Il giudice sul mulo Periodico perenne di linguaggi letterari.

mercoledì 24 dicembre 2008

Tre libri: tre regali in tre minuti


Boris Vian – La schiuma dei giorni

di Norberto Giffuri

Vian, scrittore e musicista francese vicino all'Esistenzialismo e alla letteratura matematica di Raymond Queneau, racconta una storia d'amore con leggerezza, purezza e una pennellata di surrealismo.
Il risultato è una fiaba moderna atipica e avvincente. Vian, tra un'invenzione e l'altra, trova anche il modo di collocare una forte denuncia al conformismo della società francese del secondo dopoguerra.
Un'apologia della fantasia: dopo l'ecatombe la letteratura veste ali di farfalla.

Boris Vian, La schiuma dei giorni, Marcos y Marcos, Milano, 2005, pp. 268, euro 13,50.

* * *

Luciano Bianciardi – Non leggete i libri, fateveli raccontare

di Ezechiele Lupo

Nel 1967 Luciano Bianciardi, grossetano trapiantato nella grande Milano degli anni ‘50, intellettuale contro, quasi animalesco, ma dotato di sapida ironia e sensibilità leggera, pubblica in sei puntate sulla rivista ‹‹ABC›› un pamphlet oggi riproposto dalla piccola casa di saggistica Nuovi Equilibri, all’interno della collana Eretica. In Non leggete i libri, fateveli raccontare – Sei lezioni per diventare un intellettuale dedicate in particolare ai giovani privi di talento il Bianciardi introduce il lettore nell’ambiente culturale, che egli stesso ha sempre disprezzato e trattato con quell’ironia della tristezza, dell’insoddisfazione, del “complessato”, del diverso, fino a morirne. Un manuale che insegna a vivere “come un intellettuale”, che mette sullo stesso piano l’allevamento di pollame e il mestiere dello scrittore, abbassando volontariamente con rabbia, rassegnazione e sferzante satira nera, il grottesco mondo della cultura che si compiace del proprio elitarismo, e che espone come Venerdì civilizzato il metalmeccanico con l’‹‹Unità›› in tasca. Lo stesso mondo intellettuale che Bianciardi ha rifiutato per debolezza e fragilità mentale: ribellandosi col sarcasmo del cinico e l’irruenza irrazionale del bambino. L’intellettuale è un gattino da salotto, o una bestia selvaggia da cui la civiltà fugge? Bianciardi, con una delle sue più belle immagini, protestava terribilmente: ‹‹Ma che succede? Più mi ribello e meglio vengo accettato nei salotti: come una specie di tigre da esibire.››

Luciano Bianciardi, Non leggete i libri, fateveli raccontare, Nuovi Equilibri, Viterbo, 2008, pp. 93, euro 9,00.

* * *


La morte dell’autore: Suicide di Edouard Levè

di R. Castoro

Magari infiocchettatelo per il vostro peggior nemico, ma non perdete l’occasione di far leggere Suicide di Edouard Levè a qualche persona, rivale o meno, che sapete essere in grado di pensare e sentire. Dopo aver consegnato il manoscritto al suo editore, Edouard Leve – narratore e fotografo francese di 43 anni quasi ignorato in Italia, oggi riscoperto da Bompiani con la traduzione di Sergio Claudio Perroni – si toglie la vita. Il testo, partendo dalla morte auto inferta di un amico, svolge la memoria dell’autore, imprimendo un taglio da istantanea a ricordi che modellano una vera e propria genealogia della vita. Della vita, appunto, e non della morte, come spesso accade per la letteratura che parla di fine, di male d’essere, di paura, di, in fondo, stati d’animo che cercano una giustificazione. In un unico respiro, senza interruzioni, la narrazione si ferma a tracciare episodi ed idee del suicida, in un incalzante climax ondulato, che passa da momenti cronachistici a sottili indagini psicologiche, fino ad una raccolta di terzine che racchiudono il solipsistico ed egocentrico caos vitale in cui si perdono, insieme, protagonista ed autore. “La tua morte è stata la morte della vita. Eppure mi piace credere che tu incarni il contrario, la vita della morte. Non so sotto quale specie tu sopravviva al tuo suicido, ma la tua scomparsa è tanto inaccettabile da generare questa follia: credere nella tua eternità.”

Edouard Leve, Suicidio, Bompiani, Milano, 2008, pp. 120, euro 14,00.

domenica 21 dicembre 2008

Nascita

di Victor Attilio Campagna

Placida onda, 

vizi il mare.

Non con sciabordare
ma col passare
inerpichi te
sulle scogliere
ed è qui che il sole
batte come vento.

È fuoco che arde
sulla pietra – il resto
tace – 
è una lotta
sulla terra:
nudi sulla nudità;
bagnati dall’estasi
delle mani.
Ve ne state avvinghiati,
acqua e fuoco;
il giudice inerte
osserva,
con la solita freddezza invita
le mandrie respirate
a staccarsi
solo per riprendere
ancora.

Da pubblico 
la sabbia,
l’amica sabbia,
che tanto l’acque ama,
e il vento,
che tace 
quando il sole passa.

Il fiato da ultimo
annoiato 
siede sul pietrisco;

in un catino si raduna 
il loro sudore,
biancastro e schiumoso;
“la nudità eccita
urla e si dibatte,
cade e salta,
non ferma in lode s’avvicina.”
Così urlano, così
pensano.
I giorni passano,
ma la nuda lotta 
imperterrita
spare e compare,
continua,
invano il tempo s’avvicina
a sussurrare:
“Ferma, è Luna!”

Perché fuoco e acqua 
già giacciono stanchi 
sulla terra spoglia,
spogli anche loro:
sono veri;
le loro cosce
infinite,
(il suo seno limpido,
la sua bocca carnosa,
il suo sorriso d’altura,
la sua mano pesante):
sono nudi,
uomo e donna,
donna e uomo,
coscienti della loro stanchezza,
in mano 
hanno unito il seme.

Nacque solo un viso:
nacque quel che si dice 
Afrodite
dalla spuma dell’acqua
e dalle mani del sole;

già nata 
sapeva dell’Amore.

(innato l’istinto 
maturava una carezza).

venerdì 12 dicembre 2008

No - ultima parte

di Asincheraglia

Turchia, Iran, Afghanistan, Pakistan, Nepal. Per lui, quel viaggio, era durato due anni e due mesi. Ora restava solo una foto sorridente, occhi piccoli, sbarbato, con la nonna e Jano, il cane pastore di campagna. Negli anni ’70 quello non era un itinerario, ma un percorso esistenziale, una ricerca vera e propria. Si chiama rotta Hippie, e lo zio Alberto l’aveva descritta minuziosamente in un diario custodito dalla nonna. Prima, in famiglia, aveva ingenerato imbarazzo – più o meno come quell’avo ottocentesco, deputato del Regno, sfuggito spregevolmente a un duello perché autore della precoce deflorazione della bella baronessa Lupo – poi l’impresa era stata coperta da un’aura mitologica, perché, in fondo, è più piacevole ostentare che glissare. E così, codardi antenati fedifraghi e zii irrequieti morti di lsd, rientravano in uno speciale pantheon familistico dall’eccezionale indulgenza. Due anni e due mesi “per riscoprire, oltre la banalità della perifrasi, ciò che sono, ciò che voglio” recitava il diario dello zio Alberto. A Michele erano stati concessi cinque giorni. E adesso li distingueva uno per uno e ne coglieva il senso. In ospedale, il medico abbronzato avrebbe potuto operarlo anche il mattino seguente. Forse sarebbe stato meglio. Minuto dopo minuto, ogni sospiro in più non sarebbe stato seguito da uno di sollievo. Ma, umanamente, un interstizio cronologico per accomodare quello che puoi o vuoi o devi, è necessario. Per riordinare le idee, per farle ordinare, soprattutto, a chi ti ha visto e non solo rischia, come te, di non vederti più, ma dovrà perfino sopravvivere agli eventi.
Istanbul, Teheran, Kabul, Islamabad, Kathmandu. Tutto il tempo e tutto lo spazio per comprendere. E, se proprio non ci arrivi, l’appercezione traghettata dalle droghe. Michele, per trovare se stesso, fece il giro dell’isolato. In due ore e due minuti. Per aiutarsi, bevve mezza Coca Cola.
Le scuole elementari, il nido, il liceo che già dall’anno dopo la sua dipartita era stato abbandonato per un nuovo ma sempre fatiscente edificio. Macerie della memoria che non evocavano nulla o quasi. Una certa tristezza, subito travolta dall’angoscia pulsante nelle orecchie. Avvertì, allora, una nostalgia più forte, che aveva a che fare col futuro. Quella dei ricordi possibili e potenziali, dei ricordi in cantiere data l’assenza di esperienze sufficienti. Pensò che sarebbe stato piacevole, alla fine, trovare un filo conduttore, una sorta di telaio di cotone in grado di legare tutti gli eventi di una vita. Per questo valeva la pena andare oltre i 25 anni, e per poco altro. Perché quella domanda se l’era posta senza riuscire a concepire risposte risolutive. In effetti, non esiste alcun valido motivo per vivere. Solo una gamma di voglie, capricci, aspirazioni, tutte volubili e momentanee. E il dispiacere montava perché, del resto, non esiste neppure alcun valido motivo per morire. Il pensiero, relegando gli acquerelli del passato sullo sfondo, si ostinava a sbrigliare le immagini della vacanza da poco trascorsa. Le lunghe spiagge, la biblica sensazione di camminare fino al largo, la guida astratta e sicura dell’ amico. Il “no” di quella ragazza, che avrebbe amato volentieri – ecco un altro legittimo motivo per scommettere sul chirurgo abbronzato – con l’amore denso di quella canzone che faceva “Quando in anticipo sul tuo stupore verranno a chiederti del nostro amore, tu regalagli un trucco che con me non portavi e loro si stupiranno che tu non mi bastavi. I tuoi occhi troppo stanchi per non vergognarsi di confessarlo nei miei proprio identici ai tuoi, sono riusciti a cambiarci ci son riusciti lo sai.”

In fondo, “no” era la sua parola preferita. Grazie al rigore di quelli che come lui ritenevano che prima di tutto e di qualsiasi altra parola importante, bisogna dire “no” a tutto ciò che lo merita, aveva sentito vibrare il suo cuore in maniera strana. Il giorno dell’operazione non era affatto riposato. Gli spiacque cedere all’anestesia perché sentiva che gli sarebbe bastato solo qualche secondo in più per capire quello che aveva sempre saputo. Prima le mani ronzano, i pensieri si muovono, il cuore batte. Poi, in un istante

Fine

mercoledì 10 dicembre 2008

No - prima parte

di Asincheraglia

Con la testa reclinata ed un occhio chiuso, osservava catatonico il triangolo disegnato dal finestrino dell’auto insieme ad un segmento della carlinga. Sulla sinistra, la guida sicura ed astratta dell’amico. A destra, l’asfalto e la dinamica banda ingrigita ma baluginante nel buio illuminato della sera. Nel cuore marciva un dolore sordo.
La sua risposta era stata, elise facili sofisticherie, “no” e nella notte, quando i pensieri sono tiranni, immaginava la sua vita disposta su una tela pronta per essere colpita al centro.
Sogni pieni di fragilità – le zampe di un cavallo, l’esistenza di un insetto, la durata di una pozzanghera in estate – crescevano come bolle, mentre nel cuore una coltre sempre più pesante si depositava polverosa.
Il mare, da quelle parti, asseconda la voglia di riposo assoluto. Nella sabbia che ti fa toccare fino al largo e nei massi artificiali disposti in acqua che ti impediscono di osservare l’orizzonte, Michele aveva trovato un appoggio sicuro. Nulla a che spartire con le onde siciliane, sempre agitate nel percuotere gli scogli. E poi gli abissi immediati e l’orizzonte così vicino. Insomma, aveva preso coraggio e per lei si era perfino confrontato con la bizzarra umanità che affolla le discoteche della riviera, quando oltre alla musica e al calore della moltitudine pressata, improvvisi ed ingiustificati getti di schiuma lubrificano gli incontri. Schiumaparty, dicono. Poi la notte aveva inghiottito tutto, i lampioni provvidenzialmente rotti tacevano, e l’olfatto godeva dello straordinario odore, diffuso dalle braccia di lei, dell’acqua dolce che lava l’acqua salata.
Ma la risposta era stata “no”, e allora i ricordi si macchiavano e si mescolavano, creando un pasticcio volontario nella memoria. Imbarazzato, ripensava alla sua reazione, tutto sommato dignitosa, nel momento in cui credeva che perfino le zanzare, sospese per ascoltare la conversazione, avessero intonato una risata collettiva di scherno.
“Ah..Beh, non ti biasimo. “No” è una parola importantissima, la più importante secondo Jose Saramago, autore che apprezzo particolarmente. Prima di tutto e di qualsiasi altra parola importante, secondo lui bisogna dire “no” a tutto ciò che lo merita.”
Ora la linea bianca della strada tornava più grande e luminosa, come se le pupille si fossero improvvisamente dilatate, e i pensieri ronzavano distanti come scacciati da una scossa elettrica. Ci vollero tre sospiri prima di capire che l’ossigeno sembrava bloccarsi all’altezza delle spalle. Una calma lugubre lo accompagnò per i minuti successivi, nei quali il ricordo di una corsa interrotta a metà, tempo prima, fu ricollegato ai medesimi sintomi. In più, allora, un formicolio diffuso gli aveva setacciato il corpo. Evidentemente, il suo cuore non era più abituato alle prove fisiche. Né a quelle emotive.

Dovrebbero educarti fin da bambino, pensò. Dalla scuola materna 5 ore settimanali di preparazione alla morte. Morirai. Tu morirai. Fino a quando il suono ferroso di quel sostantivo non diventi indifferente come quello di sedia o finestra o pane. Pane no. Sedia. Non poté fare a meno di sentirsi colpevole. In fondo, le religioni non sono che delle tecniche di allenamento. Le chiese delle palestre all’avanguardia, i preti dei personal trainer molto incompetenti come quasi tutti gli istruttori di ginnastica. E lui non aveva mai ascoltato per bene quelle parole e l’ultima volta che era entrato in chiesa era capitato quasi per sbaglio. Masticava pensieri e adrenalina salendo le scale del policlinico. Tutto orribilmente candido. La stanza del prof. puzzava di farmaci e il medico, abbronzato e alto, sembrava mortificare i pazienti con un’ipertrofica sicurezza salutista. Dalle orecchie pulsanti distinse delle battute cordiali. Il muscolo più importante della mia vita non funziona e lui scherza, pensò. Ogni cosa gli sembrava fuori luogo: lo stetoscopio gelato, tossire, ancora, le mani sulle spalle, la luce che disegnava i particolari del suo cuore, una sorta di Calcutta dal satellite, nera di smog e piena di arterie sovrapposte. La diagnosi, qualunque esse fosse, prevedeva l’operazione cinque giorni dopo, preferibilmente a stomaco vuoto.
“Il problema sarà riprendere a mangiare dopo questa notizia” sussurrò Michele.
“Onestamente, non avevo idea della gravità del caso. Il dott. Fazi mi aveva solo accennato. In occasioni simili bisogna considerarsi fortunati ad aver constatato per tempo la disfunzione. Da quest’ottica anche l’operazione diventa più accessibile.”
Ma l’ottica di Michele era crollata così in fondo che a stento riusciva a scorgere l’ovale del prof. Si resse al lettino. Era come se osservasse distintamente la forza del proprio corpo prendere forma e fuggire, dalle gambe, dalle braccia, dallo stomaco, fuggire, abbandonare la nave in naufragio.
“Io non do mai percentuali di riuscita, le statistiche in chirurgia hanno poco senso. In questi giorni si rilassi e cerchi di arrivare alla data dell’operazione riposato.”
Lentamente scese le scale mentre il Professore, sempre più alto e abbronzato, lo guardava appoggiato allo stipite della porta, con occhi di speranza che Michele faticava a comprendere.
Ora avrebbe incontrato i suoi genitori fermi in sala d’aspetto, che inquadrò da lontano senza essere visto. Parlottavano ignari. Sua madre era certa si trattasse di una sciocchezza. Suo padre aveva evitato giudizi. Un’allegra e vaga incuria fatalista era sempre stata la forza della loro famiglia. La superficialità necessaria per stare in superficie. Ma in quel momento, la serenità che, pur fra alti e bassi, li aveva accompagnati per i primi 25 anni di vita gli parve una bugia, per di più priva di valore.
(continua...)

venerdì 5 dicembre 2008

Contro il suicidio

di Ezechiele Lupo

Quando sull’apice una punta trafigge
La figura della gloria

Quando l’idea dello scopo diventa la fine,
Una figura della gloria

Quando il tutto riempie ogni cosa
E nulla si svuota di gloria

Quando l’ultima corda completa il cerchio
E il raggio si acquieta nella gloria

Quando l’arrivo non è una stazione,
Manca la vita. E della gloria?

Io sono quel pezzo infinitesimale di cuore
Che rimane nella bocca del suicida.

martedì 2 dicembre 2008

Destino.

di Norberto Giffuri

“ Hai presente Tom e Jerry? ”
“ Ti pare che non possa averli presenti?”
“ Infatti..hai avuto anche tu un'infanzia...non la si nega a nessuno.”
“ A qualcuno sì...”
“ Beh, sì.”

(silenzio)

“ Dicevo, Tom e Jerry. Non so esattamente quale puntata, ma una di quelle più vecchie...”
“ Quelle disegnate meglio? ”
“ Quelle disegnate meglio. ”
“ Finale...la governante nera e grassoccia rincasa...apre la porta e si mette le mani nei capelli...anzi, nella cuffietta gialla o bianca, non ricordo...comunque, immaginatela con le mani sopra la testa e la bocca aperta anzi apertissima..cos'ha visto? Un gran trambusto, sedie rovesciate, finestre spalancate, porte staccate dai cardini e...carbone. ”
“ Carbone? ”
“ Sì, carbone...non so come sia accaduto...non mi domandare le dinamiche...certo è stato un brutto tiro giocato da Jerry...la casa piena di carbone, ovunque...nero il pavimento, nere le tende, neri i mobili, nera la governante nera che si infuria si volta e chi vede? Tom...il colpevole...per lei, dico. ”
“ Ma di chi è la colpa? ”
“ Di Jerry...ma è stato provocato...e poi comunque, non è così scontato arrivare ad un giudizio...sai quel proverbio...se tiri una pietra in aria qualcuno colpevole lo colpisci di sicuro...”
“ Questo è puro relativismo culturale. E non lo apprezzo. ”
“ Direi di passare oltre allora. La serva negra strilla e si agita. Tom è terrorizzato, tiene la coda tra le gambe, le orecchie basse...indietreggia...poi comincia a correre, a predifiato, attraversando un verde prato che risale una collina...la serva raccoglie un pezzo di carbone e lo scaglia con le sue braccia nerborute...il lancio disegna un parabola nel cielo...Tom è oramai all'orizzonte..sembra fatta. Ma ecco il pezzo di carbone che piomba perfettamente a perpendicolo sulla testa di Tom...una traiettoria perfetta e zac, steso...caput. Sai dirmi cos'è quel nero pezzo di carbone? ”
“ No, cosa? ”
“ Te lo dico io. È il Destino. ”