Il giudice sul mulo Periodico perenne di linguaggi letterari.

lunedì 19 luglio 2010

Due diaframmi - ultima parte

di Ezechiele Lupo

Peter era per Diana come un diaframma: lo apriva, lo chiudeva per far passare molta o poca luce attraverso di lui. Decideva lei se Peter dovesse darle un’immagine della cose chiara o scura. Peter aveva impressioni, e Diana sapeva quanta luce serviva a Peter per imprimere l’immagine che lei desiderava. Peter e Diana ottenevano il meglio da se stessi: lui declinava la vita in base all’oggettività di lei; Diana orientava le proprie scelte attraverso le linee con cui Peter delimitava ciò che del mondo era davvero importante sapere, ciò che della realtà era davvero possibile conoscere, ciò che avrebbe condotto indefessamente all’identità delle cose. Diana e Peter erano alternativamente lo specchio e la sua cornice: e lo specchio rifletteva le responsabilità che li univa.

E il tramonto si mutò in acqua. E il pane era già sulla tavola pronta, ma nessuno si sedeva. Gli amici non arrivavano. La doppia coppia ospite a casa di Peter non accennava a presentarsi. Peter si siede sulla poltrona di fronte alla finestra, riprende la lettura di Quella sera dorata:

‹‹Cosa avete visto?›› aggiunse accennando agli opuscoli.
‹‹Il balletto››.
‹‹Com’era?››
‹‹Bellissimo››.
p. 299


Diana torna in cucina e prepara la macchina fotografica: monta l’obiettivo, stabilisce i tempi di esposizione, guarda fuori dalla porta e scorge lo schienale della poltrona con la testa di Peter che spunta nera sull’arancione che ha invaso la stanza. La pioggia batte sul tetto, mentre le nuvole otturano l’orizzonte.
Peter si accende un’altra sigaretta e continua a leggere. Non ci sono rumori in casa, ma in lontananza forse qualcuno suona male la chitarra. E’ una canzone spagnola, difficile stabilire cosa sia.
Diana entra nella sala e sceglie un cd dalla libreria. Accende l’amplificatore: le lucine si illuminano come prendendo la rincorsa, in progressione, come i controlli di un treno ad alta velocità. Partono le prime note. Peter alza la testa e si volta.
‹‹Che vuoi fare? ballare?›› chiede Diana sorridendo.
‹‹Mah… veramente si potrebbe fare. Ma una canzone e basta››.
‹‹Basterà una canzone. Dai vieni››.
Peter si alza dalla poltrona, spegne la sigaretta e poggia Quella sera dorata col testo aperto e rivolto sul tavolino. Si avvicina a Diana e la prende per la vita, la stringe a sé; lei lo abbraccia e si mette ad oscillare. E oscillano così per un po’. Poi lei si stacca e lo guarda: Peter sorride mentre Diana accenna un pezzettino della canzone, così tra le labbra, senza quasi produrre suoni:

…but I guess I’ve taken quite enough…

Poi gli si getta contro, lo stringe e ridono, ridono un bel po’. Poi Diana si ferma, si fa seria e dice: ‹‹Ok Peter, ora mettiamoci più a destra, ché la luce è migliore››. Peter si sposta, si fa condurre.
‹‹Adesso abbracciami come prima, ma cerca di non coprire il tuo viso con il mio. Ok così. Va bene così, pensa di insegnarmi a ballare, ma cerca di non essere supponente: hai una faccia pessima quando fai il supponente››.
‹‹Ok… va bene così? Sì ma tu togliti quei capelli dalla guancia… ok perfetto››.
‹‹Ok perfetto ci siamo: tre, due, uno…››
Ecco il diaframma che si apre e si chiude, parte il flash che già è arrivato, il rullino scorre e la macchina si ricarica.
* * *
‹‹Sei stato bravissimo, amore mio: sei un fenomeno››. Dice Diana appena riesce ad avere a portata di voce l’orecchio del dott. Falance, che ora siede finalmente al suo fianco al tavolo d’onore riservato ai premiati della serata.
‹‹Dici? Non lo so… forse dovevo essere un po’ simpatico. I discorsi dei premiati di solito sono più ironici. E’ che non riesco mai ad uscire dal mio ruolo: ho fatto anche stasera una piccola lezione in fondo››. Risponde il dott. Falance, appena omaggiato dell’Accademia come miglior medico dell’anno per quanto riguarda la disciplina.
‹‹No, no, sei stato perfetto amore mio. Non hai cercato nemmeno un secondo di catturare l’uditorio: non hai ammiccato. Hai fatto il medico e l’accademico: è giusto così. Un discorso bellissimo. Vedrai, ho scattato centinaia di foto››.
‹‹Dott. Falance, dia retta alla sua bella compagna: è stato il discorso migliore, il suo. Breve, ricco e profondo, oserei dire palingenetico››. Interviene un commensale, un altro medico, collega anziano del dott. Falance.
‹‹Sì, la ringrazio molto: visti questi importanti attestati di stima non posso che rassegnarmi ad accettare l’idea che abbia scritto un bel discorso. Mi rassegnerò››. Gli occupanti del rotondo tavolo accennano una composta ma fieramente convinta risata.
Sorseggiando un prosecco, un altro dei colleghi anziani di Falance stava ribadendo l’apprezzamento per la professionalità del protagonista della serata: ‹‹Caro Falance, lei è troppo insicuro per essere il medico che è: a vederla fare qualsiasi cosa che non sia collegata al suo lavoro, si direbbe che lei è un uomo senza qualità. Invece è il medico migliore che la disciplina abbia mai avuto, e il suo valore lo si ravvisa in ogni momento, in qualsiasi istante lei abbia a che fare con la disciplina: come questa sera››.
I piatti e le portate si susseguono e l’ilarità dei commensali cresce. Diana continua ad accarezzare la mano del dott. Falance e lui non perde occasione per sorriderle o baciarla. Ad un tratto, mentre tocca al sorbetto spezzare la cena tra carne e pesce, il dott. Falance dice a Diana: ‹‹Ah amore, mi stavo per dimenticare di dirti una cosa che è accaduta oggi: indovina chi è passato al mio studio?››
Diana lo guarda curiosa ma totalmente ignara, attendendo che sia lui a parlare, come si fa in questi casi. E infatti Falance spiega: ‹‹Oggi pomeriggio, poco prima che uscissi, la signorina Dalay mi ha chiesto se potevo far passare una persona senza appuntamento: beh sai chi era? Era Peter Dameron… lo scrittore, sì proprio lui››.
Diana fissa il dott. Falance per qualche istante: oltre la testa di Falance, Diana, come in una foto ingrandita migliaia di volte e per questo sgranata, sviluppa il viso, irriconoscibile per tutti ma non per lei, del suo vecchio amico Peter. Peter Dameron, lo scrittore. Per un attimo Diana ripensa alla città e alla casa di Peter, alle fotografie della sua ex, alla rissa in pasticceria, alle passeggiate in centro: alle macchine fotografiche che ha rotto cercando di adattare la propria ottica a quella di Peter.
‹‹E perché è venuto da te? Non sarà malato, vero? Amore mio dimmi che sta bene››.
‹‹Diana, non so se sta bene: abbiamo solo parlato cinque minuti. Non mi ha chiesto esplicitamente un appuntamento, però non so… forse si aspettava che glielo consigliassi. Comunque ti rendi conto? Peter Dameron nel mio studio: uno dei miei scrittori preferiti››.
‹‹Io lo conoscevo bene Peter Dameron››. Dice sorridendo Diana. Il dott. Falance spalanca gli occhi, finisce velocemente di sciogliere in bocca il sorbetto, si passa il tovagliolo sulla bocca e dichiara agitato: ‹‹E non me l’hai mai detto? Ma ho tutti i suoi libri… perché non me l’hai mai detto? Ma quando vi siete conosciuti, da quanto non vi vedete? Devi raccontarmi tutto, amore, tutto››.
‹‹Sì, sì stai calmo – lo tranquillizza Diana carezzandogli la guancia – ti racconterò tutto. Peter…››
‹‹Lo chiami addirittura Peter… ma allora avevate tanta confidenza. Oddio, non ci posso credere: lui è uno dei miei idoli, Diana…›› la interrompe il dott. Falance sbigottito, incuriosito e divertito.
Il dott. Falance vuole sapere tutto della storia di Peter e Diana: di come Peter e Diana si sono trovati e hanno trascorso gli anni migliori della loro vita, seguendo con i polpastrelli i bordi delle loro personalità, acuendo la loro sensibilità e portandoli a definire la loro identità.
Fine


Due diaframmi - terza parte

di Ezechiele Lupo

C’era stato un periodo in cui ogni giorno Peter riceveva una lettera anonima con una foto. Le fotografie appartenevano a due ordini di tempo, passato e presente. In quelle del passato c’era Peter e una sua ex in un momento felice, un posto che avevano visitato, durante una serata da ricordare. Quelle del presente, invece, erano scatti di vita attuale della sua ex: insomma delle foto di cronaca quotidiana. Ogni giorno Peter apriva la lettera: se c’era una foto del tempo in cui stavano insieme, la prendeva e la archiviava in un cassetto; se invece c’era l’altro tipo, la gettava. La storia delle fotografie è andata avanti per qualche mese: talvolta Diana apriva le lettere per Peter. Soprattutto nell’ultimo periodo Peter, ritirata la posta, si dimenticava di aprire la lettera anonima. Allora Diana la prendeva. Alcune le gettava direttamente, altre le portava a casa sua e chissà dove andavano a finire.
Diana un giorno aveva chiesto a Peter se potevano prendere un’abitudine: trovarsi almeno tre volte la settimana, ma con la prospettiva di estendere la consuetudine a cinque sere su sette, in bar dopo le sette e trenta per un aperitivo. Peter aveva accettato. Così Diana propose che il bar doveva essere una vecchia pasticceria del centro, tra una strada a scorrimento veloce e dei giardini pubblici molto poco curati. Diana e Peter, entrambi amanti della puntualità, arrivavano alle sette e trenta spaccate e prediligevano sedersi ad tavolino d’angolo che guardasse alla vetrata, ma con un’ottima vista sul bancone. Aveva deciso tutto Diana in realtà: l’ora, il posto e il tavolo. Si trovavano sempre a parlare: Peter raccontava la sua giornata e Diana ascoltava. Quando questa consuetudine cominciò a turbare Peter, Diana gli disse che non sarebbe durata ancora molto perché: ‹‹la fase di osservazione sta per finire››.
‹‹Che osservazione? Chi stai osservando?›› chiese Peter.
Diana si accostò al tavolino levando di mezzo l’ultimo goccio di Campari e disse a bassa voce: ‹‹Ecco, io prevedo che tra poco, forse pochi minuti, ma più probabilmente pochi giorni da ora, in questa pasticceria scoppierà una rissa: e io voglio esserci. Vorrei fare delle foto››.
‹‹Una rissa? Ma tra chi? Non mi sembra molto probabile. E poi io non vorrei rimanerci in mezzo››.
‹‹Ma no, non ti preoccupare, noi non c’entriamo nulla: siamo solo spettatori. Siamo solo occhi. Comunque fidati››.
Peter non ci metteva niente a fidarsi.
Passarono quattro giorni. Ormai Peter e Diana trascorrevano più tempo in quel bar che a casa: si vedevano dopo pranzo per il caffè, alle cinque per il the e alle sette e trenta per l’aperitivo, che si prolungava oltre le dieci. Diana stava cominciando ad essere impaziente, quando dalla vetrata vide un anziano signore con un lungo soprabito verde dirigersi svelto verso l’ingresso della pasticceria. L’uomo entrò deciso: avrà avuto settant’anni, forse di più. Si diresse al bancone, Peter e Diana lo fissavano. Si fermò davanti al barman, un pingue uomo sulla cinquantina, vestito in elegante cravattino e panciotto neri.
Diana prese la mano di Peter e disse: ‹‹Ora il vecchio gli tira un pugno, guarda››. L’uomo sulla settantina strinse il pugno destro, lo alzò lentamente. L’uomo sulla cinquantina rimase immobile, incredulo ed ignaro del perché fosse incredulo. Fu in quel momento che sulla schiena del vecchio venne rotta una pesante sedia di legno. Il vecchio col soprabito cadde al tappeto senza sensi. L’uomo che l’aveva colpito alle spalle era il cassiere del locale, che ora se ne stava al centro della sala con lo schienale della sedia rotta in mano.
‹‹Ma che cosa hai fatto?›› gridò un istante dopo il barman.
‹‹Non hai visto? Voleva colpirti: era un pazzo››. Mentre il cassiere diceva queste parole, un cliente seduto al tavolo opposto rispetto a Peter e Diana, gli scagliò la zuccheriera sulla nuca. A quel punto il barman scavalcò furibondo il bancone per gettarsi sul cliente lanciatore. Lo braccò cercando di schiacciargli la testa sul tavolino, ma il cliente era più giovane e forte, e non si fece sopraffare: con una mossa assai atletica lo scaraventò a terrà facendogli picchiare pesantemente la schiena. Intanto il cassiere si era ripreso, anche se ancora dolorante, e dopo aver visto il barman rantolare sul pavimento senza fiato, prese la rincorsa e con un salto da gatto diede un calcio volate a due piedi al cliente, che cadde dalla sedia trascinandosi dietro il tavolino con tutte le consumazioni. Scoppiò un parapiglia: molti clienti cominciarono a lanciare oggetti, tazzine da caffè e bicchieri da Martini. Pater e Diana, reclinando il tavolino a mo’ di scudo, si rintanarono in un angolo del locale con una bella visuale. Diana aveva cominciato a fare un po’ di foto. Peter le segnalava i soggetti più interessanti: un bambino tirava i capelli ad un cameriere prima che lui lo colpisse con una bottiglietta di plastica sui denti; ora una ragazza stava baciando appassionatamente quello che doveva essere il suo fidanzato, prima che questi si gettasse sul cassiere, il più prestante tra i contendenti, brandendo cocci di bottiglia tra le dita. Diana fece delle foto che passarono alla storia e Peter visse per lungo tempo raccontando questo aneddoto agli amici. Alla fine Diana aveva ragione: sarebbe scoppiata una rissa, e fu una battaglia in piena regola.
(continua...)

domenica 18 luglio 2010

Due diaframmi - seconda parte


di Ezechiele Lupo


Peter si volta e va verso la cucina: sulla sua strada incontra Diana che prepara la tavola del piccolo salotto: sei sedie, una bella tovaglia bianco ghiaccio, tovaglioli in tinta e piatti blu, blu scuro. Peter la guarda dirigere il traffico delle posate, con il viso coperto dai capelli lunghi. Sempre così Diana: il perfetto mix degli amori della sua giovane vita. Diana, la persona più lontana dall’essere un amore per lui. La persona più adatta ad apparecchiare la tavola per una cena tra amici. La perla dell’intelletto. I
l regalo più bello che questa nuova città potesse dargli. Diana, che mentre pensa a lei gli si inzuppano gli occhi, gli si stringono le palpebre. Diana, la scusa perfetta per ogni sera andata storta. Diana, “non ho più sonno”. Diana, “immagino la mia vita tra le tenebre”. Diana, “leggi qualcosa che non sia un classico”. Diana, il verde dei suoi occhi vispi. Diana, con il suo lavoro perfetto. Diana, col suo sorriso che ti fa ridere.
Non ce l’avrebbe mai fatta Peter senza Diana. Ma per fortuna un giorno l’ha trovata: come si trova il giusto portachiavi. Diana gli ha spiegato come si vive in una città come quella, come si fa a relazionarsi con le donne di quella città, tanto che ora Peter colleziona ogni week end brunette e biondine che perdono capelli sul cuscino accanto al suo e spesso se ne vanno nel cuore della notte. Peter passa il tempo a parlare di come si devono fare le cose, specula tutta la sera su un comportamento, su una reazione mancata. Diana lo ascolta e gli mesce del vino bianco ghiacciato. Poi lo coccola, e lui è come un gatto che si lecca: a Peter piace essere egoista e Diana gli consente di esserlo. A Peter piace parlare e Diana ascolta. Peter parla sempre di identità: di chi si è, di chi si crede di essere, e alla fine pensa sempre che la colpa dell’inferno identitario in cui si vive è di chi non si preoccupa di definirsi, di delimitare la propria “area di esistenza”: la chiama così.
A Diana non importa molto di tutto questo. A lei importa che Peter stia bene. A lei importa più che gli piaccia il vino: che sia sempre fresco e fruttato. Diana sa che se Peter parla, non parla per meno di due ore e mezza. Sa anche che a volte c’è bisogno di un sacco di vino. Diana sa chi è: trent’anni, single e un’indiscreta passione per la fotografia di guerra. Le piacciono le immagini dei cadaveri straziati. Peter lo sa e un po’ ne ha paura. Diana sa che Peter ha paura: è per questo che vorrebbe coccolarlo di più. Peter e Diana non si amano. Non si piacciono: non sarebbero mai una coppia. Non si sono mai svegliati nello stesso letto. La saliva che si sono scambiati stava sul cucchiaino del gelato all’amarena: punto. Diana e Peter hanno passato decine di serate insieme a passeggiare per le strade del centro. Diana raccontava a Peter tutte le cose che quelle strade le dicevano: a Peter non interessava molto, ma era entusiasta che lei condividesse con lui quelle cose. Peter non poteva stare senza parlare con Diana.
Peter aveva dei problemi insuperabili: talmente totalizzanti che il più delle volte non si ricordava quali fossero. Molto più spesso credeva di essere così: identificato esattamente col suo male, col il suo problema. Questo svuotava tutto di senso. Peter spesso non riusciva a cogliere le differenze, ogni cosa era essenziale, ogni incontro imprescindibile, ogni occasione, anche la più insignificante, assolutamente imperdibile. Un giorno aveva detto a Diana: ‹‹Diana, ormai per me parlare con te o con l’ultimo degli inservienti della libreria è uguale: è come se avessi un messaggio precostituito. Finisco per dire sempre le stesse cose, per parlare sempre allo stesso modo. Non c’è più privato per me, non c’è più il personale, l’intimo. Ogni cosa va detta e io la dico, senza importanza per la confidenza. A me interessano solo le reazioni delle persone rispetto alle mie affermazioni: come un regista e il suo pubblico››. Diana, che stava scrivendo una lista di cose da fare, alzò lo sguardo e gli rispose: ‹‹Ogni regista ha il suo critico più feroce››. Peter aveva abbozzato.
Diana talvolta si fermava a guardare Peter e muoveva la testa su e giù in un modo impercettibile e frenetico. Peter non se ne accorgeva. Diana aveva imparato a guardarlo come fosse sempre parte della sua visuale: c’era Peter in ogni campo che riusciva a mettere a fuoco. Per Diana lo sguardo, l’atto del guardare, era tutto: passava ore a guardare le cose, fino a che queste non diventavano uniche. Quelle e solo quelle: come si fa con i propri figli, immagino. Una sera Peter era tornato a casa e l’aveva trovata addormentata sul divano in reggiseno e mutandine con il primo volume de L’uomo senza qualità di Musil rivolto sulla pancia. L’aveva svegliata per chiederle se doveva accompagnarla a casa sua o preferiva continuare a “leggere” sul divano. Diana rispose che voleva leggere sul divano. La mattina dopo lei fece il caffè e glielo portò in camera: gli scrisse un bigliettino e se ne andò, dopo essersi rivestita. Quando Peter si svegliò trovò scritto: “il caffè senza qualità”. Quella bevanda era davvero senza qualità, dopo l’esame del gusto: Diana era sempre trasparentemente sincera. E oggettiva. Diana era l’oggettività del mondo, il quale era così perché così lo vedeva Diana. Tutti possiedono soggettività tranne Diana, pensava Peter. Ogni pensiero
è soggettivo, ma quelli di Diana non sono pensieri: sono giudizi. Diana inverava e avverava solo col pensiero. Era il pensiero del mondo: il pensiero del reale. Era per questo che Peter non poteva prescindere da lei. Perché si fidava. E, come dicono nei film americani, “dio solo sa” quanto avesse bisogno di fidarsi di qualcuno. Per fortuna aveva incontrato Diana.
Per Peter la città accadeva ogni giorno. La città era un evento, un accadimento: non è che lui non ne fosse parte, ma aveva sempre la sensazione che nulla dipendesse da lui. Quotidianamente nasceva e moriva mentre questa si rappresentava da sé, senza bisogno di lui. Diana lo guidava appena poteva: a Peter sembrava che la facilità di Diana nel girare la città dipendesse dal controllo che riusciva ad esercitare sull’ “evento-città”. Controllo ipotetico s’intenda bene.
(continua...)

sabato 17 luglio 2010

Due diaframmi - prima parte

di Ezechiele Lupo

‹‹Con un cappello a tesa larga, grigia, una bandana a fiori blu sul viso che lasciava scoperti solo gli occhi per vedere, con un paio di guanti rosa, o forse viola, con una maglietta maniche lunghe nera, delle scarpe pesanti e dei calzettoni neri. Una ragazza, una giovane donna, se ne andava in giro così: in bicicletta. Forse affetta da un male alla pelle, comunque una figura triste, impegnata a trascinarsi, presa a sopravvivere. Il male. Il male ti definisce, ti forma. Ti identifica. Forse non vogliamo tutti questo? Non vogliamo saperci descrivere, saperci nominare, darci una fisionomia? Passiamo anni a chiederci cosa “possiamo essere”. I peggiori tra di noi si chiedono cosa “vogliamo essere”: sono quelli che credono che con la volontà si delimiti la coscienza di sé. E’ superfluo dire che non possiamo voler essere: semplicemente siamo. E anche l’opzione, il nodo del “poter essere” è oscuro. Le potenzialità sono un campo assai sconosciuto. Il male è facile. Chiunque conosca il male risponderà alla domanda, interna o esterna, “chi sei?” con il nome della propria malattia. E’ molto, troppo facile definirsi nel male: è liberatorio. Dal male tutto discende, tutto di declina; i gusti, le attitudini si cristallizzano, si diventa, anzi si è, subito quella cosa lì, quella persona lì. Io ho fatto molto per evitare questo: la disciplina che oggi, davanti a voi, sono onorato di rappresentare, ha questa missione come faro che illumina la nostra condotta. Diceva il grande prof. R******, padre della disciplina, che tutti voi conoscete: “L’uomo è disperso nell’identità. La malattia è la bussola più chiara: ma l’ago punta ad un nord avvelenato”. Ecco, questa sera, ritirando il premio che l’Accademia mi ha riconosciuto, dico a voi, stimati ed illustri colleghi: il dovere di noi medici della disciplina è impedire che il male si sostituisca all’uomo, impedire un’identificazione tanto malvagia. Vi ringrazio tutti e spero che possiate passare una splendida serata. Grazie ancora››.

* * *
Quella sera dorata, in quella sera dorata al quarto piano di un piccolo palazzo del centro città, era rivolto aperto con le pagine all’ingiù su un vecchio tavolino di legno, perché il segno non si perdesse. Quella sera dorata la luce dorata filtrava dalla tenda bianca a soffietto, mentre fuori il tramonto volgeva alla sera. Quella sera dorata divideva il tavolino con un portacenere di vetro rosso e blu e qualche cicca spenta e una sigaretta fumante. Peter si avvicina, arriva dalla cucina, e prende tra le dita fini la sigaretta: una boccata mentre guarda la copertina del libro. Lo prende, lo volta e legge:

‹‹Lei non mi ama›› disse Omar.
‹‹Come fai a saperlo?››
‹‹Me l’ha detto››.
‹‹Forse si sbagliava. Spesso la gente si sbaglia su queste cose››. Tacque un momento. ‹‹Esclusi i presenti, naturalmente. Io non mi sbagliavo, io ti amavo, lo sai››.
p. 282


Peter posa Quella sera dorata dove l’ha trovato e dice a bassa voce: ‹‹Sei un grande scrittore Peter…››
‹‹Parli a te stesso?›› E’ Diana che parla: è uscita dalla cucina con una tovaglia sotto il braccio.
‹‹No: parlavo di Peter Cameron, autore di Quella sera dorata, il libro che sto leggendo››.
‹‹Sembra un caso di omonimia››.
‹‹Così sembra...››
‹‹Di cosa parla?››
‹‹Beh vediamo… c’è uno studente che vuole scrivere come tesi finale del suo dottorato, la biografia di uno scrittore morto: decide così di partire e far visita ai familiari per convincerli a concedergli l’autorizzazione. Lì incontra la vedova dello scrittore e la sua bizzarra famiglia… beh poi succedono varie cose››.
‹‹Roba di storie d’amore, di passioni che si interrompono e riprendono, di indecisioni sentimentali e crisi morali. Il protagonista dev’essere un tonto…››
‹‹Un tonto interrotto: una specie di fallito. Un imbelle…››
‹‹Che però avrà il suo scatto, imprimerà la variazione giusta al momento adatto…››
‹‹E’ soprattutto un romanzo di conversazione, sai, tutto qui››.
‹‹Capisco. Me lo presterai spero››.
‹‹Certo che te lo presterò: mi manca poco››.
‹‹Come hai detto che si chiama? Una sera…››
‹‹No, no: Quella sera dorata››.
‹‹Quella sera dorata››.
‹‹Sì››.
(continua...)