Il giudice sul mulo Periodico perenne di linguaggi letterari.

sabato 29 novembre 2008

L'esercito della nebbia - ultima parte

di Guido Micheli
VII) Marco
Quando i membri dell’ Esercito della Nebbia ebbero saziato le loro voglie omicide, lasciarono il paese in silenzio portandosi via quello che più loro piaceva tenersi appresso: le vite di quante più anime sofferenti riuscissero a mietere. Camminavano avvolti dal manto grigio del furore assassino e scivolavano pigri in attesa di giungere a nuove fonti di soddisfazione omicida. Da quel giorno sul paese splendette spesso un caldo e simpatico sole, e la narcotica sensazione che regolava le vite di tutti si sciolse ai suoi tiepidi raggi.
Marco e la sua ultima ragazza si erano appena lasciati perché dopo tanti giorni d’amore qualcosa si era inceppato e né lei né lui erano in grado di oliare di nuovo gli arrugginiti ingranaggi del sentimento. Scese lentamente i larghi gradini che dalla piazza conducevano alla spiaggetta ghiaiosa. Si sedette sul ciglio della piattaforma di cemento, tanto bassa che quando l’acqua del Ramo si alzava la sommergeva del tutto. Si accese una sigaretta a gambe incrociate e osservò una papera che gli si avvicinava curiosa. Aveva la testa verde, il becco giallo, il piumaggio del corpo grigio e quello delle ali di un grigio più scuro, la coda era nera striata di bianco e attraverso l’acqua si osservavano nitide le zampe arancioni che sbattevano discrete, allegre e palmate.
“Ciao”, fece la papera quando gli fu di fronte, sbatacchiando comicamente il becco. In quel momento a Marco venne in mente che quella era una papera maschio. Un papero, dunque. Le papere femmine, infatti, sono marroncine e le si vede in primavera seguite da file ordinate di paperotti piccoli piccoli, tre quarti dei quali non diventeranno mai come la mamma: due quarti moriranno ghermiti da uccelli più grossi o in qualche altra maniera, il restate quarto… sono maschi. La natura vuole così.
“Ciao.” Rispose.
“Chi sei tu?” fece l’uccello lacustre curioso.
“Sono Marco.”
“Io sono un papero. Vorresti venire a fare un giro con me?”
“Mi piacerebbe, ma in acqua non ci posso entrare; fa troppo freddo per me.”
Il papero si fece un po’ triste
“Mi dispiace non poter condividere il mio mondo con te.”
“Dispiace anche a me”, rispose Marco sincero. Il papero sguazzò via.
Spenta la sigaretta si avviò verso la stazione e quando fu lì ne accese un’altra, in attesa del treno. Il mondo di Marco era, in quel momento, sconvolto e in conflitto. L’aria frizzante che lo circondava, quella stessa che lui respirava mischiandola ai veleni della nicotina, conduceva la sua lotta interiore in un delirio esistenziale, indecisa com’era se trasformarsi in primavera o mantenere la forma e i colori del clima invernale. Anche nella sua testa era in corso un conflitto, ché i pensieri che vi si annidavano a migliaia lottavano disperati, sgomenti perché prigionieri di una coltre di apatia che li teneva rinchiusi in celle sovraffollate e si rompevano i denti, pazzi, mordendo le sbarre neurotiche che intristivano le loro finestre, torturati dal fatto di poter vedere ciò che era fuori ma di non poterlo raggiungere. E una terza lotta era quella del suo cuore il quale, impazzito, aveva cancellato in un giorno dieci mesi di amore ed ora, stringendo in pugno un tubetto di Super Attak, tentava di rincollarne i cocci, sapendo che anche a rimettere insieme i pezzi, nulla sarebbe più stato perfetto. Tutto sarebbe apparso brutto, precario, incrinato.
Questo è il ritratto del mondo di Marco che, stringendo nel pugno un biglietto per chissà dove, si sedette in carrozza con le spalle rivolte al senso di marcia. Guardando dal finestrino vedeva le cose belle del mondo allontanarsi da lui, scappare veloci dalla sua impotenza di piccolo uomo che tutto vorrebbe afferrare, avido, e tutto vede sfuggire di mano. E le cose che scappavano da lui lo guardavano inespressive quasi a volergli dire che non è che sia giusta o sbagliata, bella o schifosa, questa realtà che ti tira di qua e che poi ti spinge indecisa dalla parte opposta. Non è giusta o sbagliata, bella o schifosa. È così e basta.
Ora sembra piena.
Ora sembra vuota.
Sa solo sembrare.
Fine

venerdì 28 novembre 2008

L'esercito della nebbia - terza parte

di Guido Micheli

V) Furio
Furio era appena uscito dalla casa di un suo vecchio amico dove lui e alcuni suoi compagni ultra quarantenni avevano tenuto una rimpatriata. Quella sera i fumi dei bonghi e degli spinelli avevano assunto l’aroma di vecchi sballi giovanili. Molti bicchieri erano stati svuotati, molte Rizla Argento avevano preso fuoco con quel particolare odore che tanto era loro caro, e Furio era uscito da quel devasto contento, felice della consapevolezza di potersi ancora permettere certi svaghi.
Stava tornando a casa sua camminando crasto per le vie del paese quando una Vespa bianca gli si avvicinò. A bordo del ciclomotore, che prese a viaggiare a passo d’uomo al suo fianco, c’era Cristorsi, uno degli uomini che più aveva contribuito a bruciar papelle durante quella serata affumicata. Cristorsi gli tirò un calcio in culo e si allontanò veloce mollando frizione e ruotando il polso destro. Furio prese a urlargli dietro, divertito e ilare, grazie agli sballi dell’ hashish, dandogli del pirata. Si rese conto di essere molto affascinato dal suono della parola “pirata”. Il suo amico mise la freccia e, voltando a destra, si dileguò nel buio. Successivamente un’automobile gli passò accanto e lui, dal marciapiede, non riuscì a trattenersi dal gridare: “Pirata!”.
La macchina si arrestò e ne scese lui, El Bucanero, con l’uncino al posto della mano sinistra, l’occhio bendato, la bottiglia di rum nella mano sana.
“Chi sarebbe il pirata?” chiese avvicinandosi minaccioso.
Furio era esterrefatto e lo sballo gli rendeva difficili i ragionamenti reattivi.
Ecco come divenne una delle tante vittime dell’Esercito della Nebbia
“Se non mi dai dei soldi ti stronco.” fece il pirata agitando minacciosamente l’uncino davanti al suo naso.
“Non ne ho di soldi.”
“Vediamo se con questo smetti di fare resistenza.”
Gli ficcò l’uncino sotto il mento e la punta dell’uncino che, penetrando le sue carni, gli arrivò fino in bocca. Lo trascinò in un vicolo buio. Le gambe di Furio strisciavano per terra mentre gli sembrava che una parte della faccia, comprendente il suo mento, il labbro inferiore e la mascella, fosse sul punto di staccarsi dal resto e rimanere appesa a quel gancio. Fu trascinato per una quindicina di metri che, tuttavia, gli parvero chilometri; la lingua era costretta dalla punta dell’uncino in posizione rialzata e si stava profondamente lacerando, il sangue gli inondava copioso la cavità orale ed in parte scivolava in una cascata rossa attraverso l’esofago, in parte andava a intasare i tubi respiratori. Fu preso da un irresistibile bisogno di tossire, per evitare che i bronchi e i polmoni fossero invasi dal liquido ematico, ma, al primo colpo di tosse, le contrazioni fecero si che l’uncino gli trapassasse la lingua e gli si incastrasse nel palato. Fino a quel momento il pirata aveva camminato trascinando Furio alle sue spalle, col braccio teso all’indietro; ora, giunto in fondo al vicolo, lo trasse avanti a se con un movimento secco facendogli sbattere violentemente le spalle e la nuca contro un muro. Inevitabilmente l’uncino, trapassandogli il palato per via dello strattone, gli andò a finire nel naso, sbriciolandogli letteralmente il setto. Furio, non riuscendo più a respirare, morì in meno di mezzo minuto, soffocando nel sangue. El Bucanero rimase per qualche secondo in piedi, sorridendo nell’ammirare la sua opera. Poi puntò un piede sul petto del corpo di Furio e tirò forte col braccio per disincastrare l’uncino. Udì distintamente lo scricchiolio delle ultime ossa del volto che si spaccavano, il gancio venne via portando con se metà di quello che una volta era stato un volto, e che adesso non era altro che un mucchietto di carne raggrumata e frammenti ossei sparsi per terra.

VI) Il Rauco
Un giorno io e Marco eravamo andati a fumare sulla spiaggia in riva al Ramo e avevamo visto due poliziotti con tanto di divise trascinare un uomo e buttarlo nell’acqua dal molo. Doveva essere un oppositore del regime narcotico. Il regime narcotico consisteva nel conservare l’identità del paese, senza fare niente che attirasse più turisti e niente che ne facesse arrivare di meno. Niente che potesse rendere la vita più interessante, niente che la rendesse più noiosa. Gli oppositori di questo ordine di idee venivano presi e gettati nel Ramo. Si diceva che diventassero dei “dannati”, e si diceva bene. I cosiddetti dannati erano delle anime in pena che nuotavano, anzi, lottavano perennemente per non annegare nelle torpide acque del Ramo e sembrava potessero far naufragare i navigatori. Beh, voi potete benissimo pensare che i miei siano solo vaneggiamenti a sfondo dantesco, ma lasciate che vi riferisca il racconto del Rauco.
Il Rauco si materializzò alle nostre spalle mentre ci stavamo fumando il nostro spinello e prese a raccontare di ciò che era accaduto a suo padre.
“Mio padre aveva una barchetta proprio qui, su questa spiaggetta - cominciò - ma non la utilizzava mai perché aveva paura dei dannati. Si dice che facciano affondare le barche e impazzire i pescatori. Ad ogni modo lui aveva il diritto di tenersi la sua barchetta sulla riva. I corsi d’acqua sono di tutti, no? Sono delle opere di madre natura…”
“Già.” Feci io passandogli la canna. Lui mi ringraziò con un cenno della testa, fece un tiro e riprese a parlare.
“Quindi, secondo me, non c’era nessun motivo per cui a mio padre fosse proibito di tenere qui la sua barchetta. Secondo la polizia, invece, si. Gli sbirri sostenevano che questa spiaggia è proprietà privata, concessa dal comune ai gestori del bar qui vicino. Mio padre, dopo aver cercato di difendere le sue ragioni, cedette all’inflessibilità degli agenti e disse che avrebbe portato la barca in garage. Disse che sarebbe andato a prendere la macchina e il carrello per trasportarla a casa. Gli sbirri, però, non erano ancora contenti; volevano che la portasse via subito, che non rimanesse lì per i cinque minuti che gli ci sarebbero voluti per andare a prendere l’automobile e portarla fino alla spiaggia. La cosa avrebbe dato loro la nausea. No, mio padre doveva andarsene subito e doveva farlo mettendo la barca in acqua perché la spiaggia fosse liberata all’istante. Lui parlò loro dei suoi timori ma questi non gli prestarono ascolto; lo costrinsero a salire in barca e a prendere il largo. Quando fu lontano dalla spiaggia la barchetta si rovesciò. Mio padre non fece più ritorno a riva. Ho sporto denuncia nei confronti dei due poliziotti, ma temo non subiranno nessuna sanzione, sebbene abbiano sulla coscienza una vita umana.”
Il rauco smise di parlare, diede un’occhiata alla canna che nel frattempo si era spenta, prese l’accendino e la rianimò. Per un po’ restammo in silenzio.
(continua...)

giovedì 27 novembre 2008

L'esercito della nebbia - seconda parte

di Guido Micheli

IV) Tommaso
Tommaso era un amico mio e di Marco, un neoventenne che se ne stava sdraiato sul suo letto a leggere Bukowski ascoltando un cd degli Stoogies. A Tommaso (blue jeans, camicia a quadri di flanella) veniva il magone a pensare che Bukowski fosse morto; lo sentiva così vivo nelle pagine di quel libro… cazzo, invece era morto, c’era scritto sul retro: Charles Bukowski (Undernach, Germania 1920 – San Pedro, California 1994). Era morto da undici anni.
Torniamo indietro di una dozzina di ore e vediamo com’era andata la sua festa di compleanno.
Il giorno in cui leggeva Bukowski era il 23 marzo e la festa era iniziata alle 21 del 22 marzo, andando avanti fin dopo mezzanotte, entrando così in pieno degenero nel giorno del suo ventesimo compleanno. Senza stare a raccontare come il party ebbe inizio, o come finì, scattiamo una fotografia del suo apice.
Un ragazzo aveva gli occhi rossi, un buco nel collo, un coltello in una mano e una fetta di torta nell’altra, mentre un uomo con un piede tranciato e la caviglia che sprizzava sangue, gli mordeva un ginocchio dal quale fuoriusciva un fiotto rosso che, andandosi a mischiare al vino d’una bottiglia rovesciata, formava un tutt’uno puzzolente e purulento. L’uomo che gli mordeva il ginocchio aveva una gamba del tavolo piantata nel corpo. Sul tavolo la torta si stava squagliando e da questa sbucavano due occhi diabolici. Una prostituta ballava mezza nuda in mezzo alla festa, Luca (che indossava una maglietta dei Ramones) aveva un’ascia piantata in testa e il suo amico Norberto stava fumandosi una canna seduto sul divano. Gaspare era contento e sorrideva ebete perché aveva tanto vino in circolo. Un tizio vicino a Norberto si era tramutato in scheletro, un altro vomitava roba variopinta ed un altro ancora stava passando un cannone a Tommaso, il festeggiato, mentre una bottiglia di birra gli volava in testa fracassandosi.
Un ragazzo si trovava sdraiato per terra, collassato dopo l’ennesimo bracere di bongo strappato, una diabolica presenza lo stava per sbudellare tra i rumori dei conati dei tanti invitati. Una chitarra tutta rotta adornava un angolo del salone, mentre un gatto attraversava indisturbato quel macello ed un pallone da calcio a pentagoni neri rimbalzava nel casino.
La noia, si sa, può giocare brutti scherzi, perché la noia, si sa, la si deve ammazzare. C’è allora chi per uccidere il tempo s’ammazza di seghe, o ammazza qualcuno, anziché andare al cinema o leggere un libro istruttivo. Forse è sempre per via della noia che qualcuno ogni tanto impazzisce e sbudella la moglie o allaga una scuola o fa qualcos’altro di comunemente insensato. Una festa non è altro che una variante di noiosa rottura, la musica non è altro che una variante nelle onde che attraversano l’aria e ci stimolano il timpano, l’incudine, la staffa, il martelletto, il nervo acustico, il cervello. Una bevuta ci manda le funzioni corporee in subbuglio, così, similmente, gli impulsi sessuali riempiono il corpo tutto d’ormoni: fare cose proibite o commettere violenze inonda il sangue di adrenalina, pompata con forza da ghiandole impazzite. E poi c’è il fattore compagnia; da soli, si sa, ci si diverte a fatica. Ci vuole qualcuno perché chi ci ha creati l’ha fatto volendo che comunicassimo e condividessimo con gli altri esperienze ed emozioni. Così se si è soli capita di mettersi a comunicare con un foglio di carta. La penna è tua amica e scivola veloce come una sorsata di birra e ti sorride quasi fosse il tuo compagno di sbronze preferito. Non c’è da stupirsi se poi vengono fuori scritti assurdi o insensati o noiosi che si trascinano pigri per centinaia di pagine in volumi considerati capolavori.
Tommaso si stava vivendo la sua mattina di dopofesta. Prese il pacchetto di sigarette, l’accendino e il posacenere. Portò tutto in bagno, si tirò giù i pantaloni e si sedette sul cesso. Prese una sigaretta estraendola dal pacchetto di Camel Light color azzurro cielo e la portò alla bocca. Strinse le chiappe, dilatò il buco del culo, fece uscire uno stronzo osservando la fiamma dell’accendino e l’estremità della sigaretta acquistare un colore incandescente. Tirò con gusto, e poi con più gusto. Lo rilassava molto fumare mentre defecava. Al quinto tiro di sigaretta, però, accadde qualcosa che gli piacque poco. Era al terzo stronzo, nel bel mezzo del rilassamento, all’apice della goduria, quando sentì un forte dolore provenire da un punto imprecisato del corpo, un dolore acuto, lancinante, che sembrò attraversarlo per intero. Si alzò di scatto dalla tazza del cesso, guardò in basso e la sua vista era quella di una telecamera fuorifuoco, guidata dalle tremule mani di un cameraman che doveva aver bevuto troppo. Vide sangue. Dentro al cesso, sulla tavoletta del water e sulle piastrelle del bagno. Si toccò in mezzo alle gambe e sentì bagnato. Sbandò, cozzò contro il muro, emise un grido strozzato, si lasciò scivolare lungo la parete, si sedette sul pavimento con le gambe aperte e le ginocchia piegate e cominciò a piangere.
Andrea buttò giù la porta del bagno a spallate. Andrea era suo fratello, faceva palestra, e aveva sentito l’urlo di Tommaso seguito dai singhiozzi. Lo trovò svenuto (gambe aperte, ginocchia piegate, schiena contro il muro, testa ciondolante), una striscia di sangue denso partiva dal water e finiva in mezzo ai suoi arti inferiori. Tommaso non aveva più i testicoli ma grumi di rossa linfa rappresa. E il cazzo, mio dio, il suo pene era attaccato al resto del corpo grazie ad un sottile lembo di pelle sgualcita; penzolava inerte, era diventato grigio e toccava con la punta il pavimento insanguinato.
Alla vista di cotal scempio Andrea vomitò il latte marrone di cioccolato solubile che aveva da poco ingerito. Questo, misto ad una buona dose di succhi gastrici, inondò la ferita del fratello in un trionfare di schifo batterico. E non si fermò qui. Cominciò a grugnire come un porco e la sensazione che provò fu come ricevere un pugno nello stomaco da un peso massimo mentre un ferro da maglia gli trapassava il cervello. E svenne a sua volta, testa nel vomito, in mezzo alle gambe di Tommaso.
Fu solo allora che Rigetto il folletto sanguinario, il primo di una serie di mostri assassini che per un certo periodo invasero il Paese, si decise a mettere la testa fuori dalla tazza del cesso.
“Bel lavoro ho fatto - pensò nella sua pelle verde e squamata, compiacendosi di avere denti più grandi del proprio cervello - bel lavoro, ma posso fare di meglio.”

Mi chiamo Rigetto
non scrivo, non penso, non leggo i giornali.
Secondo gli uccelli io sono uno scemo
ché vivo del male e non creo la poesia
di un cinguettio quieto nel fresco mattino.
Non so se lo sanno
ma sui rami degli alberi
e sui davanzali
non ci si arriva
senza le ali.
(continua...)

mercoledì 26 novembre 2008

L'esercito della nebbia - prima parte

di Guido Micheli

I) Marco

Marco si svegliò alle sei e mezza, diede una manata ai tasti del cellulare che smise subito di suonare. Aveva puntato la sveglia così presto solo perché doveva svegliare la sua ragazza che aveva l’orologio rotto, abitava lontano da casa sua, e doveva alzarsi presto per andare al lavoro. Chiamò la tipa e le diede il buon giorno, poi riprogrammò la sveglia per le otto e si rimise a dormire. Quando suonò di nuovo si sparò una sega, si alzò, si vestì con calma, mise insieme alcuni pezzi del puzzle che giaceva semicostruito sulla scrivania in camera e uscì a comprare un paio di brioches per la colazione. Andò al panificio e comprò anche il pane. La commessa era Chiara, sua ex compagna di classe alle scuole medie. Una volta il Gino le aveva fatto uno scherzo telefonico dandole della mignotta sul nastro della segreteria di casa. Ripercorrendo i 250 metri che separavano il panificio da casa sua, si godette la calma che solo un universitario semicasalingo sa godersi, in un placido lunedì mattina, di una temperata giornata di marzo. Tornò a casa col sacchetto della spesa e trovò suo fratello minore, Simon, sdraiato sul divano del salotto
“Che cazzo ci fai tu qui? - gli chiese - non dovresti essere a scuola?”
“Ho mal di testa.” Rispose Simon metallico.
Marco andò in cucina e mise dell’acqua in un pentolino: mise il pentolino su un fornello acceso. Aspettando che l’acqua bollisse, prese un coltello e aprì in due una delle due brioches che era senza farcitura. La farcitura la fece lui, con un crasto quantitativo di Nutella spalmata alla bell’e meglio. Poi morse ripetutamente quel capolavoro dell’arte dello stare a tavola, godendosi particolarmente i granuli di zucchero sulla superficie di quel raffinato prodotto di pasticceria. Dopo aver finito la prima brioche attaccò la seconda che era piena di marmellata semiacida; se la gustò di brutto. Mise una bustina di tè equo e solidale nell’acqua che ormai scalpitava viva nel pentolino.

II) Io
A un chilometro da lì, mi svegliavo anch’io, mi stropicciavo gli occhi e guardavo inebetito il nulla in cui vivevo. Misi su una canzone dei Nirvana e cominciai ad ascoltare la voce di Kurt Cobain che mi chiedeva di stuprarlo. Avevo un suo poster il camera, una foto in bianco e nero che lo ritraeva con quel suo sguardo perso nel vuoto. Guardavo il suo volto e lo ascoltavo cantare fissandogli ora le pupille, ora la bocca, sperando che le sue labbra cominciassero a muoversi e che il suo sguardo prendesse vita. Mi camminavo a destra e a sinistra e mi sembrava di vederlo, assassino di se stesso, saltare fuori dalla carta, camminare stanco, bombardare la chitarra, bucarsi una vena. All apologies, all my apologies to you: my friend.
Sterco di cavallo fumante, ecco quello che trovai per strada.
Ero uscito a prendere una boccata d’aria e avevo preso una boccata di sterco.
Me lo aveva ficcato in bocca Buster, il bullo del paese, lo stronzo. Ma devo dire che non feci niente per impedirglielo: chissenefrega? Ero al freddo con la bocca piena di merda, sdraiato in un viottolo sterrato con un po’di neve a tenermi sofferente, non avevo nulla in cui credere e nulla per cui combattere, non avevo che insignificanti oggetti e insignificanti soldi. Non chiedevo nemmeno aiuto ché nessuno ha voglia di aiutare nessuno. Quelli che hanno voglia sono antipatici.
Ogni tanto lavoravo da barista al “Rino Bar”. Un giorno venne dentro un rastone con la pelle scura che somigliava a Bob Marley.
“Un caffè” mi disse accostandosi al banco. Io mi girai e gli feci il caffè.
“Vuole lo zucchero?” gli chiesi.
Lui si appoggiò con i gomiti al bancone e, guardandomi dritto, scandì col contagiri due parole:
“Di canna.”

III) Furio
“Gli uomini uccideranno voi stupidi animali.”
Il gatto guardò Furio con aria perplessa. Furio era ubriaco, ubriaco al punto che delirava. Non gli era mai capitata una cosa simile, un delirio di quel genere. Non causato dall’alcol per lo meno. La noia sì: la noia lo aveva spesso portato a lunghe conversazioni solitarie.
Quando era solo in casa e non sapeva che fare non accendeva la televisione. Si stravaccava sul divano e cominciava a emettere urla, canti, parole in inglese e in italiano, parole incomprensibili o sensate, accostate senza filo logico, eccetera. Il delirio di ubriachezza era così simile a quello di noia… forse perché il primo era stato causato dal secondo; in pratica si era ubriacato perché si annoiava.
“Non vedi quanto spreco? - chiese Furio al gatto - Con tutto il tempo che ho sprecato avrei potuto… ehm… costruire una casa, per esempio, o guadagnare un sacco di soldi lavorando… sono utili i soldi, sai? Puoi comprarci tante cose, e una volta comprate aspettare che diventino vecchie, e intanto puoi continuare a lavorare e guadagnare altri soldi per comperare altre cose che ti facciano dimenticare le cose che hai comprato prima e…”
Furio, poveretto, un quarantacinquenne in crisi, più disoccupato che resto, con due figlie e un figlio da mantenere. Il figlio era il sopra citato Marco: mio amico, coetaneo, ventenne, universitario strano. Mai quanto il padre che parlava con gli animali, comunque. Le sorelle di Marco erano più grandi di noi ed erano delle gran fattone; ci procuravano fumo eccetera. Anche i genitori erano dei fumatori incalliti.
Un giorno Furio aveva detto a suo figlio: “Cos’è questa storia che le canne bruciano le cellule cerebrali? Con tutte le canne che mi sono fumato non dovrei più avere un cervello, io!”
Non sono sicuro che avesse ragione.
Accadde un giorno che Furio andò ad ascoltare le pesanti parole che uscivano dalle bocche dei dannati del Ramo. Il Ramo era un corso d’acqua scura, molto largo e molto lungo: una via di mezzo tra un lago ed un fiume che si perdeva nella nebbia. C’era una spiaggetta con un molo all’inizio di questo corso, ma poi nessuno poteva proseguire a piedi. L’unica cosa era continuare in barca, o a nuoto; ma correva voce che navigare o nuotare per quelle profonde acque fosse come suicidarsi, perché le voci dei dannati ti fanno impazzire, e nessuno sa poi tornare indietro.
Furio era lì e guardava gli uccellacci volare al di sopra del cupo corso d’acqua quand’ecco arrivare dalla nebbia un motoscafo color bianco sporco. Procedeva a tutta velocità ma, arrivato di fronte al molo, rallentò di colpo, quasi fermandosi. La vista di Furio non era delle migliori e invano si sforzò di mettere a fuoco la sagoma scura che si aggirava sull’imbarcazione. Rimase a fissarla per una ventina di secondi che si dilatarono nell’infinito. Un dannato? Un moderno traghettatore infernale? Il motoscafo riprese a muoversi un po’ più velocemente e sparì di nuovo confondendosi nella foschia.
(continua...)

martedì 18 novembre 2008

Bucolica

di Victor Attilio Campagna

O fiore, l’altura pasteggiava incerta
quando tu guardavi senza vedere
le valli ronzare; ricordavi il sapore
di quella primavera andata via

di sera, quando il mare era di vetro.
Fu un’arpa a dirti addio,
ed è un piede stanco a salutarti ora
quando la calura arde e tu taci.

È in te che scompare il volto
di questa aria saturnale – Margine
di esistenza, che raccoglie le parole pazienti –

era di notte che la volta abbracciava
il mare – un sapore di freddo marmo –
e già il sorriso era inciso su di te.

martedì 11 novembre 2008

Quando il mondo

di R. Castoro

Mentre il tram partiva
Io sfilavo dalla parte opposta
Ma in realtà lo seguivo di corsa
Cercando di non perdere il tuo profilo
Nonostante avessi promesso di evitare
Su ponti subacquei
E teatri di pietra e di avanguardia
Di cielo e di parole.
La febbre si esaurisce scorrendo
Ma la sorgente
Rigenera fra la testa e lo stomaco
Quel filo
Conduttore di pensieri tiepidi
Audaci?
Di un cristallo che si macchia
Quando il mondo fiata.

giovedì 6 novembre 2008

to fall

di Norberto Giffuri

venga la crisi
che venga
nella crisi avrò un alibi
per la mia inconsistenza

mi troverà sulla porta di casa
a mani vuote
che nulla potrà pretendere
da chi nulla ha conquistato

s'annuncia l'autunno
stentoreo
nella foglia che ha ceduto al vento

è così liberatorio
precipitare.