Il giudice sul mulo Periodico perenne di linguaggi letterari.

venerdì 28 novembre 2008

L'esercito della nebbia - terza parte

di Guido Micheli

V) Furio
Furio era appena uscito dalla casa di un suo vecchio amico dove lui e alcuni suoi compagni ultra quarantenni avevano tenuto una rimpatriata. Quella sera i fumi dei bonghi e degli spinelli avevano assunto l’aroma di vecchi sballi giovanili. Molti bicchieri erano stati svuotati, molte Rizla Argento avevano preso fuoco con quel particolare odore che tanto era loro caro, e Furio era uscito da quel devasto contento, felice della consapevolezza di potersi ancora permettere certi svaghi.
Stava tornando a casa sua camminando crasto per le vie del paese quando una Vespa bianca gli si avvicinò. A bordo del ciclomotore, che prese a viaggiare a passo d’uomo al suo fianco, c’era Cristorsi, uno degli uomini che più aveva contribuito a bruciar papelle durante quella serata affumicata. Cristorsi gli tirò un calcio in culo e si allontanò veloce mollando frizione e ruotando il polso destro. Furio prese a urlargli dietro, divertito e ilare, grazie agli sballi dell’ hashish, dandogli del pirata. Si rese conto di essere molto affascinato dal suono della parola “pirata”. Il suo amico mise la freccia e, voltando a destra, si dileguò nel buio. Successivamente un’automobile gli passò accanto e lui, dal marciapiede, non riuscì a trattenersi dal gridare: “Pirata!”.
La macchina si arrestò e ne scese lui, El Bucanero, con l’uncino al posto della mano sinistra, l’occhio bendato, la bottiglia di rum nella mano sana.
“Chi sarebbe il pirata?” chiese avvicinandosi minaccioso.
Furio era esterrefatto e lo sballo gli rendeva difficili i ragionamenti reattivi.
Ecco come divenne una delle tante vittime dell’Esercito della Nebbia
“Se non mi dai dei soldi ti stronco.” fece il pirata agitando minacciosamente l’uncino davanti al suo naso.
“Non ne ho di soldi.”
“Vediamo se con questo smetti di fare resistenza.”
Gli ficcò l’uncino sotto il mento e la punta dell’uncino che, penetrando le sue carni, gli arrivò fino in bocca. Lo trascinò in un vicolo buio. Le gambe di Furio strisciavano per terra mentre gli sembrava che una parte della faccia, comprendente il suo mento, il labbro inferiore e la mascella, fosse sul punto di staccarsi dal resto e rimanere appesa a quel gancio. Fu trascinato per una quindicina di metri che, tuttavia, gli parvero chilometri; la lingua era costretta dalla punta dell’uncino in posizione rialzata e si stava profondamente lacerando, il sangue gli inondava copioso la cavità orale ed in parte scivolava in una cascata rossa attraverso l’esofago, in parte andava a intasare i tubi respiratori. Fu preso da un irresistibile bisogno di tossire, per evitare che i bronchi e i polmoni fossero invasi dal liquido ematico, ma, al primo colpo di tosse, le contrazioni fecero si che l’uncino gli trapassasse la lingua e gli si incastrasse nel palato. Fino a quel momento il pirata aveva camminato trascinando Furio alle sue spalle, col braccio teso all’indietro; ora, giunto in fondo al vicolo, lo trasse avanti a se con un movimento secco facendogli sbattere violentemente le spalle e la nuca contro un muro. Inevitabilmente l’uncino, trapassandogli il palato per via dello strattone, gli andò a finire nel naso, sbriciolandogli letteralmente il setto. Furio, non riuscendo più a respirare, morì in meno di mezzo minuto, soffocando nel sangue. El Bucanero rimase per qualche secondo in piedi, sorridendo nell’ammirare la sua opera. Poi puntò un piede sul petto del corpo di Furio e tirò forte col braccio per disincastrare l’uncino. Udì distintamente lo scricchiolio delle ultime ossa del volto che si spaccavano, il gancio venne via portando con se metà di quello che una volta era stato un volto, e che adesso non era altro che un mucchietto di carne raggrumata e frammenti ossei sparsi per terra.

VI) Il Rauco
Un giorno io e Marco eravamo andati a fumare sulla spiaggia in riva al Ramo e avevamo visto due poliziotti con tanto di divise trascinare un uomo e buttarlo nell’acqua dal molo. Doveva essere un oppositore del regime narcotico. Il regime narcotico consisteva nel conservare l’identità del paese, senza fare niente che attirasse più turisti e niente che ne facesse arrivare di meno. Niente che potesse rendere la vita più interessante, niente che la rendesse più noiosa. Gli oppositori di questo ordine di idee venivano presi e gettati nel Ramo. Si diceva che diventassero dei “dannati”, e si diceva bene. I cosiddetti dannati erano delle anime in pena che nuotavano, anzi, lottavano perennemente per non annegare nelle torpide acque del Ramo e sembrava potessero far naufragare i navigatori. Beh, voi potete benissimo pensare che i miei siano solo vaneggiamenti a sfondo dantesco, ma lasciate che vi riferisca il racconto del Rauco.
Il Rauco si materializzò alle nostre spalle mentre ci stavamo fumando il nostro spinello e prese a raccontare di ciò che era accaduto a suo padre.
“Mio padre aveva una barchetta proprio qui, su questa spiaggetta - cominciò - ma non la utilizzava mai perché aveva paura dei dannati. Si dice che facciano affondare le barche e impazzire i pescatori. Ad ogni modo lui aveva il diritto di tenersi la sua barchetta sulla riva. I corsi d’acqua sono di tutti, no? Sono delle opere di madre natura…”
“Già.” Feci io passandogli la canna. Lui mi ringraziò con un cenno della testa, fece un tiro e riprese a parlare.
“Quindi, secondo me, non c’era nessun motivo per cui a mio padre fosse proibito di tenere qui la sua barchetta. Secondo la polizia, invece, si. Gli sbirri sostenevano che questa spiaggia è proprietà privata, concessa dal comune ai gestori del bar qui vicino. Mio padre, dopo aver cercato di difendere le sue ragioni, cedette all’inflessibilità degli agenti e disse che avrebbe portato la barca in garage. Disse che sarebbe andato a prendere la macchina e il carrello per trasportarla a casa. Gli sbirri, però, non erano ancora contenti; volevano che la portasse via subito, che non rimanesse lì per i cinque minuti che gli ci sarebbero voluti per andare a prendere l’automobile e portarla fino alla spiaggia. La cosa avrebbe dato loro la nausea. No, mio padre doveva andarsene subito e doveva farlo mettendo la barca in acqua perché la spiaggia fosse liberata all’istante. Lui parlò loro dei suoi timori ma questi non gli prestarono ascolto; lo costrinsero a salire in barca e a prendere il largo. Quando fu lontano dalla spiaggia la barchetta si rovesciò. Mio padre non fece più ritorno a riva. Ho sporto denuncia nei confronti dei due poliziotti, ma temo non subiranno nessuna sanzione, sebbene abbiano sulla coscienza una vita umana.”
Il rauco smise di parlare, diede un’occhiata alla canna che nel frattempo si era spenta, prese l’accendino e la rianimò. Per un po’ restammo in silenzio.
(continua...)

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