Il giudice sul mulo Periodico perenne di linguaggi letterari.

sabato 29 novembre 2008

L'esercito della nebbia - ultima parte

di Guido Micheli
VII) Marco
Quando i membri dell’ Esercito della Nebbia ebbero saziato le loro voglie omicide, lasciarono il paese in silenzio portandosi via quello che più loro piaceva tenersi appresso: le vite di quante più anime sofferenti riuscissero a mietere. Camminavano avvolti dal manto grigio del furore assassino e scivolavano pigri in attesa di giungere a nuove fonti di soddisfazione omicida. Da quel giorno sul paese splendette spesso un caldo e simpatico sole, e la narcotica sensazione che regolava le vite di tutti si sciolse ai suoi tiepidi raggi.
Marco e la sua ultima ragazza si erano appena lasciati perché dopo tanti giorni d’amore qualcosa si era inceppato e né lei né lui erano in grado di oliare di nuovo gli arrugginiti ingranaggi del sentimento. Scese lentamente i larghi gradini che dalla piazza conducevano alla spiaggetta ghiaiosa. Si sedette sul ciglio della piattaforma di cemento, tanto bassa che quando l’acqua del Ramo si alzava la sommergeva del tutto. Si accese una sigaretta a gambe incrociate e osservò una papera che gli si avvicinava curiosa. Aveva la testa verde, il becco giallo, il piumaggio del corpo grigio e quello delle ali di un grigio più scuro, la coda era nera striata di bianco e attraverso l’acqua si osservavano nitide le zampe arancioni che sbattevano discrete, allegre e palmate.
“Ciao”, fece la papera quando gli fu di fronte, sbatacchiando comicamente il becco. In quel momento a Marco venne in mente che quella era una papera maschio. Un papero, dunque. Le papere femmine, infatti, sono marroncine e le si vede in primavera seguite da file ordinate di paperotti piccoli piccoli, tre quarti dei quali non diventeranno mai come la mamma: due quarti moriranno ghermiti da uccelli più grossi o in qualche altra maniera, il restate quarto… sono maschi. La natura vuole così.
“Ciao.” Rispose.
“Chi sei tu?” fece l’uccello lacustre curioso.
“Sono Marco.”
“Io sono un papero. Vorresti venire a fare un giro con me?”
“Mi piacerebbe, ma in acqua non ci posso entrare; fa troppo freddo per me.”
Il papero si fece un po’ triste
“Mi dispiace non poter condividere il mio mondo con te.”
“Dispiace anche a me”, rispose Marco sincero. Il papero sguazzò via.
Spenta la sigaretta si avviò verso la stazione e quando fu lì ne accese un’altra, in attesa del treno. Il mondo di Marco era, in quel momento, sconvolto e in conflitto. L’aria frizzante che lo circondava, quella stessa che lui respirava mischiandola ai veleni della nicotina, conduceva la sua lotta interiore in un delirio esistenziale, indecisa com’era se trasformarsi in primavera o mantenere la forma e i colori del clima invernale. Anche nella sua testa era in corso un conflitto, ché i pensieri che vi si annidavano a migliaia lottavano disperati, sgomenti perché prigionieri di una coltre di apatia che li teneva rinchiusi in celle sovraffollate e si rompevano i denti, pazzi, mordendo le sbarre neurotiche che intristivano le loro finestre, torturati dal fatto di poter vedere ciò che era fuori ma di non poterlo raggiungere. E una terza lotta era quella del suo cuore il quale, impazzito, aveva cancellato in un giorno dieci mesi di amore ed ora, stringendo in pugno un tubetto di Super Attak, tentava di rincollarne i cocci, sapendo che anche a rimettere insieme i pezzi, nulla sarebbe più stato perfetto. Tutto sarebbe apparso brutto, precario, incrinato.
Questo è il ritratto del mondo di Marco che, stringendo nel pugno un biglietto per chissà dove, si sedette in carrozza con le spalle rivolte al senso di marcia. Guardando dal finestrino vedeva le cose belle del mondo allontanarsi da lui, scappare veloci dalla sua impotenza di piccolo uomo che tutto vorrebbe afferrare, avido, e tutto vede sfuggire di mano. E le cose che scappavano da lui lo guardavano inespressive quasi a volergli dire che non è che sia giusta o sbagliata, bella o schifosa, questa realtà che ti tira di qua e che poi ti spinge indecisa dalla parte opposta. Non è giusta o sbagliata, bella o schifosa. È così e basta.
Ora sembra piena.
Ora sembra vuota.
Sa solo sembrare.
Fine

1 commento:

Anonimo ha detto...

Penso che nel complesso il racconto presenti molte indecisioni, ma destinate, con le letture e l'esperienza, ad elidersi e correggersi. Il messaggio del testo è un tessuto pulp, in cui l'iperrealismo del grottesco tende all'autocompiacimento delle proprie connotazioni peggiori. Ma l'ampiezza del discorso, il tentativo di abbracciare un genere e consolidare una "propria" visione della scrittura di finzione, è interessante. Sostenere che in fiction alcune cose siano fini a se stesse, mi pare una critica superficiale e capziosa.