti si sciolse ai suoi tiepidi raggi.
Marco e la sua ultima ragazza si erano appena lasciati perché dopo tanti giorni d’amore qualcosa si era inceppato e né lei né lui erano in grado di oliare di nuovo gli arrugginiti ingranaggi del sentimento. Scese lentamente i larghi gradini che dalla piazza conducevano alla spiaggetta ghiaiosa. Si sedette sul ciglio della piattaforma di cemento, tanto bassa che quando l’acqua del Ramo si alzava la sommergeva del tutto. Si accese una sigaretta a gambe incrociate e osservò una papera che gli si avvicinava curiosa. Aveva la testa verde, il becco giallo, il piumaggio del corpo grigio e quello delle ali di un grigio più scuro, la coda era nera striata di bianco e attraverso l’acqua si osservavano nitide le zampe arancioni che sbattevano discrete, allegre e palmate.
“Ciao”, fece la papera quando gli fu di fronte, sbatacchiando comicamente il becco. In quel momento a Marco venne in mente che quella era una papera maschio. Un papero, dunque. Le papere femmine, infatti, sono marroncine e le si vede in primavera seguite da file ordinate di paperotti piccoli piccoli, tre quarti dei quali non diventeranno mai come la mamma: due quarti moriranno ghermiti da uccelli più grossi o in qualche altra maniera, il restate quarto… sono maschi. La natura vuole così.
“Ciao.” Rispose.
“Chi sei tu?” fece l’uccello lacustre curioso.
“Sono Marco.”
“Io sono un papero. Vorresti venire a fare un giro con me?”
“Mi piacerebbe, ma in acqua non ci posso entrare; fa troppo freddo per me.”
Il papero si fece un po’ triste
“Mi dispiace non poter condividere il mio mondo con te.”
“Dispiace anche a me”, rispose Marco sincero. Il papero sguazzò via.
Spenta la sigaretta si avviò verso la stazione e quando fu lì ne accese un’altra, in attesa del treno. Il mondo di Marco era, in quel momento, sconvolto e in conflitto. L’aria frizzante che lo circondava, quella stessa che lui respirava mischiandola ai veleni della nicotina, conduceva la sua lotta interiore in un delirio esistenziale, indecisa com’era se trasformarsi in primavera o mantenere la forma e i colori del clima invernale. Anche nella sua testa era in corso un conflitto, ché i pensieri che vi si annidavano a migliaia lottavano disperati, sgomenti perché prigionieri di una coltre di apatia che li teneva rinchiusi in celle sovraffollate e si rompevano i denti, pazzi, mordendo le sbarre neurotiche che intristivano le loro finestre, torturati dal fatto di poter vedere ciò che era fuori ma di non poterlo raggiungere. E una terza lotta era quella del suo cuore il quale, impazzito, aveva cancellato in un giorno dieci mesi di amore ed ora, stringendo in pugno un tubetto di Super Attak, tentava di rincollarne i cocci, sapendo che anche a rimettere insieme i pezzi, nulla sarebbe più stato perfetto. Tutto sarebbe apparso brutto, precario, incrinato.
Questo è il ritratto del mondo di Marco che, stringendo nel pugno un biglietto per chissà dove, si sedette in carrozza con le spalle rivolte al senso di marcia. Guardando dal finestrino vedeva le cose belle del mondo allontanarsi da lui, scappare veloci dalla sua impotenza di piccolo uomo che tutto vorrebbe afferrare, avido, e tutto vede sfuggire di mano. E le cose che scappavano da lui lo guardavano inespressive quasi a volergli dire che non è che sia giusta o sbagliata, bella o schifosa, questa realtà che ti tira di qua e che poi ti spinge indecisa dalla parte opposta. Non è giusta o sbagliata, bella o schifosa. È così e basta.
Ora sembra piena.
Ora sembra vuota.
Sa solo sembrare.
Fine

venerdì 28 novembre 2008

L'esercito della nebbia - terza parte

di Guido Micheli

V) Furio
Furio era appena uscito dalla casa di un suo vecchio amico dove lui e alcuni suoi compagni ultra quarantenni avevano tenuto una rimpatriata. Quella sera i fumi dei bonghi e degli spinelli avevano assunto l’aroma di vecchi sballi giovanili. Molti bicchieri erano stati svuotati, molte Rizla Argento avevano preso fuoco con quel particolare odore che tanto era loro caro, e Furio era uscito da quel devasto contento, felice della consapevolezza di potersi ancora permettere certi svaghi.
Stava tornando a casa sua camminando crasto per le vie del paese quando una Vespa bianca gli si avvicinò. A bordo del ciclomotore, che prese a viaggiare a passo d’uomo al suo fianco, c’era Cristorsi, uno degli uomini che più aveva contribuito a bruciar papelle durante quella serata affumicata. Cristorsi gli tirò un calcio in culo e si allontanò veloce mollando frizione e ruotando il polso destro. Furio prese a urlargli dietro, divertito e ilare, grazie agli sballi dell’ hashish, dandogli del pirata. Si rese conto di essere molto affascinato dal suono della parola “pirata”. Il suo amico mise la freccia e, voltando a destra, si dileguò nel buio. Successivamente un’automobile gli passò accanto e lui, dal marciapiede, non riuscì a trattenersi dal gridare: “Pirata!”.
La macchina si arrestò e ne scese lui, El Bucanero, con l’uncino al posto della mano sinistra, l’occhio bendato, la bottiglia di rum nella mano sana.
“Chi sarebbe il pirata?” chiese avvicinandosi minaccioso.
Furio era esterrefatto e lo sballo gli rendeva difficili i ragionamenti reattivi.
Ecco come divenne una delle tante vittime dell’Esercito della Nebbia
“Se non mi dai dei soldi ti stronco.” fece il pirata agitando minacciosamente l’uncino davanti al suo naso.
“Non ne ho di soldi.”
“Vediamo se con questo smetti di fare resistenza.”
Gli ficcò l’uncino sotto il mento e la punta dell’uncino che, penetrando le sue carni, gli arrivò fino in bocca. Lo trascinò in un vicolo buio. Le gambe di Furio strisciavano per terra mentre gli sembrava che una parte della faccia, comprendente il suo mento, il labbro inferiore e la mascella, fosse sul punto di staccarsi dal resto e rimanere appesa a quel gancio. Fu trascinato per una quindicina di metri che, tuttavia, gli parvero chilometri; la lingua era costretta dalla punta dell’uncino in posizione rialzata e si stava profondamente lacerando, il sangue gli inondava copioso la cavità orale ed in parte scivolava in una cascata rossa attraverso l’esofago, in parte andava a intasare i tubi respiratori. Fu preso da un irresistibile bisogno di tossire, per evitare che i bronchi e i polmoni fossero invasi dal liquido ematico, ma, al primo colpo di tosse, le contrazioni fecero si che l’uncino gli trapassasse la lingua e gli si incastrasse nel palato. Fino a quel momento il pirata aveva camminato trascinando Furio alle sue spalle, col braccio teso all’indietro; ora, giunto in fondo al vicolo, lo trasse avanti a se con un movimento secco facendogli sbattere violentemente le spalle e la nuca contro un muro. Inevitabilmente l’uncino, trapassandogli il palato per via dello strattone, gli andò a finire nel naso, sbriciolandogli letteralmente il setto. Furio, non riuscendo più a respirare, morì in meno di mezzo minuto, soffocando nel sangue. El Bucanero rimase per qualche secondo in piedi, sorridendo nell’ammirare la sua opera. Poi puntò un piede sul petto del corpo di Furio e tirò forte col braccio per disincastrare l’uncino. Udì distintamente lo scricchiolio delle ultime ossa del volto che si spaccavano, il gancio venne via portando con se metà di quello che una volta era stato un volto, e che adesso non era altro che un mucchietto di carne raggrumata e frammenti ossei sparsi per terra.

VI) Il Rauco
Un giorno io e Marco eravamo andati a fumare sulla spiaggia in riva al Ramo e avevamo visto due poliziotti con tanto di divise trascinare un uomo e buttarlo nell’acqua dal molo. Doveva essere un oppositore del regime narcotico. Il regime narcotico consisteva nel conservare l’identità del paese, senza fare niente che attirasse più turisti e niente che ne facesse arrivare di meno. Niente che potesse rendere la vita più interessante, niente che la rendesse più noiosa. Gli oppositori di questo ordine di idee venivano presi e gettati nel Ramo. Si diceva che diventassero dei “dannati”, e si diceva bene. I cosiddetti dannati erano delle anime in pena che nuotavano, anzi, lottavano perennemente per non annegare nelle torpide acque del Ramo e sembrava potessero far naufragare i navigatori. Beh, voi potete benissimo pensare che i miei siano solo vaneggiamenti a sfondo dantesco, ma lasciate che vi riferisca il racconto del Rauco.
Il Rauco si materializzò alle nostre spalle mentre ci stavamo fumando il nostro spinello e prese a raccontare di ciò che era accaduto a suo padre.
“Mio padre aveva una barchetta proprio qui, su questa spiaggetta - cominciò - ma non la utilizzava mai perché aveva paura dei dannati. Si dice che facciano affondare le barche e impazzire i pescatori. Ad ogni modo lui aveva il diritto di tenersi la sua barchetta sulla riva. I corsi d’acqua sono di tutti, no? Sono delle opere di madre natura…”
“Già.” Feci io passandogli la canna. Lui mi ringraziò con un cenno della testa, fece un tiro e riprese a parlare.
“Quindi, secondo me, non c’era nessun motivo per cui a mio padre fosse proibito di tenere qui la sua barchetta. Secondo la polizia, invece, si. Gli sbirri sostenevano che questa spiaggia è proprietà privata, concessa dal comune ai gestori del bar qui vicino. Mio padre, dopo aver cercato di difendere le sue ragioni, cedette all’inflessibilità degli agenti e disse che avrebbe portato la barca in garage. Disse che sarebbe andato a prendere la macchina e il carrello per trasportarla a casa. Gli sbirri, però, non erano ancora contenti; volevano che la portasse via subito, che non rimanesse lì per i cinque minuti che gli ci sarebbero voluti per andare a prendere l’automobile e portarla fino alla spiaggia. La cosa avrebbe dato loro la nausea. No, mio padre doveva andarsene subito e doveva farlo mettendo la barca in acqua perché la spiaggia fosse liberata all’istante. Lui parlò loro dei suoi timori ma questi non gli prestarono ascolto; lo costrinsero a salire in barca e a prendere il largo. Quando fu lontano dalla spiaggia la barchetta si rovesciò. Mio padre non fece più ritorno a riva. Ho sporto denuncia nei confronti dei due poliziotti, ma temo non subiranno nessuna sanzione, sebbene abbiano sulla coscienza una vita umana.”
Il rauco smise di parlare, diede un’occhiata alla canna che nel frattempo si era spenta, prese l’accendino e la rianimò. Per un po’ restammo in silenzio.
(continua...)

giovedì 27 novembre 2008

L'esercito della nebbia - seconda parte

di Guido Micheli

IV) Tommaso
Tommaso era un amico mio e di Marco, un neoventenne che se ne stava sdraiato sul suo letto a leggere Bukowski ascoltando un cd degli Stoogies. A Tommaso (blue jeans, camicia a quadri di flanella) veniva il magone a pensare che Bukowski fosse morto; lo sentiva così vivo nelle pagine di quel libro… cazzo, invece era morto, c’era scritto sul retro: Charles Bukowski (Undernach, Germania 1920 – San Pedro, California 1994). Era morto da undici anni.
Torniamo indietro di una dozzina di ore e vediamo com’era andata la sua festa di compleanno.
Il giorno in cui leggeva Bukowski era il 23 marzo e la festa era iniziata alle 21 del 22 marzo, andando avanti fin dopo mezzanotte, entrando così in pieno degenero nel giorno del suo ventesimo compleanno. Senza stare a raccontare come il party ebbe inizio, o come finì, scattiamo una fotografia del suo apice.
Un ragazzo aveva gli occhi rossi, un buco nel collo, un coltello in una mano e una fetta di torta nell’altra, mentre un uomo con un piede tranciato e la caviglia che sprizzava sangue, gli mordeva un ginocchio dal quale fuoriusciva un fiotto rosso che, andandosi a mischiare al vino d’una bottiglia rovesciata, formava un tutt’uno puzzolente e purulento. L’uomo che gli mordeva il ginocchio aveva una gamba del tavolo piantata nel corpo. Sul tavolo la torta si stava squagliando e da questa sbucavano due occhi diabolici. Una prostituta ballava mezza nuda in mezzo alla festa, Luca (che indossava una maglietta dei Ramones) aveva un’ascia piantata in testa e il suo amico Norberto stava fumandosi una canna seduto sul divano. Gaspare era contento e sorrideva ebete perché aveva tanto vino in circolo. Un tizio vicino a Norberto si era tramutato in scheletro, un altro vomitava roba variopinta ed un altro ancora stava passando un cannone a Tommaso, il festeggiato, mentre una bottiglia di birra gli volava in testa fracassandosi.
Un ragazzo si trovava sdraiato per terra, collassato dopo l’ennesimo bracere di bongo strappato, una diabolica presenza lo stava per sbudellare tra i rumori dei conati dei tanti invitati. Una chitarra tutta rotta adornava un angolo del salone, mentre un gatto attraversava indisturbato quel macello ed un pallone da calcio a pentagoni neri rimbalzava nel casino.
La noia, si sa, può giocare brutti scherzi, perché la noia, si sa, la si deve ammazzare. C’è allora chi per uccidere il tempo s’ammazza di seghe, o ammazza qualcuno, anziché andare al cinema o leggere un libro istruttivo. Forse è sempre per via della noia che qualcuno ogni tanto impazzisce e sbudella la moglie o allaga una scuola o fa qualcos’altro di comunemente insensato. Una festa non è altro che una variante di noiosa rottura, la musica non è altro che una variante nelle onde che attraversano l’aria e ci stimolano il timpano, l’incudine, la staffa, il martelletto, il nervo acustico, il cervello. Una bevuta ci manda le funzioni corporee in subbuglio, così, similmente, gli impulsi sessuali riempiono il corpo tutto d’ormoni: fare cose proibite o commettere violenze inonda il sangue di adrenalina, pompata con forza da ghiandole impazzite. E poi c’è il fattore compagnia; da soli, si sa, ci si diverte a fatica. Ci vuole qualcuno perché chi ci ha creati l’ha fatto volendo che comunicassimo e condividessimo con gli altri esperienze ed emozioni. Così se si è soli capita di mettersi a comunicare con un foglio di carta. La penna è tua amica e scivola veloce come una sorsata di birra e ti sorride quasi fosse il tuo compagno di sbronze preferito. Non c’è da stupirsi se poi vengono fuori scritti assurdi o insensati o noiosi che si trascinano pigri per centinaia di pagine in volumi considerati capolavori.
Tommaso si stava vivendo la sua mattina di dopofesta. Prese il pacchetto di sigarette, l’accendino e il posacenere. Portò tutto in bagno, si tirò giù i pantaloni e si sedette sul cesso. Prese una sigaretta estraendola dal pacchetto di Camel Light color azzurro cielo e la portò alla bocca. Strinse le chiappe, dilatò il buco del culo, fece uscire uno stronzo osservando la fiamma dell’accendino e l’estremità della sigaretta acquistare un colore incandescente. Tirò con gusto, e poi con più gusto. Lo rilassava molto fumare mentre defecava. Al quinto tiro di sigaretta, però, accadde qualcosa che gli piacque poco. Era al terzo stronzo, nel bel mezzo del rilassamento, all’apice della goduria, quando sentì un forte dolore provenire da un punto imprecisato del corpo, un dolore acuto, lancinante, che sembrò attraversarlo per intero. Si alzò di scatto dalla tazza del cesso, guardò in basso e la sua vista era quella di una telecamera fuorifuoco, guidata dalle tremule mani di un cameraman che doveva aver bevuto troppo. Vide sangue. Dentro al cesso, sulla tavoletta del water e sulle piastrelle del bagno. Si toccò in mezzo alle gambe e sentì bagnato. Sbandò, cozzò contro il muro, emise un grido strozzato, si lasciò scivolare lungo la parete, si sedette sul pavimento con le gambe aperte e le ginocchia piegate e cominciò a piangere.
Andrea buttò giù la porta del bagno a spallate. Andrea era suo fratello, faceva palestra, e aveva sentito l’urlo di Tommaso seguito dai singhiozzi. Lo trovò svenuto (gambe aperte, ginocchia piegate, schiena contro il muro, testa ciondolante), una striscia di sangue denso partiva dal water e finiva in mezzo ai suoi arti inferiori. Tommaso non aveva più i testicoli ma grumi di rossa linfa rappresa. E il cazzo, mio dio, il suo pene era attaccato al resto del corpo grazie ad un sottile lembo di pelle sgualcita; penzolava inerte, era diventato grigio e toccava con la punta il pavimento insanguinato.
Alla vista di cotal scempio Andrea vomitò il latte marrone di cioccolato solubile che aveva da poco ingerito. Questo, misto ad una buona dose di succhi gastrici, inondò la ferita del fratello in un trionfare di schifo batterico. E non si fermò qui. Cominciò a grugnire come un porco e la sensazione che provò fu come ricevere un pugno nello stomaco da un peso massimo mentre un ferro da maglia gli trapassava il cervello. E svenne a sua volta, testa nel vomito, in mezzo alle gambe di Tommaso.
Fu solo allora che Rigetto il folletto sanguinario, il primo di una serie di mostri assassini che per un certo periodo invasero il Paese, si decise a mettere la testa fuori dalla tazza del cesso.
“Bel lavoro ho fatto - pensò nella sua pelle verde e squamata, compiacendosi di avere denti più grandi del proprio cervello - bel lavoro, ma posso fare di meglio.”

Mi chiamo Rigetto
non scrivo, non penso, non leggo i giornali.
Secondo gli uccelli io sono uno scemo
ché vivo del male e non creo la poesia
di un cinguettio quieto nel fresco mattino.
Non so se lo sanno
ma sui rami degli alberi
e sui davanzali
non ci si arriva
senza le ali.
(continua...)

mercoledì 26 novembre 2008

L'esercito della nebbia - prima parte

di Guido Micheli

I) Marco

Marco si svegliò alle sei e mezza, diede una manata ai tasti del cellulare che smise subito di suonare. Aveva puntato la sveglia così presto solo perché doveva svegliare la sua ragazza che aveva l’orologio rotto, abitava lontano da casa sua, e doveva alzarsi presto per andare al lavoro. Chiamò la tipa e le diede il buon giorno, poi riprogrammò la sveglia per le otto e si rimise a dormire. Quando suonò di nuovo si sparò una sega, si alzò, si vestì con calma, mise insieme alcuni pezzi del puzzle che giaceva semicostruito sulla scrivania in camera e uscì a comprare un paio di brioches per la colazione. Andò al panificio e comprò anche il pane. La commessa era Chiara, sua ex compagna di classe alle scuole medie. Una volta il Gino le aveva fatto uno scherzo telefonico dandole della mignotta sul nastro della segreteria di casa. Ripercorrendo i 250 metri che separavano il panificio da casa sua, si godette la calma che solo un universitario semicasalingo sa godersi, in un placido lunedì mattina, di una temperata giornata di marzo. Tornò a casa col sacchetto della spesa e trovò suo fratello minore, Simon, sdraiato sul divano del salotto
“Che cazzo ci fai tu qui? - gli chiese - non dovresti essere a scuola?”
“Ho mal di testa.” Rispose Simon metallico.
Marco andò in cucina e mise dell’acqua in un pentolino: mise il pentolino su un fornello acceso. Aspettando che l’acqua bollisse, prese un coltello e aprì in due una delle due brioches che era senza farcitura. La farcitura la fece lui, con un crasto quantitativo di Nutella spalmata alla bell’e meglio. Poi morse ripetutamente quel capolavoro dell’arte dello stare a tavola, godendosi particolarmente i granuli di zucchero sulla superficie di quel raffinato prodotto di pasticceria. Dopo aver finito la prima brioche attaccò la seconda che era piena di marmellata semiacida; se la gustò di brutto. Mise una bustina di tè equo e solidale nell’acqua che ormai scalpitava viva nel pentolino.

II) Io
A un chilometro da lì, mi svegliavo anch’io, mi stropicciavo gli occhi e guardavo inebetito il nulla in cui vivevo. Misi su una canzone dei Nirvana e cominciai ad ascoltare la voce di Kurt Cobain che mi chiedeva di stuprarlo. Avevo un suo poster il camera, una foto in bianco e nero che lo ritraeva con quel suo sguardo perso nel vuoto. Guardavo il suo volto e lo ascoltavo cantare fissandogli ora le pupille, ora la bocca, sperando che le sue labbra cominciassero a muoversi e che il suo sguardo prendesse vita. Mi camminavo a destra e a sinistra e mi sembrava di vederlo, assassino di se stesso, saltare fuori dalla carta, camminare stanco, bombardare la chitarra, bucarsi una vena. All apologies, all my apologies to you: my friend.
Sterco di cavallo fumante, ecco quello che trovai per strada.
Ero uscito a prendere una boccata d’aria e avevo preso una boccata di sterco.
Me lo aveva ficcato in bocca Buster, il bullo del paese, lo stronzo. Ma devo dire che non feci niente per impedirglielo: chissenefrega? Ero al freddo con la bocca piena di merda, sdraiato in un viottolo sterrato con un po’di neve a tenermi sofferente, non avevo nulla in cui credere e nulla per cui combattere, non avevo che insignificanti oggetti e insignificanti soldi. Non chiedevo nemmeno aiuto ché nessuno ha voglia di aiutare nessuno. Quelli che hanno voglia sono antipatici.
Ogni tanto lavoravo da barista al “Rino Bar”. Un giorno venne dentro un rastone con la pelle scura che somigliava a Bob Marley.
“Un caffè” mi disse accostandosi al banco. Io mi girai e gli feci il caffè.
“Vuole lo zucchero?” gli chiesi.
Lui si appoggiò con i gomiti al bancone e, guardandomi dritto, scandì col contagiri due parole:
“Di canna.”

III) Furio
“Gli uomini uccideranno voi stupidi animali.”
Il gatto guardò Furio con aria perplessa. Furio era ubriaco, ubriaco al punto che delirava. Non gli era mai capitata una cosa simile, un delirio di quel genere. Non causato dall’alcol per lo meno. La noia sì: la noia lo aveva spesso portato a lunghe conversazioni solitarie.
Quando era solo in casa e non sapeva che fare non accendeva la televisione. Si stravaccava sul divano e cominciava a emettere urla, canti, parole in inglese e in italiano, parole incomprensibili o sensate, accostate senza filo logico, eccetera. Il delirio di ubriachezza era così simile a quello di noia… forse perché il primo era stato causato dal secondo; in pratica si era ubriacato perché si annoiava.
“Non vedi quanto spreco? - chiese Furio al gatto - Con tutto il tempo che ho sprecato avrei potuto… ehm… costruire una casa, per esempio, o guadagnare un sacco di soldi lavorando… sono utili i soldi, sai? Puoi comprarci tante cose, e una volta comprate aspettare che diventino vecchie, e intanto puoi continuare a lavorare e guadagnare altri soldi per comperare altre cose che ti facciano dimenticare le cose che hai comprato prima e…”
Furio, poveretto, un quarantacinquenne in crisi, più disoccupato che resto, con due figlie e un figlio da mantenere. Il figlio era il sopra citato Marco: mio amico, coetaneo, ventenne, universitario strano. Mai quanto il padre che parlava con gli animali, comunque. Le sorelle di Marco erano più grandi di noi ed erano delle gran fattone; ci procuravano fumo eccetera. Anche i genitori erano dei fumatori incalliti.
Un giorno Furio aveva detto a suo figlio: “Cos’è questa storia che le canne bruciano le cellule cerebrali? Con tutte le canne che mi sono fumato non dovrei più avere un cervello, io!”
Non sono sicuro che avesse ragione.
Accadde un giorno che Furio andò ad ascoltare le pesanti parole che uscivano dalle bocche dei dannati del Ramo. Il Ramo era un corso d’acqua scura, molto largo e molto lungo: una via di mezzo tra un lago ed un fiume che si perdeva nella nebbia. C’era una spiaggetta con un molo all’inizio di questo corso, ma poi nessuno poteva proseguire a piedi. L’unica cosa era continuare in barca, o a nuoto; ma correva voce che navigare o nuotare per quelle profonde acque fosse come suicidarsi, perché le voci dei dannati ti fanno impazzire, e nessuno sa poi tornare indietro.
Furio era lì e guardava gli uccellacci volare al di sopra del cupo corso d’acqua quand’ecco arrivare dalla nebbia un motoscafo color bianco sporco. Procedeva a tutta velocità ma, arrivato di fronte al molo, rallentò di colpo, quasi fermandosi. La vista di Furio non era delle migliori e invano si sforzò di mettere a fuoco la sagoma scura che si aggirava sull’imbarcazione. Rimase a fissarla per una ventina di secondi che si dilatarono nell’infinito. Un dannato? Un moderno traghettatore infernale? Il motoscafo riprese a muoversi un po’ più velocemente e sparì di nuovo confondendosi nella foschia.
(continua...)

martedì 18 novembre 2008

Bucolica

di Victor Attilio Campagna

O fiore, l’altura pasteggiava incerta
quando tu guardavi senza vedere
le valli ronzare; ricordavi il sapore
di quella primavera andata via

di sera, quando il mare era di vetro.
Fu un’arpa a dirti addio,
ed è un piede stanco a salutarti ora
quando la calura arde e tu taci.

È in te che scompare il volto
di questa aria saturnale – Margine
di esistenza, che raccoglie le parole pazienti –

era di notte che la volta abbracciava
il mare – un sapore di freddo marmo –
e già il sorriso era inciso su di te.

martedì 11 novembre 2008

Quando il mondo

di R. Castoro

Mentre il tram partiva
Io sfilavo dalla parte opposta
Ma in realtà lo seguivo di corsa
Cercando di non perdere il tuo profilo
Nonostante avessi promesso di evitare
Su ponti subacquei
E teatri di pietra e di avanguardia
Di cielo e di parole.
La febbre si esaurisce scorrendo
Ma la sorgente
Rigenera fra la testa e lo stomaco
Quel filo
Conduttore di pensieri tiepidi
Audaci?
Di un cristallo che si macchia
Quando il mondo fiata.

giovedì 6 novembre 2008

to fall

di Norberto Giffuri

venga la crisi
che venga
nella crisi avrò un alibi
per la mia inconsistenza

mi troverà sulla porta di casa
a mani vuote
che nulla potrà pretendere
da chi nulla ha conquistato

s'annuncia l'autunno
stentoreo
nella foglia che ha ceduto al vento

è così liberatorio
precipitare.

sabato 18 ottobre 2008

Colmare di certo l'incerto

di Ezechiele Lupo

Quando dalla nostra finestra, divelto il vetro, fece irruzione la lampada d’ottone del lampione di fronte a casa, mio padre decise che era giunto il tempo di andarcene. Avevamo resistito per tre mesi alla guerra che impazzava tra le strade della periferia, perché quel tempo ci aveva messo per giungere alla nostra porta, anzi alla finestra. Quella pesante lampada, quella polvere scintillante dei vetri in frantumi erano stati i messaggeri (forse divini) dell’imminente distruzione della casa nella quale ero nato. Al centro quasi esatto della sala, nel rombo di un silenzioso risucchio, si era fermata la pesante lampada, proprio in corrispondenza del lampadario di cristallo che pendeva dal nostro soffitto: quel perfetto asse di simmetria per la mia famiglia rappresentò il confine tra la vita e la fuga.
Caricammo poche cose in macchina.
Mia madre chiuse a chiave la porta di casa, pur sapendo che sciacalli, bombe e proiettili avrebbero trovato facilmente il modo per entrarvi. Passammo per le strade che facevano da raccordo tra la metropoli e i dintorni industriali: io, mio fratello, mia madre e mio padre che guidava, portavamo sulla testa delle pentole d’alluminio, elmetti fatti in casa perché non si sa mai. Giunti alla frontiera mio padre chiese a mia madre, che sedeva alla sua destra, di passargli passaporti e denaro contante. I soldati che avevano sostituito gli impiegati (decisamente più timidi in tempi come questi) ci bloccarono, schierandosi, mitra spianato, di fronte alla macchina: mia madre tirò fuori il braccio lentamente e sventolò una federa bianca. Dal finestrino vedevo questo candido drappo che si agitava enorme, senza vento, tra palazzacci grigi, sotto un cielo di piombo, pesante e pieno di rabbia o forse paura. Mio padre rallentò delicatamente e ci fermammo. Un soldato giovane si avvicinò e fece cenno di abbassare il finestrino: mia mamma continuava a sventolare terrorizzata ed assente la federa del cuscino. Poi un altro militare le intimò di fermarsi, e lei, trovando un sorriso nei meandri della sua agitatissima mente, si fermò. Mio padre allungò i passaporti al soldato, avendo cura di nascondere bene nel suo, i molti contanti che mia madre gli aveva passato. Quello guardò a lungo le foto sui documenti e diede qualche occhiata dentro al veicolo, poi disse: “Direzione?”, mio padre rispose subito, sicuro e senza esitazione “Z*******, C******”. Il soldato ci riconsegnò i passaporti e potemmo varcare finalmente quella frontiera.
Avremmo percorso qualche centinaio di metri quando una forza terribile, che pareva un fortissimo vento, spinse la nostra autovettura in avanti, sollevandola un poco da terra, e facendoci raggiungere una velocità folle: poi cominciai a non vedere più nulla. Ma non avevo perso i sensi. Nel buio più totale potevo sentire delle tremende esplosioni, una raffica di deflagrazioni assordanti, che ben presto si fusero in un unico potentissimo boato: come quando il troppo tremore conduce all’immobilismo. Ad un tratto mi accorsi che stavo rotolando su me stesso, mentre quell’assordante frastuono non accennava a diminuire. Continuavo a rotolare nel buio denso di polvere e terra. Poi mi fermai e piano piano ripresi a vedere. Mi ritrovai perfettamente seduto sul sedile di dietro, sano e salvo e senza un’ammaccatura. Accanto a me mio fratello dormiva, forse aveva perso i sensi, ma anche lui non aveva un graffio. Mio padre era accasciato sul volante, come addormentato. Mia mamma appoggiata al finestrino mezzo aperto: un sorriso tirato, ma nel complesso si sarebbe potuto dire che si stava godendo un sereno e soddisfacente sonno. Mi alzai in piedi sul sedile e guardai dietro di me: il cielo era nero, ma non coperto dalle nubi, era proprio nero, senza stelle, né luna. La città da dove eravamo fuggiti era illuminata in lontananza da fiamme altissime dalle quali si alzava una nube di fumo bianca: tutto sembrava ardere così dall’inizio, da sempre. Della frontiera potevo vedere le macerie fumanti: nessuna traccia dei giovani soldati. Scesi dalla macchina con la mia pentola in testa, che quasi mi copriva gli occhi. Appena i miei piedi ebbero toccato terra sentii un botto spaventoso, mi gettai al suolo terrorizzato, convinto che una bomba mi avrebbe smaterializzato da lì a poco: invece nulla, nessuna esplosione mortifera. Ma il rombo continuava fragoroso e paralizzante. Poi vidi segni di vita.
In lontananza, dalla città in fiamme, vidi corrermi incontro una muta di quadrupedi: il loro incedere rapidissimo, sempre più minaccioso, le zampe sbattute a terra con una velocità inconcepibile, facevano letteralmente tremare la terra. Mi raggomitolai al suolo, certo che mi sarebbero saltati addosso e mi avrebbero sbranato in pochi secondi; ma me li vidi passare avanti senza che mi degnassero di un ruggito, di un verso qualsiasi. Erano dodici esseri bastardi (non trovo altro termine per definirli), incroci tra lupo e leone, ma molto più grandi, con una foltissima criniera grigia, sopra un manto nero pezzato di bianco. Avevano il muso allungato e gli occhi rossi, dalla bocca mostravano dei canini superiori lunghi fino al mento. La loro coda era lunga il doppio del loro corpo, folta e sinuosa: sembrava godere di propria volontà. Seguii con lo sguardo la corsa di queste creature del buio, fino a che, dal nulla, spuntarono dodici enormi conigli bianchi, con le orecchie lunghe due volte il loro corpo. I conigli giganti balzarono addosso ai lupi-leoni mordendoli al collo: dopo una fragorosa lotta i conigli ebbero la meglio. I corpi dei leon-lupi si dissolsero appena l’ultimo afflato vitale lasciò i loro corpi, e comparvero dodici pozze d’acqua nera. I conigli giganti, come spinti da una forza inarrestabile, scalciando e soffiando fuoco dal loro naso, caddero nelle pozze d’acqua, da cui immediatamente uscì una luce accecante che mi costrinse a chiudere gli occhi. Quando li riaprii vidi che dai dodici stagni balzavano fuori ventiquattro rane nere, due per ogni pozza, con gli occhi verdi come lo smeraldo; queste rane cominciarono a saltare tutte insieme in fila nella direzione opposta alla città in fiamme. Lungo la loro direttrice di corsa, ad ogni balzo, il terreno si crepava: una larga crepa arrivò fino a me. Ad ogni salto delle ventiquattro rane, ventiquattro squilli di tromba provenivano dalla città. Intanto la crepa si estese fino all’orizzonte: un’altra esplosione, ancora più forte delle precedenti, scosse l’aria calda. Dalla crepa cominciò ad uscire acqua; dapprima piano, come un rivolo, poi sempre più velocemente. In qualche punto la crepa cominciava a diventare una voragine, dalla quale zampillava un getto d’acqua altissimo. Ebbi giusto il tempo di allontanarmi un po’, che la voragine si spalancò completamente: davanti a me ora c’era solo un oceano nero in burrasca. Dopo poco dalla città in fiamme provenne uno strano rumore, come un crepitio, come quando si perde la frequenza della radio: il rumore divenne sempre più fragoroso, quasi insopportabile. Improvvisamente l’oceano nero si calmò e ci fu la più grande esplosione che io abbia mai sentito in tutta la mia vita. Chiusi gli occhi e mi tappai le orecchie. Alzai le palpebre, tolsi le mani dalle orecchie: il mare nero era piatto, la città in fiamme sembrava più piccola di quattro volte la sua grandezza originale, la vedevo come attraverso una lente, e il silenzio permeava l’aria. Un silenzio imprevedibile e rilassante.
Non sapevo cosa fare, ma non riuscivo a stare fermo, così mi avvicinai alla distesa di acqua nera. Guardai in basso: sembrava petrolio, ma era indubbiamente acqua. Forse era anche pulita. Mi chinai per controllarne la temperatura: era fredda, ma non freddissima. Poi mi voltai per vedere cos’era successo ai miei genitori, a mio fratello e alla macchina. Tutto sembrava a posto: la macchina non aveva un graffio e i miei dormivano serenamente. Quando mi rivolsi all’acqua nera vidi un’enorme nave in lontananza. A vele spiegate correva verso terra, dove stavo io. Questo veliero di una grandezza smisurata viaggiava senza vento, e in pochi secondi mi fu davanti. Sulla prua gigantesca biancheggiava una statua di marmo raffigurante un leon-lupo alato, la cui coda fungeva da canapo per un’enorme ancora. Era tutto silenzioso. Ad un tratto la terra tremò. Prima piano, lentamente, un flebile dondolio accompagnava lo scorrere delle mie paure. Il pavimento della nostra casa, ricordo, tremava pressappoco così mentre transitava un tram nella nostra via. Il tremito si tramutò ben presto in vere e proprie scosse di terremoto: barcollai finché caddi. Dal suolo si susseguirono delle esplosioni; si formarono dei crateri dai quali uscivano violentissimi spruzzi di acqua nera. Intanto la terra tremava sempre di più, non riuscivo nemmeno a reggermi in equilibrio seduto. Dalla sommità delle gittate di acqua, prendevano il volo degli uccelli neri e bianchi col becco d’oro. Le loro ali erano lunghe il quadruplo del loro corpo. Contai dodici uccelli per ogni cratere, contai i crateri: erano ventiquattro. Il volo degli animali durò ben poco, perché, dopo qualche metro di ascensione, ricaddero a terra sotto forma di goccioloni d’acqua nera: fui lavato anche io.
Il terremoto cessò. L’enorme nave era ancora lì, muta e sola.
Finalmente accadde una cosa. Un portellone sul lato destro si spalancò, sbattendo pesantemente al suolo senza rumore. Da questo gigantesco antro uscì un uomo. Smilzo, molto pallido in viso, ma non sciupato, vestito in giacca, cravatta e pantaloni neri. Il suo volto era sereno e mostrava un sorriso rassicurante. Avvicinatosi a me, che stavo ancora a terra raggomitolato su me stesso, mi disse venticinque parole, che dimenticai immediatamente.
Poi si volse e tornò sulla nave.
Da quel giorno ogni venticinque giorni, da venticinque anni, mi sveglio e scrivo su un diario, a cui ogni anno aggiungo venticinque fogli, questa frase: “Mundus transit et concupiscentia eius”.
Il mio nome è Jovanni T******, e sono uno scrittore.

lunedì 13 ottobre 2008

Sull'organizzazione dei sogni

di Carlo Ferri

E poi, mi sono svegliato questa mattina e ti ho chiamato. E solo la mia voce risuonava nella casa bianca di solitudine. E poi, sono andato in cucina e mentre preparavo il caffé guardavo come ebro la tazza vuota, immobile sul tavolo. E mi sono chiesto se quella sensazione d'estraniazione non ce l'avessi perché stavo ancora sognando. Sognando d'essere me stesso senza di te, con te affianco sotto le lenzuola. E mi rendo conto che la tua mancanza mi è insopportabile quanto la tua presenza lo era allora. E poi, il caffé appena pronto, che sto bevendo, mi brucia le labbra e mi strilla addosso: sei sveglio cretino. E la partenza, la tua distanza si misura negli scaffali vuoti della libreria, buchi lasciati a ricordarmi: tu idiota l'hai cacciata dalla tua vita. E la casa tutta ha perso la propria ragione, una scatola cinese che ne nasconde al suo interno un'altra ed un'altra ancora. E mi perdo in questo labirinto di sentimenti contrapposti. Vorrei addormentarmi con te e svegliarmi senza di te. E viceversa. Ma ora la casa è vuota. Vuota della tua risata, che tutta la faceva risuonare. Vuota delle composizioni di fiori secchi sul tavolo. Vuota delle tue cose, che si mischiavano alle mie. Vuota dei profumi che seguivo camminando scalzo sul parquet. E dietro di te hai lasciato solo traccia di qualche giornale letto, caratteri che s'inseguono l'uno sull'altro, che a me poi sono sempre sfuggiti, scivolati dalle pieghe della memoria. Eppure, nonostante il sogno, tu hai lasciato la tua impronta dentro di me. Tu e la tua razza e la tua odiosa cultura siete venute fin qui, fin dentro questa casa, nei luoghi più intimi del mio essere a insozzare la mia vita. A renderla unica. A dirmi che siamo solo, che siamo soli, nel confronto con l'altro. E poi ti sei congedata lasciando dietro di te quel maledetto libro. E c'hai scritto sopra nei caratteri dolci della tua bella calligrafia : uomo o farfalla?

domenica 5 ottobre 2008

Variazione sulla corda di Ludwig

di Norberto Giffuri

Stillò la prima lacrima arrivato giusto all'ultima scena di Manhattan, Woody Allen, 1979. La domenica pomeriggio invadeva il mondo, sonnolenta e densa, come una melassa esistenziale colata dalla monotonia di un cielo tutt'altro che effetto favonico, tutt'altro che blu intenso. Sembrava piuttosto che una coperta di lino fosse stata tirata tra i quattro punti cardinali. Nel suo appartamento, sotto la coltre appena descritta e sopra la coltrice, Sebastian affondò il capo nel cuscino mentre il televisore sputava le note di Gershwin a volume smodato. Seguitò a singhiozzare, con ritmo incerto, poi si girò di scatto, allargò le braccia e si ritrovò nella posizione di un Cristo crocifisso. E così rimase, in balia dei suoi fantasmi.

La sua sofferenza tutta intellettuale non era certo più intensa e lacerante d'altre: apparteneva soltanto ad un piano di consapevolezza differente. Traeva origine da oscuri riflussi del pensiero meno semplicisti di quelli, per fare un esempio senza volontà di denigrare, di una soubrette della domenica pomeriggio o di un incolto magazziniere palestrato. Ma a lui piaceva sentirsi il più infelice di tutti, considerarsi l'estrema avanguardia di un reggimento di intellettuali spediti a morire sulla Linea Gotica del dolore.

Dovete sapere, cari lettori, che il malessere di Sebastian non aveva origini tanto bizzarre: non era un segreto rimorso a consumarlo, né un generale sconforto per le cose della vita...si trattava invece dei consueti patemi d'amore o meglio della mancanza di amore: condizione, ahimè, nella quale languiva da tempo immemore.

Era successo, circa una settimana prima, che una sera si trovasse disgraziatamente buttato in una di quelle feste di un partito sinistrorso, tutte sentimenti briosi verso la classe operaia, tutte slogan e buona volontà, almeno a parole. Non voglio dire ora che Sebastian non nutrisse una simpatia per il comunismo. Ne era affascinato come si è affascinati da un quadro di Pollock: non si capisce cosa voglia significare ma sembra che funzioni grazie ad una logica forte sottostante.

C'era andato trascinato dall'entusiasmo di Giulio, suo eterno compagno di serate di questo tipo...una figura che con cadenza bimestrale si presentava nella sua vita sponsorizzando feste della birra e quant'altro. Giulio aveva l'anima del PR, chiamava, aggregava, faceva e disfaceva...era un collante sociale che si scatenava quando la settimana sembrava sfaldarsi agonizzante. Sebastian a volte partecipava alla sua smania di mondanità, altre lo seguiva di malavoglia, altre ancora lo mandava semplicemente affanculo.
Quella sera faceva parte del secondo tipo di uscite: quelle apatiche.

O almeno lo era finché non la notò. Giulio le stava appioppando uno sgraziato doppio bacio sul viso. Lei sorrideva, candida, esile. Appariva fragilissima, circondata com'era da omaccioni barbuti armati di salamella. Sebastian scattò dalla seduta di pietra del muretto sul quale si era andato a posare. Raggiunse Giulio con passo studiatamente mascolino. Se un tale linguaggio del corpo funzionasse da richiamo per il sesso debole, non ci è dato saperlo. Fatto sta che conobbe Lidia, così si chiamava la fanciulla tanto delicata quanto dispersa nel volgo.

Lei aveva occhi grigi, labbra dolcemente incurvate e non lesinava i sorrisi. Inoltre amava Woody Allen. Dopo quindici minuti di interazione vocale Sebastian le propose il matrimonio. Lei cortesemente rifiutò, ma senza convinzione. Si lasciarono con la promessa di vedersi il venerdì seguente, in altra situazione, altro luogo.

Cominciò così una penosa settimana di attesa e speranza. Sebastian passò le notti a combinare in modo rigorosamento sparso i tratti di Lidia che aveva colto nella breve loro frequentazione. In queste circostanze era solito praticare un diabolico gioco di incastri tra reminiscenze letterarie, ricordi e frammenti pescati nella dimensione del sogno.
La sua vocazione al romanticismo più bieco lo portò presto nel maelström dell'immaginifico dell'amore: e si ritrovò a stringere la sua Lidia reinventata sotto un tiglio secolare oppure a baciarle la nuca davanti all'oceano in burrasca in qualche angolo di Normandia, piuttosto che a salvarla dalle inquietudini metropolitane di un sabato sera stanco e smorto...si espletò così la lunga e deformante trafila dell'idealizzazione.

Arrivò il venerdì seguente.
Spavaldo e in preda ad uno slancio vitalistico di proporzioni titaniche si presentò sotto casa di Lidia con un ritardo studiato. Fu elegantissimo e garbato, le aprì la portiera dell'auto, la subissò di complimenti e nei primi minuti riuscì ad infilare nel discorso quelle due o tre frasi brillanti che aveva preparato per l'occasione.
Si buttarono in un cinema d'essai, c'era una retrospettiva su Resnais. Sebastian giocò con la rima, lei ridacchiò sgraziata. Lui s'accigliò perché quel modo di sorridere non le si addiceva. Ma dissipò subito la sua amarezza quando nei primi minuti di Hiroshima mon Amour lei poggiò la guancia sulla sua spalla e si strinse verso il suo bracciolo.

Non la baciò. Ritenne che sarebbe stato un gesto affrettato. Tutto giocava a suo favore: l'aveva conquistata, la strada era definitivamente in discesa, una sinuosa strada in discesa verso una valle inondata dal sole. Si abbandonò nell'infinita consolazione dell'innamoramento. Accostò la mano a quella di Lidia, lei non si ritrasse.

All'uscita del cinema Lidia si staccò improvvisamente da lui. Attraversò la strada e fermò un tipo barbuto, dal corpo che ricordava una pera. Aveva capelli lunghi e sporchi e un vocione poco rassicurante: Sebastian ne ebbe una sgradevole impressione. Fu presentato, scambiò due battute senza interesse. Lidia invece sembrava felicissima di vederlo. Rise di gusto e più di una volta lo toccò sulla spalla e sui fianchi.
Quando poi si allontanarono lei gli confidò che il vichingo leninista -così lo aveva prontamente etichettato Sebastian - era il suo ex.

Ma non fu questa notizia a farlo vacillare. Non fu l'improvvisa consapevolezza che l'oggetto dei suoi desideri si era concessa a cotanto orrore (quell'uomo pingue, abbigliato con una smunta t-shirt e dei jeans sformati, così diverso da lui, lontano dalla sua eleganza di gesti, dal suo perfezionismo, dal suo sense of humour sofisticato), no, non fu questo.

Fu quella sigaretta, fumata da Lidia davanti al portone di casa e poi spenta a terra, schiacciata con una doppia pressione del tacco, a due metri da un cestino dei rifiuti. Quella assoluta noncuranza nel soffiargli il fumo in faccia. Quella sfrontatezza da adolescente arrabbiata che sfoderò in quei cinque minuti scarsi, ad atterrirlo completamente. Si ritrovò a fissare delle pupille improvvisamente divenute estranee. Implose e crollò, in un istante di solenne devastazione, tutta la sovrastruttura di senso che in quella settimana aveva costruito attorno alla figura di lei.

Si accomiatò simulando una serenità che più non era. Era la mezzanotte di una nuova domenica.
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Quella che avete appena finito di leggere è una libera riscrittura di un racconto di Asicheraglia.

lunedì 29 settembre 2008

Racconto Nero (Racconto Bianco)

di Ezechiele Lupo

Da bambino mi piacevano gli astucci multistrato. Quelli in cui ogni matita, ogni penna, ogni pennarello, e poi il temperino, la gomma, anzi le gomme, avevano il loro alloggiamento: un anello di elastico e stoffa che teneva tutto fermo, tutto al suo posto.
Poi alle medie, ma forse già in quinta elementare, ho cominciato ad usare astucci a busta: tutto diventò più confuso e disordinato. Al ginnasio usavo una piccola scatola di latta, grigio metallizzato, che conteneva una penna, una matita e una gomma. In prima, seconda e terza liceo non avevo niente; chiedevo in prestito tutto e perdevo tutto, quasi quotidianamente. Cosa vorrà dire? Che il disordine porta al nulla? Ma allora anche l'ordine conduce al disordine. Che porta al nulla. E dal nulla rinasce l'ordine. Insomma l'evoluzione di un astuccio può rappresentare una weltanschauung? Sì penso di sì.
Ora è tutto disordine.
Un giorno provo a prendere tutte le penne, le matite e i pennarelli che trovo sulla scrivania, nei barattoli, nei cassetti, sopra il comodino (escludo le matite per gli occhi di mia moglie) e cerco di catalogare. Ma non mi decido quale dev'essere la discriminante e lascio stare: tutta quella fatica a rintracciare tutte quelle matite, quelle penne, quei pennarelli. Un altro giorno apro un cassetto e vedo una vecchia scatola di pastelli a cera; la apro e appare uno spettacolo bellissimo: ogni spazio è occupato da un pastello, tutti i pastelli sono della stessa altezza e da sinistra a destra sono ordinati per progressive gradazioni di colore. Rimango affascinato da quella perfezione, dall'armonia e dalla bellezza. Quanti anni erano che qualcosa di mio non era così ordinato, ed equilibrato.
Erano sei anni che non scrivevo una lettera a mio fratello.
Decisi di andare da una psicologa.
Il mio medico curante aveva appena affittato una stanza del suo grande studio ad una psicologa: la dott.ssa B****. Un giorno, sarà stato aprile, andai a farmi prescrivere un antibiotico e vidi questa nuova targhetta sulla porta d'ingresso. Due studi quindi, ma una sola sala d'aspetto. Mi vergognavo e divertivo molto a pensare quali tra questi pazienti che attendevano, come me, il loro turno, fossero in realtà dei picchiatelli, e quali invece, come me, fossero sani: almeno di mente. Mi divertivo e mi vergognavo, sì: perché anche gli altri avrebbero potuto pensare di me le stesse cose. Anche loro avrebbero potuto fare illazioni riguardo la mia salute mentale, anche loro avrebbero potuto pensare: "ah… quello lì si vede che sta male, poveretto…". Ecco perché ogni volta che andavo dal mio medico mi preoccupavo di essere sempre in ordine. La preparazione iniziava dalle scarpe: ogni volta le pulivo e le lucidavo; ma non solo. Già perché avevo anche cura di alternarle, nel caso, alquanto remoto per la verità, avessi incontrato le stesse persone della volta precedente. Prima di uscire di casa inoltre stiravo i pantaloni, indossavo una bella camicia, e solitamente una cravatta allegra, ma non pacchiana. Poi infilavo una giacca, anche sportiva talvolta, di velluto, o di filo di scozia. Non portavo le lenti a contatto, ma mettevo gli occhiali: danno decisamente tutta un'altra aria. Pettinavo i capelli che cercavo di tenere sempre alla medesima lunghezza: esprimevano un senso di ordine, di cura, di autostima direi quasi. Eppure… eppure qualcosa andava sempre storto, c'era sempre un particolare che turbava questo ordine, questa bellezza. Le scarpe si sporcavano se pioveva, i pantaloni non tenevano la piega, il nodo della cravatta non era triangolare e sottile come piace a me, oppure avevo le mani sporche di vernice. Insomma c'era sempre qualcosa fuori posto. Ma confrontato agli altri pazienti ero di gran lunga il più ordinato. Una volta entrò un uomo sulla cinquantina, grasso, gonfio direi quasi, con la pelle cotta dal sole: indossava dei pantaloni blu di un tessuto scadente e rigido, aveva ai piedi pesanti scarpe da lavoro, e un gilet del colore e della stoffa dei pantaloni. Sotto il gilet portava una smunta maglia nera. I suoi occhi chiari significavano smarrimento quanto la camminata inferma. Quello era senza dubbio un paziente della dottoressa B****.Certo, era un caso eclatante, riconoscibile tra mille; ma ce n'erano altri che cercavano di nascondere le loro patologie, di far finta di essere sani di mente, come me. Ma io li ho scoperti tutti: tutti. Ad esempio: un pomeriggio di settembre si siede in sala d'aspetto un uomo che al massimo avrà avuto quarant'anni. Io sfoggiavo scarpe bianche di Prada, jeans Emporio Armani, camicia blu e maglioncino bianco a righe blu in stile marinaretto: impeccabile e ordinato (se escludiamo il polsino destro della camicia a cui era saltato il bottone mentre scendevo dalla macchina). L'uomo era il classico impiegato e portava dignitosissimamente un vestito grigio con camicia azzurra e cravatta regimental. All'apparenza un tipo da medico di base. Ma il tempo e il mio spirito di osservazione lo hanno tradito. Eravamo seduti entrambi da quasi quaranta minuti quando, di fronte alla mia calma tibetana, che si esprimeva stando seduto con la schiena perfettamente eretta, con le mani ordinatamente sulle cosce e lo sguardo dritto verso il muro di fronte a me (così immobile, imperturbabile, ordinato: sarebbe potuto passare un caccia bombardiere nucleare che non mi sarei mosso di un millimetro. Ordinato, sereno, sano di mente), l'uomo chiude la rivista che stava leggendo (così senza preavviso, senza un segnale premonitore), tira fuori dalla tasca il cellulare, guarda qualcosa e sbuffa: un comportamento assolutamente irrazionale, segno di un disordine mentale acuto. Perché una scena di quel tipo? Che bisogno c'era di reagire in quel modo scomposto? Io per quaranta minuti sono stato fermo immobile, ordinato: come una matita nel proprio astuccio.
L'ultima volta che sono andato dal mio medico ho avuto l'impressione che fossero tutti picchiatelli, che fossero tutti pazienti della dottoressa B****. E allora ho capito: ero l'unico sano, l'unico polo di ordine in un universo di caos.
Tutto questo disordine intorno a me mi ha convinto che anche io devo andare dalla psicologa, anche io devo fare la figura del picchiatello, come tutti gli altri. Forse lei, la psicologa, potrà farmi capire perché una volta ero sempre ordinato: ora non lo sono quasi mai, tranne quando vengo dal mio medico, entrando in un contesto in cui sono tutti malati di mente, e io l'unico sano.
Quando ero piccolo mio fratello mi ha messo in disordine tutto l'astuccio, e io ho pianto per ore, giorni, forse mesi. Poi un giorno lui è scomparso e io, da quel giorno, ho sempre avuto paura del pozzo che sta nel giardino della casa dei miei: loro, infatti, su mia richiesta lo fecero murare.