Il giudice sul mulo Periodico perenne di linguaggi letterari.

mercoledì 31 gennaio 2007

La tassa sul celibato

di Norberto Giffuri

Eri solito dire:
“Siamo miserabili Sisifo-Cristo
privi della consolazione
d’essere un giorno leggenda,
ciascuno impegnato
nel guadagnarsi la cima
di un Golgota
che non promette Resurrezione.”

Il tuo pessimismo adolescente
Il tuo Kierkegaard in sedicesimo
Conservali per qualcuno
Capace d’apprezzare
Il gusto agrodolce
Dell’Autocommiserazione.

Hai scelto la disillusione come sposa
Hai scelto e sei stato amato
Ed io, che rifiutai la sua mano
Saldo in solitudine
La mia tassa sul celibato.

venerdì 26 gennaio 2007

L'esame di latino (ultima parte)

di Ezechiele Lupo

Ordinammo tre cioccolate con panna, due ventagli di pasta sfoglia e un cornetto. Per me un the al limone era bastato. Non si era nemmeno levato il paltò, e le briciole gli si attaccavano sul davanti inzuppato di pioggia.
“Non ti levi il cappotto? Non hai caldo?” Dissi io. Mangiava e beveva con stile, cioè, normalmente, non come mi aspettavo mangiasse un barbone.
“Non sono abituato a togliermi le cose. Dove sto io fa freddo, o se ti togli qualcosa te la rubano. A me è successo, ma non ero ancora pratico.”
“Dove vivi?”
“Dove dormo vorrai dire? Perché io vivo in strada. E’ importante, sai. Ormai per noi vivere è un sinonimo di abitare. Anche per me era così, ma poi ho perso la casa e ho capito che dormire al coperto è già vivere con dignità. Dormo in via B******** al ricovero Madre Adriana. Ma non è sempre facile trovare il posto. A volte si rimane fuori e così, per dirla bene, il cielo ti fa da lenzuola.”
“Avevi un terranova e te ne sei sbarazzato. Perché costava troppo? avevi una casa, e ora non ce l’hai più: cosa ti ha rovinato? Il gioco?” Lui mi guardò serio; aveva dei grandi occhi verdi, lucidi sembravano di valore. Rispose: “Il latino. Mi ha rovinato il latino.”
“Cos’è un vostro modo da barboni per chiamare il destino baro?” ironizzavo, chissà perché. “No. La lingua latina: l’esame di latino all’università. Ero giovane, poco più di te, frequentavo lettere e filosofia e mi stavo laureando, solo che mi mancava latino. Vivevo in casa dei miei: due persone dignitose, borghesi e democratiche. Avevo una macchina con la quale facevo dei viaggi e stavo in compagnia della mia fidanzata: ci amavamo. Anche lei studiava e si stava preparando per entrare nel mercato della ricerca. Arriva il giorno dell’esame di latino. Ero preparato e fiducioso di superarlo; avevo assimilato con difficoltà ma esattezza la materia. Il destino volle che quel giorno non superassi l’esame di latino, e che in quel giorno segnassi la fine della mia giovinezza.”
Forse aveva caldo ma non si tolse il cappotto, anche se era sicuro, credo, che io non gliel’avrei mai rubato. Continuò a raccontare: “Con quella bocciatura avevo perso un anno, a causa di una serie di scadenze, dovute per lo più ad una burocrazia fessa, nel senso di stanca, e restia più che mai ad applicare il buon senso. Ma la cosa non finisce qui. La stessa sera dell’esame fallito, la mia fidanzata mi comunica la notizia, relativamente la migliore o la peggiore di una vita, dell’attesa di un figlio. Esclusa la possibilità di un aborto, lei e lui furono talmente puntuali da concludere un dottorato di ricerca, e nascere, nello stesso mese. Io con l’assicurazione di poter sostenere ancora l’esame di latino e terminare gli studi, mentre la mia fidanzata lavorava con un contratto di sei mesi in sei mesi, mi preparavo per ritentare l’esame. Come spesso accade, non per nostra volontà, ma per noia verso l’iterazione prolungata di un’azione, lo studio risultò poco proficuo e ancora una volta non riuscii a laurearmi. Dato che il tempo passava, il figlio cresceva e non ce la facevamo con un solo stipendio a sostenere, anche se con l’aiuto delle famiglie, la nostra vita insieme, mi obbligai a cercare un lavoro non conforme ai miei studi incompleti; convinto di poter fare ambo le cose: studiare e lavorare. Ma difficile e aspro si sarebbe presentato il futuro. Per l’incertezza di una condizione economica distante quanto mai dalle aspettative, e per il logorio dei sentimenti, causa di rancori e di rimproveri nascosti, che, una volta scoperti, per caso o per scelta, devastano anche la più solida delle unioni, mi ritrovai a dover abbandonare totalmente gli studi, al fine di, impegnandomi a fondo in un lavoro senza qualità, procurare cibo e attenzioni alla mia famiglia impaziente. Quando alla mia fidanzata non fu più rinnovato il già striminzito contratto, io ebbi la responsabilità completa delle nostre sorti. Arrivò il mese in cui l’auto diventò uno sfizio, il mese del pagamento dell’assicurazione, e la vendetti forse al peggior offerente. Arrivò anche il mese in cui pure il mio contratto non fu più rinnovato: capita, sono cose normali, non è un licenziamento, è la flessibilità, basta rimboccarsi le maniche e un lavoro si trova; si diceva. Ma intanto come facevamo a pagare l’affitto, il vitto, la vita da bambino di un bambino? Per un po’di tempo i soldi della macchina ci bastarono; ma giunse il giorno in cui anche la casa diventò uno sfizio: e per la mia fidanzata lo diventai anche io. Ed è così che lei se ne andò col bambino e mi ritrovai senza lavoro, auto e casa. Sebbene già questa potesse sembrare il limite invalicabile di una sorte avversa, accadde una cosa paradossale: l’università mi chiamò e mi chiese duemilacinquecento euro: i soldi della retta. La mia colpa fu quella di aver dimenticato di comunicare l’abbandono e, non avendo pagato quando loro si attendevano, ero stato automaticamente promosso a dover elargire il massimo delle spese. Senza prospettive, beffato da quella stessa università alla quale avevo dedicato l’impegno maggiore nei miei anni giovanili, chiesi una dilazione del pagamento che mi fu accordata. Ora dormo al ricovero Madre Adriana e vendo questi opuscoli dove scrivono i senza tetto della comunità. Finirò un giorno di pagare le tasse universitarie.”
Detto questo si alzo di scatto, mi porse la mano. Io pensai che non aveva mai avuto un cane. Ma forse avrei dovuto capirlo prima. Mentre usciva col suo pacco di giornali sotto il braccio, la sera già compariva dalle vetrine. Anni prima fui bocciato anche io all’esame di latino.
Fine

mercoledì 24 gennaio 2007

L'esame di latino

di Ezechiele Lupo

Camminavo lungo una via del centro in compagnia del mio cane, un terranova sul grigio verde, vecchio ma arzillo, e mi coprivo la bocca con la sciarpa a righe comprata di fresco in quel negozio che vende solo prodotti made in Scotland: adoravo quel negozio, ora sono anni che non ci vado ed evito finanche di passarci davanti. Sono l’amministratore delegato della B****** C******* e D****, come lo ero tre anni fa in quel pomeriggio di febbraio quando camminavo col mio terranova grigio verde. La strada luccicava per la pioggia che da giorni sembrava scendere sempre regolare. Il solito viavai di macchine, l’odore della polvere, la cappa: era un pomeriggio assai banale, assai civettuolo, in questa città civettuola (volendo), e assai brutto. Dentro un vecchio cappotto nero di due taglie più grandi (sicuramente non confezionato su misura come lo era invece il mio), apparve in fondo ad un vicolo, tra ‘l muro d’una cattedrale e una vetrina da profumeria, un uomo alto e magro: in testa mi sembrava portasse una berretto nero ma era ancora lontano. Procedevamo in direzioni opposte e, me ne rendevo perfettamente conto, quell’uomo camminava nel mio stesso modo: un po’ ondeggiante ma con spalle alte, dritto, sicuro, passi ampi ma ondeggianti. Eravamo ormai a pochi metri e lo vedevo bene: sotto il braccio destro teneva un cartone dal quale tirava fuori dei giornaletti, mi pareva, che offriva ai passanti, i quali sistematicamente lo schivavano. Giunti uno di fronte all’altro mi accorsi che era vecchio, o comunque più vecchio di me; era strano avrei detto avesse avuto la mia età.
Mi disse: “Che bel cane che hai, che bel colore, è un grigio verde, come si chiama?”
“Deifobo.” Risposi io, non molto convinto; ma sì, si chiamava Deifobo. Quello continuava: “E’ proprio bello. E’ un terranova vero? Sì, sì, si vede. Che bei cani. Anche io l’avevo un terranova poi ho dovuto darlo via.”
Ero incuriosito: “Perché?”
“Mi costava troppo.” Ci fissammo: lui guardò la mia sciarpa di cachemire, io la sua gola raggrinzita, secca e ispida di una barba incolta e grigiastra, lui il mio perfetto cappotto da tremila euro, io il suo bucherellato paltò di terza quarta mano, lui il mio cane, io il suo cane che non aveva più. Ricominciò a parlare: “Comunque… vuoi comprare questo libricino? Ci sono delle storie, è carino.” Il mio lavoro consisteva ancora nel cercare storie, e gli detti un’occhiata: erano poche pagine, forse fotocopiate, due o tre racconti brevi, una pagina di poesie, una specie di pezzo di attualità, che sembrava messo lì a chiudere un lavoro che si presentava pessimo, e verso il quale scoprii di non nutrire alcun interesse. Quell’uomo, con le sue scarpe zuppe, vecchie e sformate mi guardava con la stessa familiarità con cui guardava Deifobo: in me vedeva qualcosa di già vissuto. Non avevo tasche libere per il libercolo, avevo freddo e conoscevo una pasticceria calda come la cioccolata con panna che ci avrebbe potuto garantire. Così feci la mia proposta: “Non mi interessa quello che vendi. Ma se hai freddo e fame, ti offro qualcosa per scaldarti e sfamarti, e mi parli del perché hai ceduto Deifobo.” Non era scemo, era un poveraccio, un barbone, ma non uno scemo. Accettò e ci incamminammo verso la pasticceria.
(continua...)

domenica 14 gennaio 2007

Alla piccola isola

di Ezechiele Lupo

Sì, insomma, cinquantacinque euro a persona sono tanti forse troppi...bhè è un giro di trenta minuti, sì sì ho capito...mah veda lei...siamo due...il ritorno alle diciotto, l'ultima?...certo...va bene...grazie...grazie arrivederci...molo "L'aragostina" arrivederci.
Centodieci euro per festeggiare il compleanno su un isolotto dell'arcipelago in un parco naturale protetto. Andata e ritorno, partenza alle dieci e trenta e ritorno con l'ultima corsa delle diciotto.
L'isola era bellissima e disabitata. Poco più di un chilometro di diametro. Al centro, sulla sommità di un pendio pietroso, un piccolo cimitero. L'estremo approdo di un veliero del 15° secolo: dicevano inaffondabile, un Titanic ante-litteram che infatti come questo si comportò lacerandosi contro l'isola: immenso iceberg caldo, nero, ma di pietra bianca, il quale, se solo fosse stato illuminato allora, non ospiterebbe, oggi, ignoti, immobili e freddi inquilini.
Curiosamente tutti i giorni approdano sull'isola nuovi uomini e donne ignari, i più, persino dell'esistenza del campo santo. Forse in quel piccolo recinto ricco di anonime lapidi muschiate, riposano parenti alla lontana di chi, giunto da turista, ha percorso la rotta dell'avo meno fortunato. Dopo qualche tuffo e un po' di sole i turisti se ne vanno tutti. Non sappiamo se gli abitanti dell'isola li possano vedere, né se riconoscano eventuali nipoti qualora vi fossero. Ma vorrebbero che qualcuno desse loro un nome, magari uno qualsiasi: Sì tu mi sembri robusto in forze, bello com'ero io proprio prima di schiantarmi sulla riva, non sei un mio discendente, ma dimmi, ti prego, come ti chiami, così mi chiamerò come te, un nome vale l'altro, ogni parola è uguale all'altra, ma l'assenza di parola è il niente: dammi il tuo cognome fammi esistere almeno ora che sono morto.
Le guide imponevano la visita dell'isola, anche gli amici la consigliavano: tappa obbligata della vacanza. Lei voleva andarci per il compleanno, e lui avrebbe fatto qualsiasi cosa. Solo per vederla sorridere, solo per sentirsi meglio, solo per i suoi baci, le mani sul suo viso, i suoi abbracci, il corpo di lei contro il suo. Desiderava essere lo strumento per raggiungere ogni desiderio, voleva sempre fare qualcosa che la rendesse talmente felice da annichilirla, da non farle desiderare nient’altro che sentirsi così insieme a lui, per mano o magari sdraiati, o solo vicini. Sulla barca a motore che strepitava sulle onde, gli schizzi del mare li bagnavano a sprazzi. La forma degli occhi di lei era unica: sottile, obliqua quasi orientale ma tenacemente mediterranea. I grandi occhiali da sole di lui li proteggevano dal sale e dal calore del sole luccicante di riflessi. Amava vederla portare cose sue, lo faceva sentire apprezzato e a suo agio: era la sicurezza degli oggetti. Ogni tanto le cingeva la vita col braccio; non poteva trattenersi, a volte, da stringerla a sé.
L'acqua sulla riva era trasparente e i sassi bianchi e levigati reggevano il peso di millenni di sciabordii sempre uguali, un andare e venire di molecole di idrogeno ed ossigeno che si scontravano e frizionavano con altre molecole di litio e carbonio, si scambiavano, si rincorrevano, facevano il girotondo degli elementi.
Erano abbracciati in acqua, lui cercava di nascondere contro il corpo di lei l'imbarazzo di cui lei stessa capiva di essere la causa: chissà forse se ne inorgogliva. Non si può mai sapere cosa pensi davvero riguardo le manifestazioni del sesso.
Le mani di lui talvolta scivolavano verso rotondità tornite, in fondo al pronunciato e vellutato arco dorsale, e si insinuavano sotto l'esile stoffa idrorepellente bianca con piccole rifiniture rosa. Subito lei sollevava il viso dall'incavo della spalla di lui, e guardandolo chiamava il suo nome: quanta importanza aveva in realtà quel nome. Detto da lei con quel tono, in quel momento e nei milioni di istanti uguali che vivrebbe, ha vissuto, forse vivrà. Come assuma l'inevitabilità della sentenza estrema, della pesantezza del definito che esce di colpo dal corso dell'indefinito; il suo nome detto da lei balzava dal torrente sempre uguale delle parole, si distingueva, non era più parola qualsiasi ma era tutte le parole, tutti i nomi. Lì nel suo nome, pescato unicamente da lei, con banalità, nel turbine dei discorsi dell'umanità. Ora tutti i naufraghi del 15° secolo, in pena nel loro non potersi chiamare, non poter esistere nemmeno nella morte, vorrebbero essere nominati così da lei.
Ma solo lui. Solo lui sfiora le sue labbra mentre escono dall'acqua, mentre ridono sulle rocce, mentre lei legge un libro, mentre corrono alla barca del ritorno, mentre si coprono con un asciugamano, mentre aprono la cerniera della tenda e si sdraiano. Lui sempre le sfiorerà le labbra, lei sempre estrarrà il suo nome salvandolo dall'infinità dei discorsi: nell'infinità dei luoghi, dei tempi e degli amori.

venerdì 12 gennaio 2007

Colloqui alpestri (ultima parte)

di Norberto Giffuri

Pappa che si rivela ottima e abbondante. Pasta con sugo di verdure –fatto in casa-, due porzioni, mais saltato del burro, una porzione e mezza, rifiuto il formaggio (pessimo), mi concedo pane e cioccolato per chiudere in dolcezza. Vini: Inferno e Sassella DOC. Rapporto qualità/prezzo invitante al momento dell’acquisto, gradazione alcolica medio-alta, garanzia di serata brilla e spensierata vaghezza. Nessuno si incarica di lavare il padellame…operazione rinviata, senza indugio alcuno, al giorno appresso.
Griso, pensieroso, sgranocchia una crosta di pane, lo sguardo rivolto al soffitto. Che stia calcolando a grandi linee il carico sopportato mediamente dalle travi di legno? Del resto ciò si confà alla sua formazione scolastica: diplomato perito edile, ora laureando in ingegneria delle costruzioni. E non scordiamo l’apprendistato con i mattoncini colorati, negli anni dell’infanzia, palestra d’ogni architetto o meglio, archingegnere, che si rispetti.
Chiedo venia, sono preda del luogo comune. Forse sta semplicemente pensando alla sua ragazza. Non si vive di soli numeri.
“La settimana scorsa ho letto su una rivista qualcosa di sconcertante…”
Attimo di silenzio. Griso si volta verso di me, sorride e improvvisamente mi squadra con due occhi da serial killer. Atteggiamento suo tipico, bizzarramente scherzoso.
“…allora, il giornalista autore del pezzo, citando non so quali fonti ufficiali, sostiene che i duecento miliardari più ricchi del pianeta possiedono, tra beni vari, immobili, azioni etc etc, l’equivalente del patrimonio dell’umanità rimanente.”
“Plausibile…e dunque?”
“Beh, ho pensato: basterebbe confiscare i beni di questi straricchisfondati e, ridistribuendoli equamente, raddoppieremmo il patrimonio di tutti gli altri!”
“Vero! Sei miliardi di anime gioverebbero della improvvisa miseria di duecento…mi piace! Estremamente democratico. Quando lo facciamo?”
“Quando scenderemo a valle.”
“Ok.”
“Mi sa che i dati di partenza sono sbagliati. Come si fa a calcolare una cosa così?”
“È la seconda volta che obbietti oggi.”
“No, è la terza.”
“Qual era la prima?”
“Vedo che non capisci. La terza era la risposta di un attimo fa sulla mia duplice obiezione odierna.”
“Griso, quando fai così ti voglio bene. Non montarti la testa però!”
Prende la capoccia tra le mani e la scuote a destra e manca, come uno spiritato.
“Comunque, Griso..”
“Sì?”
“A dispetto del bene che ti voglio, sei un idiota.”
“Lo so.”
Seguita a dimenarsi.
Fine

mercoledì 10 gennaio 2007

Colloqui alpestri (parte 2)

di Norberto Giffuri

Rientro in fretta e furia, di nuovo accolto dal buon tepore. Metto la pentola sul fuoco, il fornello borbotta un poco, poi la fiamma si stabilizza e ronza compiaciuta.
“Vediamo se l’acqua bolle prima, a queste altitudini!”
“Beh, in teoria sì…però ho messo sul fornello acqua gelatissima…ce ne vorrà a scaldarla..Sander?”
“Eh!”
“Ricordi l’esame di termodinamica? Tutti quei calcoli sull’ebollizione dei liquidi?”
“Sì…acqua passata, per fortuna.”
Nell’attesa della calata della pasta, mi concedo la lettura del diario di bordo della capanna. L’ultima annotazione risale ad una settimana fa. La prima è del marzo del 2001. I diari precedenti? Mi auguro conservati in qualche luogo sicuro, da mani fidate.
La tipologia standard dei messaggi è così schematizzabile:
“Mese x, Giorno x, Ore xx:xx. Siamo giunti fin qui dopo una faticosa scarpinata di ore x. Il tempo è bello/brutto, piove/nevica. Ci accampiamo per la notte. Domani salita alla cima xxx.” Seguono firme varie.
L’affettazione delle proprie capacità deambulatorie la fa da padrone…sfogliando le pagine noto che i record si susseguono: salita in 3,5 ore, poi 3, poi 2, poi 1 e mezza. Compaiono anche indicazioni temporali da gara di atletica: 1 ora e 18 minuti, 1 ora e 27 minuti(Personalmente ho impiegato quasi tre ore. Rientro negli categoria “lenti alla meta”).
Piacevoli variazioni sul tema occupano una buona metà del diario. Ma non mancano slanci lirici, deliri esistenzialisti(“L’esistenza non è un problema, bensì un mistero”) e prosa d’arte(questa no, fortunatamente).
Qualche umorista dispensa battute d’effetto per la posterità alpinistica. Tizio loda le donne del suo borgo. Caio encomia le donne tutte, tessendo l’elogio della femminil pudenda. Sempronio racconta di aver portato una polacca cattolica fin qui e di non averci combinato nulla.
Ovviamente lascio il mio contributo. Affetto, come sono, da lungaggine scrittoria (conosciuta anche come “elefantiasi letteraria”) ci impiego una mezz’ora. Nel frattempo la pappa è pronta.
(continua...)

lunedì 8 gennaio 2007

Colloqui alpestri

di Norberto Giffuri

Scendo alla capanna. Dieci minuti scarsi di sentiero, se affrontati di buona lena. Il comignolo sprizza gioiosi sbuffi di fumo grigio. Forse i miei compari si sono dati da fare. In effetti, quando apro la porta vetrata della baita, una benevole ondata di tepore mi cinge in un caloroso(naturale!) abbraccio. Due tavoli accostati ad una parete, cassapanche e sedie a perimetrarli, una stufa a legna in fondo…sulla destra dei letti a castello e una scala per raggiungere la soffitta. Accanto alla porta i fornelli, una bombola di gas panciuta, la dispensa abitata da innumerevoli barattoli e un armadio di lamiera riempito di coperte(presagio di una notte gelida?).
Entro nel bel mezzo di un discorso.
“Ma è vera 'sta storia?”
“Così mi hanno riferito…poi sai, le voci girano e il tutto viene romanzato...”
“Di che storia state parlando?”
“E tu dov’eri? Hai detto che stavi via cinque minuti.”
“Niente, sono stato al McDonald qua sopra, vicino al ghiacciaio...l’hanno aperto recentemente...nuova politica di marketing, da indagini di mercato risulta che gli alpinisti sono assai affamati.”
“Bene bene...dopo ci andiamo. Comunque. Brevemente ti riassumo la storia..allora, metropolitana linea gialla, non so quale stazione, poco importa. Due operai stanno facendo manutenzione. Gira che ti rigira nel tunnel non ti trovano un cadavere, e mica fresco peraltro! Soliti tentativi di identificazione e controlli di routine. Vengono visionate le registrazioni delle telecamere a circuito chiuso…e salta fuori che due o tre giorni prima, stazione semideserta, ci stanno solo una vecchia signora e un giovane straniero, arriva il treno e truc! il tizio si butta sotto. La signora, che è lì a cinque metri, finta di niente, sale sul metrò e se ne va.”
“Mmm triste. Ma mi puzza di leggenda metropolitana…termine calzante in questo caso, vista la dinamica e lo scenario della vicenda..”
“Mi pare impossibile che il macchinista non abbia visto un tizio sfracellarsi sotto la sua cabina..”
“Magari si era appiattito nell’ombra un attimo prima..oppure la linea è automatizzata.”
“Ti stai arrampicando sugli specchi.”
“…comunque..che si mangia?”
“Ma non eri stato al fast food?”
“Sì, ma non ho mangiato…ho solo usufruito del cesso…sono così puliti!”
“Io direi, pasta al sugo, mais saltato in padella con burro e infine formaggi vari.”
“Ok..al lavoro, dunque.”
Esco a procacciarmi l’acqua per la pasta. Senza giaccone il freddo è pungente. Non parliamo poi dell’acqua della fontanella, gela le mani all’istante. E pensare che domani mi ci laverò la faccia.
La notte ha conquistato la valle, cominciando dai piedi, su per i fianchi rocciosi, fino alle vette incappucciate di neve. Notte senza luna, nubi minacciano le stelle.
L’occhio, seppur in grado di setacciare una vasta porzione di terra, favorito com’è dalla quota altimetrica, non scova nemmeno una luce, non un fioco segnale di civiltà, un guizzo di elettricità, non faro di automobile, o lampeggiante di jumbo jet, non fasci di torce, chiarore di fuochi e nemmanco lampeggiare di lucciole o di semafori. Nonostante il buio, si manifesta l’imponenza del paesaggio alpino: i profili di roccia, il limitar dei boschi, il bianco alone dei ghiacciai, metafore dell’immortalità. Ancora una volta mi ritrovo a guardare il sempiterno dallo spioncino della contingenza.
(continua...)

venerdì 5 gennaio 2007

Ritratti australiani

di Darren Knight
I.

“Down down, you bring me down
I heard you knockin’ on my door and I can’t sleep all night”
( Stone Roses “I am the resurrection”)

D. è fuggito dall’isola che amava e lo uccideva.
Per sbaglio, con rancore. Forse.
Ad ogni modo sono 11 mesi.
La sua meta può essere il SandBar, 100 dollari sui Tre Leoni,
un’arancia mista alla nicotina nella mattina non divertente.
Interessa poco, se non immergersi in un qualcosa che non trova contorni,
mischiare ironia, dolore, speranze, assoli, vinaccio e corn beef hash.
Dio ?
Il mio diritto?
Bello credere che esistano in questo pianeta, in questa galassia da 26 dollari al barile di rottura, rifiuto e gioia di disincanto.
In volti e parlate che non credevi possibili, in amici che ruotano e nemici improvvisati.

II.

Madre, a che vale
tutta questa eleganza
se ci tiene lontani dalla salutare
polvere di questa terra,
se ci priva del diritto d'entrare
nella grande festa del mondo?”
(Rabindranath Tagore)

V. sta a KC, nel grattacielo popolare da cui contempla ogni cosa, la fresca notte di ritorno dal turno.
-Se KC si muove- pensa tra sè -il resto della città perde-.
Risiede a KC da quando è giunto dal Punjab,10 anni fa.
Ha schivato ufficiali dell’immigrazione; casa e lavoro, lavoro e casa.
Ma da quelli giusti, ormai V. e il suo granchio tatuato, sono conosciuti.
“non preoccuparti, mio amico”... sorridi, dai una pacca ... butta sempre un occhio attorno però.
L’altra metà del trilocale è appannaggio del giapponese S., liscio o rasta, medidativo. Anche troppo.
3 DVD di Bollywood, 50 grammi di marjuana, pizza con gambero e salsa piccante a 10 dollari politici, barattolo di Mentos in comproprietà e altarino rituale.
Rendiamo grazie a questo paese senza radici ma che non fa mancare niente, nemmeno case da gioco o colazioni di Mc Donald’s.
Il pallone sgonfio che tiene sopra l’altare ricorda a V. S., il suo piccolo tigrotto. Per lui, per il suo quarto compleanno, il miglior pasticcere di KC, un amico, aveva confezionato la torta più bella del mondo. I suoi giocattoli sono rimasti qui. Li ha sempre difesi i suoi giocattoli dagli altri bambini, S ha il mento e la decisione di papà.
-Ma le cose si sistemeranno, ottenuta quella cittadinanza- risolve V. abbioccandosi fatto davanti alla cinquantaseiesima identica proiezione al masala.
Raggiungerà moglie, figliolo, un trattore, un dolce paese nuovo di mucche al pascolo e colline ondulate e feconde.....

mercoledì 3 gennaio 2007

Il treno perso

di Ezechiele Lupo

Ero ormai sveglio da un’ora quando sentii la porta di casa aprirsi. Da subito percepii la netta sensazione che in casa stesse accadendo qualcosa di strano. In realtà non fu netta dato che ho avuto la possibilità, in questa sede, di usare il verbo percepire, il quale ben poco si confà ad impressioni precise. Mi decisi ad alzarmi per vedere chi fosse entrato in casa mia senza difficoltà, tanto da farmi pensare di aver prestato le chiavi di scorta ad un amico, compagno o al limite familiare. Scandagliai mentalmente la rubrica del mio telefono, con la speranza di dare un volto, o almeno una serie di pixel, alla persona che, in quell’istante, si trovava in casa mia: non mi sembrava di riconoscere nessuno. Uscendo dalla mia stanza, già potevo vedere l’ingresso ancora semibuio, tagliato, pareva, dalla luce diagonale, un po’ fredda e un po’ bianca, che proveniva dalle tapparelle del finestrone del soggiorno. Giunto alla porta la trovai accostata, la richiusi a chiave e voltandomi vidi sulla mia poltrona verde, quella che mi ha regalato *** per la mia laurea, nascosta tra le pieghe della luce dell’alba, una ragazza. Sorpreso più che spaventato accesi la luce elettrica, che subito sparò negli occhi a me e a lei un bagliore che non mi sembrava adatto alla situazione; comunque ci fissammo per pochissimi istanti e lei disse: “Scusa, ma abiti qui?”, io ebbi modo di rispondere: “Io sì, tu?” Lei forse arrossì, forse rossa lo era già dal gran freddo di fuori, e mi chiese: “Non è meglio alzare le tapparelle, questa luce è insostenibile.” Io annuii, rallegrandomi del fatto che lei la pensasse come me: le tapparelle erano alzate, e prendemmo atto con piacere che la fioca luce di gennaio entrava più agevolmente. Presi una sedia dal tavolo e mi sedetti di fronte a lei. La vedevo bene: capelli corti rossicci, forse naturali, forse no, guance paffute, naso all’insù, fisico magro e gambe slanciate, senza trascurare due più che validi “cuscinotti” che alti si ergevano sul petto. “Scusami ancora se sono entrata così in casa tua. Ho perso il treno e non sapevo dove andare. Mi sei venuto in mente subito, e qua mi sono precipitata.”; mi disse così con la sua voce squillante ma assonnata. Da parte mia ero felice che una così bella ragazza fosse entrata nella mia casa e dissi: “Hai fatto bene. Anch’io mi sarei cercato un posto dove stare se avessi perso il treno: dove dovevi andare?”
“Roma. Da mia madre.” Rispose lei. “Viaggio lungo.” continuai, “Molto in verità. Ora lei mi aspetta per la tarda mattinata. Credo di poter arrivare a Roma forse in serata, se esco da qui verso le 8.” Guardai l’ora sull’orologio della cucina e vidi che erano già le 7 e 35. Mi sarei dovuto sbrigare a trovare il modo migliore per trascorrere con lei questi pochi minuti. Pensai subito di proporle di vedere un film, ma così se ne sarebbe andata appena a metà del primo tempo; perciò mi decisi a proporle un caffè: “Vuoi che ti faccia un caffè? Il tuo viaggio sarà lungo hai bisogno di stare in forma. Poi mi pare tu abbia freddo, col caffè ti scalderai.” Il suo sorriso sincero mi bastò e andai in cucina a prepararle del caffè. Pensai che il caffè è un buon inizio. Mentre seguivo l’evolversi e il rumoreggiare della moka, lei comparve accanto a me, e si mise a guardare e odorare la macchinetta. Dissi: “Sei italiana?”, “Un po’. Mia madre è stata un grande attrice italiana, mio padre uno scrittore belga: hai mai letto Il ciliegio falciato? lo scrittore è mio padre.” Risposi che lo avevo sul comodino. Ma non era vero. Il caffè continuava a bollire, forse ne avevo fatto troppo. Ad un tratto, come presa da una quotidianità che ritornava dopo tanto tempo, declinò la testa sulla mia spalla e mi abbracciò: proprio mentre il caffè italiano usciva dalla moka bollente. Erano le 7 e 50 quando sul divano, vicini come soprammobili simili, cominciavamo a sorbire la bevanda. Una lunga sorsata di piacere. Poi lei disse: “Devo andare, mi spiace davvero. Grazie di tutto, dell’ospitalità della chiacchierata.” Per me significava la fine, ma già lo sapevo, della mia giornata. Un giorno in 25 minuti. Si alzò e la accompagnai alla porta; sulla soglia mi disse: “Tieni.”, e mi mise in mano una chiave. Poi aggiunse: “E’la copia della chiave di casa di mia madre a Roma: mi raccomando non entrare se non ci sono io, è vecchia potrebbe spaventarsi. Grazie ancora.” Io nel prendere la chiave risposi: “Ok. Tu entra quando vuoi, vedo che non hai problemi.” Chiusi la porta. Dopo questo che c’era da fare? Poi un biglietto appoggiato sul tavolo richiamò la mia attenzione per caso, diceva: ciao **** sono ***** ho dato le tue chiavi ad una a cui dovevo un favore, forse viene, ciao.

lunedì 1 gennaio 2007

Braunau, 20 aprile 1889

di Aklam T. Hook

Senza riguardo
Per l’anima d’altri
Vola Lucifer
Tra ‘vicoli e l’archi.

Giuda dei cieli
Inferni progetta,
A coglier infine
L’eterna vendetta.

Brilla nell’ombra
L’aguzza pupilla
Contando i fedeli
Sin dentro la culla,
Pur men delle stelle
Piovute sul nero
Sapranno l’Atroce
Sì renderne fiero.

D’un fiocco corvino
Agli altri mischiato
Questo ancor meno
Lasciògli di fiato,
Germoglio divino
Del soffio mancante
Lo vide e lo volle
Più sì che l’amante.

Ed ecco l’avvolge
Nel patto sovrano:
ancor Lo raggiunga
Che non di sua mano.

Il gregge maledetto
Si desta in affanno
Condannato a inseguir
Della ragione ‘l sonno.