Il giudice sul mulo Periodico perenne di linguaggi letterari.

domenica 30 marzo 2008

Noi Possiamo

di Tobia Deruna

Ehi voi, realisti pragmatici delusi, su,
un nuovo scatto per la crescita globale,
il miracolo italiano vi chiama o il sistema
vi lascerà all’angolo in fondo a sinistra!

Ehi voi, timorosi difensori dei diritti
civili (ma mai sostanziali), pacati
analisti con vecchi ideali nascosti
in cassette di sicurezza a doppia mandata,
è tempo di un passo verso il progresso
e due passi verso una carriera imprecisa!

Un nuovo scatto, un nuovo modello
Un sorriso per Mtv ed un ramoscello,
non puntate sul rosso, non puntate sul verde
generazione globale con un sogno privato.

Ehi voi difensori apocrifi della precarietà
acrobati del consenso autoriflesso,
generazione di moplen, democratici
e progressisti a tempo perso,
figli di un benessere minore:
la celebrità è lì che vi aspetta!

Ehi, bella generazione dorata,
smettete di scendere in piazza
plaudete al nuovo miracolo italiano,
seppellite l’ascia del conflitto di classe!

Celestino, non andare in Africa,
i riflettori ti aspettano, scroscianti
gli applausi: è tutto un mondo intorno
a te che osserva il tuo contratto scaduto!
Ma tu ormai lo sai: questa volta
noi possiamo! Fare che? Guardare…

venerdì 21 marzo 2008

Tre poesie d'amore a Dada

di Ezechiele Lupo

1.

Volevo darti un bacio
Abbracciarti un po’
Ma sei scivolata
Nel pertugio della mia camicia
Fin giù all’ombelico.
Ora è il caso che io taccia
Della mia perduta ignorante verginità
Sei la colpevole
Imperdonabile.


2.

San Patrizio ci tese la mano.
Volevo dirtelo che mi piaci

Ma sei scappata con il mio trifoglio
Mentre ti facevo sconce proposte

Forse domani ti vedo
E allora riempirò la mia stanza di rose.


3.

Temo che il silenzio ci mangi le mani
Una perversa frenesia mi prende le mani
Se non ti vedo mi mangio le mani
Pensavo già oggi che fosse domani.

A volte credo che mi cambierai la vita.

lunedì 17 marzo 2008

Prima lettera di Nepomuceno Sadda al Giudice sul mulo – La sindrome di Into The Wild

Caro Giudice,

Scrivo per raccontarLe di una chiacchierata e di una riflessione.

Ieri discutevo - tramite uno di quei catalizzatori di comunicazione che il fornitore del sistema operativo del nostro personal computer ci fa trovare installato indipendentemente dalla nostra volontà - con lo stimato Ezechiele Lupo: si parlava del più e del meno, forse più del meno che del più, ma fattostà che mi sono ritrovato a lamentare la mancanza di tempo libero in sede di lavoro; mancanza che, ahimé, si traduce nell'impossibilità dell'esercizio della bella scrittura.

Al che il valente Ezechiele mi ha rammentato che questa è diretta conseguenza della concezione di tempo libero che la società industrializzata ci ha imposto.

Cerco di esporvi il problema in pochi concetti essenziali: mi ripropongo di scrivere nei tempi morti sul lavoro, cioè la mia disponibilità alla scrittura è funzione della libertà che l'azienda mi concede. In definitiva sono entrato in un meccanismo nel quale sono fattori esterni a determinare i tempi del mio rapporto con la letteratura. In sostanza esercito la mia libertà di pensiero in gabbie temporali prestabilite a discrezione dei miei superiori. (E mi ritrovo dunque a dire che se avrò tempo scriverò di non avere tempo se l’azienda non mi concede tempo).

La discussione ha poi preso una piega piuttosto radicale: è accettabile in una società avanzata impiegare 40 ore settimanali in un lavoro retribuito, volto alla creazione di beni sostanzialmente superflui o che non saranno fruibili dal diretto produttore? Non sarebbe opportuno limitare a circa 15/20 le ore lavorative, e dedicare il resto della settimana ad attività di svago o socialmente utili?

Certo, la prima conseguenza di un tale sistema sarebbe una drastica frenata nel progresso tecnologico e scientifico. Una politica di "decrescita" è accettabile da una società abituata a riposare della calda bambagia dei beni superflui?

Ezechiele Lupo mi ha suggerito un'arguta definizione: "Sindrome da Into The Wild".
Abbandonare tutto, rifugiarsi nel panismo, risvegliare quel primitivo sentimento di coesione con la Natura seppellito da metri di cemento e silicio (non ho detto "cilicio", quindi Opus Dei, di grazia, abbassi quel frustino).

Poi ieri, prima di addormentarmi, ho riflettuto su quanto sia contraddittorio disquisire di natura selvaggia, in pieno Occidente, seduto davanti ad un pc.

La mia idea di natura è questa: una paesaggio bucolico, un tiglio secolare... ed io sdraiato all'ombra delle sue fronde con l'iPhone in mano.

E in quel momento ho realizzato: mi duole ammetterlo caro Giudice, faccio parte del sistema. E un po' mi piace.

Sono forse colpevole per questo? E se sì: qual è la mia colpa?

Cordiali Saluti,

Nepomuceno Sadda

giovedì 13 marzo 2008

Senza titolo

di R. Castoro

Chiuso fra un’aspirazione e me stesso
Sotto una stoffa dalla quale non vedo
Avverto il suono di una luce
Che disegnando una nota
Annoda il sonno e la veglia
Di una giornata che inizia finendo.

sabato 8 marzo 2008

E tu Siddharta

di Norberto Giffuri

Il salice dalla balza
quieto porgeva le sue fronde
al fiume - lo zefiro ancora
spira e desiste, agita e rinuncia,
nell'abbraccio dei rami -

e tu Siddharta
nella povera casa
cedevi il capo all'ultimo sonno
una lacrima
mossa dal rimpianto
tradiva l'inganno dei tuoi giorni

grande stolto saggio
solo allora sapesti:
soffoca la vita
chi uccide desiderio.

sabato 1 marzo 2008

Prima lettera di Norberto Giffuri al Giudice sul Mulo - Self Fulfilling Prophecy

Egregio Giudice sul Mulo,

Forse si sta domandando chi è costui che ha l'ardire di scriverLe e la vuole obbligare ad impegnare il suo prezioso tempo nella lettura di una missiva. Tempo che Lei potrebbe dedicare al suo lavoro, o al suo diletto. Non mi biasimi, signor Giudice, se tra tanti ho deciso di rivolgermi proprio a Lei. Deve sapere che nutro un profondo rispetto per la sua persona, generato dalla lettura appassionata e fervida dei suoi scritti. Che dire, la ringrazio per la sua lucidità nel guardare alle cose del mondo, per la sua dignità, per avermi condotto sulla via delle belle lettere.

Sono un ventiseienne che vive in una bella città sulle sponde del Mediterraneo. Che piacere quelle giornate di vento e cielo terso, le passeggiate in compagnia della risacca che schiuma, le lunghe serate estive trascorse con gli amici sul molo. Ma lei che conosce bene i moti interiori dello spirito -chi ama la letteratura conosce l'anima- sa che ad un giovane questo non basta. Sa che la mia è l'età della responsabilità, l'età delle scelte. E sa anche che occorrono speranze per dissipare le nebbie che celano il futuro, servono certezze, e fiducia.
E può certo immaginare come mi senta, caro Giudice, a vivere in un paese dove una profezia di decadenza sembra aleggiare da tempo.

Questi ultimi giorni poi, passati a cercare di tirar sera al lavoro, osservando fuori dalla finestra un mare immobile, immenso, desolato...circondato da altri giovani del mio ufficio che con guardo spento di sdilinquivano di fronte a schermi pieni di caratteri: la noia, gramigna che infesta il pensiero, si è avvinghiata a quel poco che ha trovato tra le strette pareti del cranio.

Non c'è sprone, non c'è volontà, non ci sono speranze. Dovrebbe ascoltare i nostri discorsi da pausa pranzo: "Con il mio stipendio non tiro fine mese" "Che sia uno o sia l'altro al governo poco cambia" "Faremo la fine di quelli in Argentina". Questa è l'atmosfera che si respira tra le quattro mura della mensa. Umberto Eco, dalle pagine di una rivista della quale ora non rammento il nome, ha parlato di self-fulfilling prophecy, una funesta profezia che si autoalimenta, che si autoavvera.

Nutro due timori: che si arrivi ad affermare -come in tanti fecero due secoli orsono - "meglio la barbarie che l'ennui", terribile pensiero che fa da preludio ai peggiori massacri. Oppure che si finisca per accettare la decadenza come una compagna non poi troppo scomoda...e che si viva giorno per giorno, arrabattandosi con pochi mezzi e rabberciando una vita sempre più disillusa, sempre più scialba.

Questo pavento, Giudice, questo mi rammarica e mi duole: finirò per far parte della schiera degli ignavi, coloro che hanno goduto della facoltà di scegliere e che hanno preferito incrociare le braccia ed attendere i barbari?

Suo,
Norberto Giffuri