Il giudice sul mulo Periodico perenne di linguaggi letterari.

sabato 1 marzo 2008

Prima lettera di Norberto Giffuri al Giudice sul Mulo - Self Fulfilling Prophecy

Egregio Giudice sul Mulo,

Forse si sta domandando chi è costui che ha l'ardire di scriverLe e la vuole obbligare ad impegnare il suo prezioso tempo nella lettura di una missiva. Tempo che Lei potrebbe dedicare al suo lavoro, o al suo diletto. Non mi biasimi, signor Giudice, se tra tanti ho deciso di rivolgermi proprio a Lei. Deve sapere che nutro un profondo rispetto per la sua persona, generato dalla lettura appassionata e fervida dei suoi scritti. Che dire, la ringrazio per la sua lucidità nel guardare alle cose del mondo, per la sua dignità, per avermi condotto sulla via delle belle lettere.

Sono un ventiseienne che vive in una bella città sulle sponde del Mediterraneo. Che piacere quelle giornate di vento e cielo terso, le passeggiate in compagnia della risacca che schiuma, le lunghe serate estive trascorse con gli amici sul molo. Ma lei che conosce bene i moti interiori dello spirito -chi ama la letteratura conosce l'anima- sa che ad un giovane questo non basta. Sa che la mia è l'età della responsabilità, l'età delle scelte. E sa anche che occorrono speranze per dissipare le nebbie che celano il futuro, servono certezze, e fiducia.
E può certo immaginare come mi senta, caro Giudice, a vivere in un paese dove una profezia di decadenza sembra aleggiare da tempo.

Questi ultimi giorni poi, passati a cercare di tirar sera al lavoro, osservando fuori dalla finestra un mare immobile, immenso, desolato...circondato da altri giovani del mio ufficio che con guardo spento di sdilinquivano di fronte a schermi pieni di caratteri: la noia, gramigna che infesta il pensiero, si è avvinghiata a quel poco che ha trovato tra le strette pareti del cranio.

Non c'è sprone, non c'è volontà, non ci sono speranze. Dovrebbe ascoltare i nostri discorsi da pausa pranzo: "Con il mio stipendio non tiro fine mese" "Che sia uno o sia l'altro al governo poco cambia" "Faremo la fine di quelli in Argentina". Questa è l'atmosfera che si respira tra le quattro mura della mensa. Umberto Eco, dalle pagine di una rivista della quale ora non rammento il nome, ha parlato di self-fulfilling prophecy, una funesta profezia che si autoalimenta, che si autoavvera.

Nutro due timori: che si arrivi ad affermare -come in tanti fecero due secoli orsono - "meglio la barbarie che l'ennui", terribile pensiero che fa da preludio ai peggiori massacri. Oppure che si finisca per accettare la decadenza come una compagna non poi troppo scomoda...e che si viva giorno per giorno, arrabattandosi con pochi mezzi e rabberciando una vita sempre più disillusa, sempre più scialba.

Questo pavento, Giudice, questo mi rammarica e mi duole: finirò per far parte della schiera degli ignavi, coloro che hanno goduto della facoltà di scegliere e che hanno preferito incrociare le braccia ed attendere i barbari?

Suo,
Norberto Giffuri

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