Il giudice sul mulo Periodico perenne di linguaggi letterari.

mercoledì 10 dicembre 2008

No - prima parte

di Asincheraglia

Con la testa reclinata ed un occhio chiuso, osservava catatonico il triangolo disegnato dal finestrino dell’auto insieme ad un segmento della carlinga. Sulla sinistra, la guida sicura ed astratta dell’amico. A destra, l’asfalto e la dinamica banda ingrigita ma baluginante nel buio illuminato della sera. Nel cuore marciva un dolore sordo.
La sua risposta era stata, elise facili sofisticherie, “no” e nella notte, quando i pensieri sono tiranni, immaginava la sua vita disposta su una tela pronta per essere colpita al centro.
Sogni pieni di fragilità – le zampe di un cavallo, l’esistenza di un insetto, la durata di una pozzanghera in estate – crescevano come bolle, mentre nel cuore una coltre sempre più pesante si depositava polverosa.
Il mare, da quelle parti, asseconda la voglia di riposo assoluto. Nella sabbia che ti fa toccare fino al largo e nei massi artificiali disposti in acqua che ti impediscono di osservare l’orizzonte, Michele aveva trovato un appoggio sicuro. Nulla a che spartire con le onde siciliane, sempre agitate nel percuotere gli scogli. E poi gli abissi immediati e l’orizzonte così vicino. Insomma, aveva preso coraggio e per lei si era perfino confrontato con la bizzarra umanità che affolla le discoteche della riviera, quando oltre alla musica e al calore della moltitudine pressata, improvvisi ed ingiustificati getti di schiuma lubrificano gli incontri. Schiumaparty, dicono. Poi la notte aveva inghiottito tutto, i lampioni provvidenzialmente rotti tacevano, e l’olfatto godeva dello straordinario odore, diffuso dalle braccia di lei, dell’acqua dolce che lava l’acqua salata.
Ma la risposta era stata “no”, e allora i ricordi si macchiavano e si mescolavano, creando un pasticcio volontario nella memoria. Imbarazzato, ripensava alla sua reazione, tutto sommato dignitosa, nel momento in cui credeva che perfino le zanzare, sospese per ascoltare la conversazione, avessero intonato una risata collettiva di scherno.
“Ah..Beh, non ti biasimo. “No” è una parola importantissima, la più importante secondo Jose Saramago, autore che apprezzo particolarmente. Prima di tutto e di qualsiasi altra parola importante, secondo lui bisogna dire “no” a tutto ciò che lo merita.”
Ora la linea bianca della strada tornava più grande e luminosa, come se le pupille si fossero improvvisamente dilatate, e i pensieri ronzavano distanti come scacciati da una scossa elettrica. Ci vollero tre sospiri prima di capire che l’ossigeno sembrava bloccarsi all’altezza delle spalle. Una calma lugubre lo accompagnò per i minuti successivi, nei quali il ricordo di una corsa interrotta a metà, tempo prima, fu ricollegato ai medesimi sintomi. In più, allora, un formicolio diffuso gli aveva setacciato il corpo. Evidentemente, il suo cuore non era più abituato alle prove fisiche. Né a quelle emotive.

Dovrebbero educarti fin da bambino, pensò. Dalla scuola materna 5 ore settimanali di preparazione alla morte. Morirai. Tu morirai. Fino a quando il suono ferroso di quel sostantivo non diventi indifferente come quello di sedia o finestra o pane. Pane no. Sedia. Non poté fare a meno di sentirsi colpevole. In fondo, le religioni non sono che delle tecniche di allenamento. Le chiese delle palestre all’avanguardia, i preti dei personal trainer molto incompetenti come quasi tutti gli istruttori di ginnastica. E lui non aveva mai ascoltato per bene quelle parole e l’ultima volta che era entrato in chiesa era capitato quasi per sbaglio. Masticava pensieri e adrenalina salendo le scale del policlinico. Tutto orribilmente candido. La stanza del prof. puzzava di farmaci e il medico, abbronzato e alto, sembrava mortificare i pazienti con un’ipertrofica sicurezza salutista. Dalle orecchie pulsanti distinse delle battute cordiali. Il muscolo più importante della mia vita non funziona e lui scherza, pensò. Ogni cosa gli sembrava fuori luogo: lo stetoscopio gelato, tossire, ancora, le mani sulle spalle, la luce che disegnava i particolari del suo cuore, una sorta di Calcutta dal satellite, nera di smog e piena di arterie sovrapposte. La diagnosi, qualunque esse fosse, prevedeva l’operazione cinque giorni dopo, preferibilmente a stomaco vuoto.
“Il problema sarà riprendere a mangiare dopo questa notizia” sussurrò Michele.
“Onestamente, non avevo idea della gravità del caso. Il dott. Fazi mi aveva solo accennato. In occasioni simili bisogna considerarsi fortunati ad aver constatato per tempo la disfunzione. Da quest’ottica anche l’operazione diventa più accessibile.”
Ma l’ottica di Michele era crollata così in fondo che a stento riusciva a scorgere l’ovale del prof. Si resse al lettino. Era come se osservasse distintamente la forza del proprio corpo prendere forma e fuggire, dalle gambe, dalle braccia, dallo stomaco, fuggire, abbandonare la nave in naufragio.
“Io non do mai percentuali di riuscita, le statistiche in chirurgia hanno poco senso. In questi giorni si rilassi e cerchi di arrivare alla data dell’operazione riposato.”
Lentamente scese le scale mentre il Professore, sempre più alto e abbronzato, lo guardava appoggiato allo stipite della porta, con occhi di speranza che Michele faticava a comprendere.
Ora avrebbe incontrato i suoi genitori fermi in sala d’aspetto, che inquadrò da lontano senza essere visto. Parlottavano ignari. Sua madre era certa si trattasse di una sciocchezza. Suo padre aveva evitato giudizi. Un’allegra e vaga incuria fatalista era sempre stata la forza della loro famiglia. La superficialità necessaria per stare in superficie. Ma in quel momento, la serenità che, pur fra alti e bassi, li aveva accompagnati per i primi 25 anni di vita gli parve una bugia, per di più priva di valore.
(continua...)

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