Il giudice sul mulo Periodico perenne di linguaggi letterari.

venerdì 7 giugno 2019

Ibis

di Oscar Dante

Passare, attraversare le vite degli altri,
senza averne una propria.
Entrare piano dentro il luogo sconosciuto
nel rigoglio degli incanti delle sue braccia avvolgenti
e lasciarsi possedere dal suono dell’uccello sacro
che in esso vive tramortito dallo spavento dell’angosciosa sofferenza
consapevole di dover partire.
Incapace di scegliere la fonte a cui attingere è
costretto nel calore soffocante della terra da cui proviene
venerato come un dio nel silenzio disabitato del suo corpo.
Passare, attraversare le vite degli altri
e per un momento guardare la necropoli avidamente custodita
rimpicciolirsi dall’alto.

domenica 24 aprile 2011

Vivi modestamente

di Ezechiele Lupo

Sulle scale ho pensato
che almeno una volta io ho provato,
che almeno una volta sono stato così
Mentre tu mai

Che almeno una volta, tante volte,
ho paralizzato la pancia
Immaginandomi la tua, sempre tesa e contratta
Ma la tua veramente era serena

Ho pensato che, va bene, non sei nulla
Ma sei un nulla molto concentrato
E questo è un pregio
Degno d’interesse più del nulla diluito tutt’intorno

Ho immaginato i tuoi occhi guardare a ovest
Cercare di svegliarsi dal mio sonno
Perché tu sei senza sonno e vivi modestamente
La tua felicità

E invece io, (tu e io, ecco che il poeta si rivolge al lettore)
Io mi fisso, inoculo una specie di sproporzione
O leggo semplicemente
Ricorrendo a tutto ciò che di speciale c’è

Sulle scale ho pensato che non mi senti
Ed è molto inutile che parlo
Piccolo concentrato di vita e di nulla.

lunedì 4 aprile 2011

Fine dell'antipasto

di Ezechiele Lupo

E quando non sarai più chiusa nella tua scatoletta,
piccola sardina senza spine?
Ritroverai anche sott’olio,
facilmente la strada del mare?

Compressa come sei tra le amiche
Fianco a fianco piccola sardina
Appiccicata nel sonno occidentale
Strappata sempre troppo tardi alla madre.

Troverai un posto per te?
O finirai in una torta salata?
In un’insalata?
Fa davvero paura lasciare la latta.

Ma tu, piccola sardina, di che sai?
Qual è il gusto che hai deciso di essere?
Forse troppo male non sarai.

Dove sarai quando i rebbi ti caveranno fuori?
Sei nata in scatola, già morta.
Risorgere dall’iper-vita, verso la vita.

lunedì 21 marzo 2011

Aggettivazioni

di Nepomuceno Sadda

"Pallido sole di marzo,
Pallido il mio viso,
Sola davanti al mare,
Eterno mare ..."

Così la tua poesia principiava
E finiva peggio
Decisamente peggio.
Ma ti dissi,
Mendace,
Che la trovavo bella.
- Con gli anni ho migliorato l'aggettivazione -

Ti amavo a quel tempo,
E avrei trovato bella
Anche una tua flatulenza.
Quantomeno degna
D'attenzione critica.

Com'è strano vederti oggi
Come cosa aliena e indifferente.
Com'è strano saperti oggi
Così inutile al mondo ed alla mia vita.*

* verso semiplagiato

sabato 12 febbraio 2011

Commiato

di R. Castoro

Ecco il treno dell’alba
E’ il momento di fermare il nostro tempo
Dominato da uno spazio troppo immenso
Per due corpi soli
Qual è stato il tuo merito?
Misurare la distanza fra me e la bellezza
Una fessura dove passa l’universo
Ogni pianeta in granelli di sabbia
Galassie di vento
La bellezza scivola come acqua fra le mani
Precipita obbedendo alla gravità
In fondo sempre più in fondo
Tutto il suo deposito
E’ fluidodinamica pura
In libera caduta

mercoledì 2 febbraio 2011

E-Mails

di Massimo Giardina

Adesso lo so, ma ne ero certo, le mie e-mail non le sono mai arrivate. Sono di nuovo tutte qui, nella memoria, nei miei cassetti, perchè lei non le leggesse e io gliene parlassi…
La prima Mail era il paesaggio, lo sfondo, descritto da un qualunque punto di vista: “…Stamattina il cielo è coperto, fino a qualche ora fa pioveva insistentemente, ora la strada è bagnata ai margini e visti da casa mia i palazzi hanno l’altezza dei monumenti. Due piani più sotto un mio amico sta osservando le stesse cose: le macchine che passano, i lampioni che saltano e i cancelli che c’hanno inghiottito, nelle carceri e le fabbriche dell’ozio”.
La seconda Mail era nel freddo, sepolta dalla neve, tanto che mi costrinse a coprirmi meglio: “…Il mio cuore è il tuo cuore e le mie tempie sono il tuo tempio. Ti ho sposata come volevi, tra lamenti e sciagure. Il giardino della chiesa era addobbato a lutto, mi hai portato all’altare truccato di spine, vestito di piume, perchè fossi per la vita, il più affascinante degl’insonni che dormono senza sonno”.
La terza Mail era all’essenza, mi rivelava, così com’ero in quel momento: “…Amore mio, il passato preme, grava sul presente che simula se stesso. Avatar dio sumero, mi ha innalzato alla perfezione: sarà sempre come vorrò che sia, sempre come non vorrò che non sia. Resterò piegato su di me, sarò stupendo, estetico. Mi spaccherò dentro, per lasciarti fuori”.
La quarta Mail era intuizioni, m’invitava a superarmi e a liberarmi: “…E’ già da un pezzo che tengo sotto tiro l’alcolista, ma preferisco non ucciderlo ancora, solo ieri ho fatto fuori l’introverso e il comunista. Quindi non gli sparerò finchè tu non verrai, finchè non mi dirai che non è necessario che io ritorni. Lo sai benissimo che è colpa mia se non ha più senso, se non c’è letteratura, se ho un cancro nei ricordi e se del tempo che stiamo vivendo, non se n’era ancora sentito parlare”.
La quinta Mail era il coraggio, rese da lì in poi intenso ogni mio gesto: “…Vedi? Non mi curo più di me, non ho paura dei divieti. Ora posso seguirti ovunque, descriverti come vecchia e bambina, trapassarti nei pensieri. Posso leggerti e impararne, parlarti di nostro figlio ancor prima che nasca, strappartelo dal seno inevitabilmente, per farne un bastardo di due madri”.
La sesta Mail era appunti sparsi, che confluirono nella mia poesia più grande: “…Stanotte il parcheggio della discoteca è affollato di carovane, i ragazzi e le ragazze indossano abiti dimessi. Si comincia a ballare già prima dell’ingresso, la musica house ha tempi folk e ogni compagnia è come un’egira di profeti. Manchi solo tu stanotte, perchè hai deciso di non venire, perchè continui a rimanere da sola in casa?”.
La settima Mail era negli archivi del tribunale, era la mia condanna in atti: “…Per non essere stato capace di amarti, per averti lasciata in compagnia del tuo nemico, per aver permesso che t’incrociasse al muro, per non averti soccorsa dalla noia e per non aver asciugato il sudore che ti scendeva dalla fronte. Io mi condanno alla disperazione e alla solitudine, a una faccia triste e offesa e a pallide e insignificanti poesie”.
L’ottava Mail era durante la guerra, quando a un tratto sospesero i bombardamenti: “…Carissima, qui è ormai primavera. A casa mia mancano soffitto e pavimento, non resistono che le pareti. Mi ha scritto quel mio amico del quale ti avevo parlato, lui è sempre più convinto che non sia poi così necessaria una risoluzione del conflitto. Due piani più sotto le cose non gli vanno malissimo: nel suo computer non ci sono virus, il televisore è funzionante e la radio manda ancora la sua musica preferita. Da te invece continuo a non ricevere notizie, spero solo che tu stia bene e che fuori di te siano ancora in grado di mantenere la pace”.
La nona Mail era la sintesi, l’ennesimo confronto, con lei e con la prepotenza della realtà: “…Vorrei ridere, dimenticarti, ma non ci riesco. Ultimamente credo di aver capito alcune verità fondamentali: l’umanità è matematiche scomposte, ho letto pochissima narrativa moderna, a un sorriso corrisponde un sorriso, lo schiavo pasce il padrone e il padrone vola, privo di gravità nella storia, neutro e assente nel tempo”.
La decima Mail era l’ultima e l’ultima Mail era la sua ultima parte: “…E poi a questo punto sono riuscito a smettere con molte cose: ho smesso di tirare la gonna a mia madre e ho smesso di farmi pestare da mio padre, ho smesso di sollevare il braccio sinistro con il pugno chiuso e quello destro con la mano aperta, ho smesso di bere e ho smesso di mangiare, ho smesso d’essere il migliore e ho smesso d’essere il peggiore.
Quindi non mi sarà difficile smettere di scriverti, non mi sarà difficile smettere di scriv...

martedì 18 gennaio 2011

Il dottore - ultima parte

di Norberto Giffuri

Il ragazzo asiatico sbuca da una porta laterale ed annuncia che la signora è rientrata. Il dottore ripete la frase: “la signola è lientlata”. Poi allontana il ragazzo con un cenno brusco della mano.


La signora compare nell'andito. Non dimostra più di venticinque anni. Ha un viso piccolo con zigomi ben delineati, capelli lunghi castani, corpo filiforme da modella. Indossa un trench color crema, pantaloni bianchi attillati e stivali marroni al ginocchio. Saluta il dottore senza avvicinarsi poi sale le scale. Il dottore non risponde al saluto e seguita a fumare.
D'un tratto si alza e con passo svelto imbocca le scale. Dal piano superiore giungono smorzate parole d'astio, frasi pronunciate con livore. La voce potente del dottore suona come un contrappunto di fagotto alla cantilena acuta della signora. Passano almeno dieci minuti. Una porta sbatte, il dottore riappare sulle scale. Torna nello studio, accende un'altra sigaretta. Fuma in modo nervoso, aspirando di frequente. Dunque si alza, esce dalla stanza. Poco dopo vedo una Porsche attraversare il viale alzando polvere e ghiaia. La Porsche inforca il cancello e scompare nella nebbia.

Sono solo. La casa è silenziosa.

Mi avvicino alla scrivania dello studio. Il monitor mostra il browser aperto su facebook, alla pagina personale del dottore. Il dottore è salutato da molte donne e da due ragazzi abbronzati che gli ricordano il weekend a Boston con frequenti doppi sensi. Sulla scrivania, oltre all'Observer, trovano posto due penne stilografiche, un pacchetto di gomme da masticare alla cannella, un fermacarte di bronzo, una cartolina dall'Egitto, una chiavetta usb a forma di teschio, una confezione di post-it, il trattato l'Arte della Guerra di Sun Tzu in edizione tascabile, un'agenda moleskine rossa, un cd musicale di Zucchero, la matrice di un biglietto aereo Rimini-Kiev, uno scontrino fiscale di un bar di Rimini e un album fotografico.
Apro l'album. Nella prima pagina c'è una foto della signora sorridente davanti ad una fontana collocata nel parco di una villa neoclassica. C'è un post-it a fianco che recita: “Bella sì. ma sorriso falso.” Nella seconda pagina la signora è a cavallo, un uomo inquadrato di spalle, a terra, tiene le redini con la mano destra e il muso del cavallo con la sinistra. Post-it: “Te lo sei scopato? Non hai imparato ad andare a cavallo ma ad andare col cavaliere? Troia.”. Pagina tre: il dottore e la signora sono abbracciati in una spiaggia di sabbia bianca. È l'ora del tramonto. Candele piantate nella sabbia, protette da gusci di cocco che fungono da paravento, illuminano di una luce calda i loro volti. Il post-it sottolinea: “Quattrocento euro per una serata e nemmeno me l'hai data.”. Quarta fotografia: la signora nuovamente a cavallo. Post-it: “Devi stare più bassa, il cavallo non è il tuo scooter”. Giro pagina. La signora è ritratta nell'atto di piantare un paletto di una tenda da campeggio. Indossa una felpa pesante, pantaloni sintetici e scarpe da ginnastica bianche. “Una sera in tenda e dopo hai voluto il cinque stelle per due settimane: into the wild un bel cazzo.” Sesta foto: un bambino di cinque-sei anni gioca nella terra fresca con una paletta. Commento: “Se fosse stato nostro figlio avrebbe il set da giardinaggio di Prada, no?”.
Settima fotografia: una casa di mare dalle pareti bianche e persiane azzurre nell'ora del tramonto. Sotto la foto una didascalia “Tu non ricordi la casa di questa mia sera. Ed io non so chi va e chi resta.” A margine, sul post-it “Sì che la ricordo. Tu resti, io vado. Ciao.”

Chiudo l'album, torno alla mia postazione, sistemo il portatile nella borsa ed esco dalla stanza. Nel cortile incontro il ragazzo asiatico. Appoggiato ad una colonna guarda in lontananza la signora che cavalca nel prato del maneggio. I cappelli della signora, intrecciati in una coda, rimbalzano ritmicamente sulla sua schiena, sincronizzati con il trottare del cavallo. Riferisco al ragazzo che il mio lavoro è terminato e mi interfaccerò la mattina seguente con il tecnico delle luci per assicurarmi che tutto sia pronto per l'evento. Il verbo “interfacciare” non è recepito dal ragazzo. Riformulo la frase spiegando che il test dell'impianto luci ha avuto esito positivo e mi sarà mia personale premura contattare il tecnico di modo che sappia come utilizzare le apparecchiature durante la festa. Il ragazzo annuisce e sorride. Concludo rammaricandomi nell'assenza del dottore, avrei voluto rassicurarlo personalmente. Il ragazzo seguita a sorridere. Saluto e raggiungo la mia auto. Avvio il motore, faccio manovra e staziono davanti al cancello. Il cancello rimane chiuso, trascorrono almeno due minuti. Scendo, premo il tasto del videocitofono collocato sul lato interno. Nessuna risposta. Dopo qualche secondo il cancello si apre. Imbocco la strada provinciale, che conduce dritta nella nebbia.
La signora cavalca ancora, nel centro del prato verde.

(fine)

lunedì 17 gennaio 2011

Il dottore - seconda parte

di Norberto Giffuri

Lui siede in quello che appare come uno studio, su una poltrona di pelle. Lo studio è ricavato nell'angolo di un salone luminoso, dal soffitto alto. Lo vedo armeggiare attorno al pc, leggere e scarabocchiare delle carte. Si alza e osserva silenzioso dalla finestra che dà verso il prato del maneggio. Si risiede, muove il mouse avanti e indietro, regolare come un pendolo. Afferra il mouse, soffia in prossimità della rotella di scorrimento. Si alza di nuovo, prende un cacciavite da un cassettone. Smonta il mouse. Ci soffia dentro, tre volte. Rimonta il mouse, lo prova. Ripone il cacciavite nella posizione di partenza. Tamburella sulla tastiera. Prende di nuovo il cacciavite, lo usa per aprire lo sportello delle batterie della tastiera. Esce dalla stanza. Rientra con un paio di pile ministilo in mano. Sostituisce le pile. Tamburella nuovamente sulla tastiera. Appoggia il piede sinistro alla gamba anteriore sinistra della scrivania. Il piede si batte ritmicamente sul legno, un tempo lento, un battito ogni tre secondi. Distoglie l'attenzione dal monitor del pc e sfoglia The Observer per qualche minuto. Non si sofferma su alcuna pagina in particolare. Poi arrotola la rivista e la usa come se fosse un cannocchiale, puntando verso il maneggio. Ridacchia, appoggia The Observer sulla scrivania e prende un panno dal cassettone. Pulisce il monitor, la tastiera, il mouse e un fermacarte di bronzo raffigurante un cavallo. Dunque esce dalla stanza. Rientra con un album fotografico in mano. Scorre pagina dopo pagina, lentamente. La carta velina protettiva fruscia tra le sue dita. Appunta qualcosa su un post-it e lo incolla nell'album. Ripete l'operazione sette volte. Poi torna al pc, il mouse continua il suo moto regolare. Prende un palmare e telefona. Lo sento discutere di un comodino da acquistare per la camera da letto. Dice di riferire all'artista che lo paga giusto quanto vale e di non fare la fighetta. Enfasi sul termine “artista” e su “fighetta”. Riattacca e si siede di fronte alla finestra. Prende un pacchetto di Marlboro dalla tasca dei pantaloni e uno zippo dalla scrivania. Fuma osservando il maneggio. Il palmare squilla, rifiuta la chiamata.

(continua)