Il giudice sul mulo Periodico perenne di linguaggi letterari.

giovedì 27 novembre 2008

L'esercito della nebbia - seconda parte

di Guido Micheli

IV) Tommaso
Tommaso era un amico mio e di Marco, un neoventenne che se ne stava sdraiato sul suo letto a leggere Bukowski ascoltando un cd degli Stoogies. A Tommaso (blue jeans, camicia a quadri di flanella) veniva il magone a pensare che Bukowski fosse morto; lo sentiva così vivo nelle pagine di quel libro… cazzo, invece era morto, c’era scritto sul retro: Charles Bukowski (Undernach, Germania 1920 – San Pedro, California 1994). Era morto da undici anni.
Torniamo indietro di una dozzina di ore e vediamo com’era andata la sua festa di compleanno.
Il giorno in cui leggeva Bukowski era il 23 marzo e la festa era iniziata alle 21 del 22 marzo, andando avanti fin dopo mezzanotte, entrando così in pieno degenero nel giorno del suo ventesimo compleanno. Senza stare a raccontare come il party ebbe inizio, o come finì, scattiamo una fotografia del suo apice.
Un ragazzo aveva gli occhi rossi, un buco nel collo, un coltello in una mano e una fetta di torta nell’altra, mentre un uomo con un piede tranciato e la caviglia che sprizzava sangue, gli mordeva un ginocchio dal quale fuoriusciva un fiotto rosso che, andandosi a mischiare al vino d’una bottiglia rovesciata, formava un tutt’uno puzzolente e purulento. L’uomo che gli mordeva il ginocchio aveva una gamba del tavolo piantata nel corpo. Sul tavolo la torta si stava squagliando e da questa sbucavano due occhi diabolici. Una prostituta ballava mezza nuda in mezzo alla festa, Luca (che indossava una maglietta dei Ramones) aveva un’ascia piantata in testa e il suo amico Norberto stava fumandosi una canna seduto sul divano. Gaspare era contento e sorrideva ebete perché aveva tanto vino in circolo. Un tizio vicino a Norberto si era tramutato in scheletro, un altro vomitava roba variopinta ed un altro ancora stava passando un cannone a Tommaso, il festeggiato, mentre una bottiglia di birra gli volava in testa fracassandosi.
Un ragazzo si trovava sdraiato per terra, collassato dopo l’ennesimo bracere di bongo strappato, una diabolica presenza lo stava per sbudellare tra i rumori dei conati dei tanti invitati. Una chitarra tutta rotta adornava un angolo del salone, mentre un gatto attraversava indisturbato quel macello ed un pallone da calcio a pentagoni neri rimbalzava nel casino.
La noia, si sa, può giocare brutti scherzi, perché la noia, si sa, la si deve ammazzare. C’è allora chi per uccidere il tempo s’ammazza di seghe, o ammazza qualcuno, anziché andare al cinema o leggere un libro istruttivo. Forse è sempre per via della noia che qualcuno ogni tanto impazzisce e sbudella la moglie o allaga una scuola o fa qualcos’altro di comunemente insensato. Una festa non è altro che una variante di noiosa rottura, la musica non è altro che una variante nelle onde che attraversano l’aria e ci stimolano il timpano, l’incudine, la staffa, il martelletto, il nervo acustico, il cervello. Una bevuta ci manda le funzioni corporee in subbuglio, così, similmente, gli impulsi sessuali riempiono il corpo tutto d’ormoni: fare cose proibite o commettere violenze inonda il sangue di adrenalina, pompata con forza da ghiandole impazzite. E poi c’è il fattore compagnia; da soli, si sa, ci si diverte a fatica. Ci vuole qualcuno perché chi ci ha creati l’ha fatto volendo che comunicassimo e condividessimo con gli altri esperienze ed emozioni. Così se si è soli capita di mettersi a comunicare con un foglio di carta. La penna è tua amica e scivola veloce come una sorsata di birra e ti sorride quasi fosse il tuo compagno di sbronze preferito. Non c’è da stupirsi se poi vengono fuori scritti assurdi o insensati o noiosi che si trascinano pigri per centinaia di pagine in volumi considerati capolavori.
Tommaso si stava vivendo la sua mattina di dopofesta. Prese il pacchetto di sigarette, l’accendino e il posacenere. Portò tutto in bagno, si tirò giù i pantaloni e si sedette sul cesso. Prese una sigaretta estraendola dal pacchetto di Camel Light color azzurro cielo e la portò alla bocca. Strinse le chiappe, dilatò il buco del culo, fece uscire uno stronzo osservando la fiamma dell’accendino e l’estremità della sigaretta acquistare un colore incandescente. Tirò con gusto, e poi con più gusto. Lo rilassava molto fumare mentre defecava. Al quinto tiro di sigaretta, però, accadde qualcosa che gli piacque poco. Era al terzo stronzo, nel bel mezzo del rilassamento, all’apice della goduria, quando sentì un forte dolore provenire da un punto imprecisato del corpo, un dolore acuto, lancinante, che sembrò attraversarlo per intero. Si alzò di scatto dalla tazza del cesso, guardò in basso e la sua vista era quella di una telecamera fuorifuoco, guidata dalle tremule mani di un cameraman che doveva aver bevuto troppo. Vide sangue. Dentro al cesso, sulla tavoletta del water e sulle piastrelle del bagno. Si toccò in mezzo alle gambe e sentì bagnato. Sbandò, cozzò contro il muro, emise un grido strozzato, si lasciò scivolare lungo la parete, si sedette sul pavimento con le gambe aperte e le ginocchia piegate e cominciò a piangere.
Andrea buttò giù la porta del bagno a spallate. Andrea era suo fratello, faceva palestra, e aveva sentito l’urlo di Tommaso seguito dai singhiozzi. Lo trovò svenuto (gambe aperte, ginocchia piegate, schiena contro il muro, testa ciondolante), una striscia di sangue denso partiva dal water e finiva in mezzo ai suoi arti inferiori. Tommaso non aveva più i testicoli ma grumi di rossa linfa rappresa. E il cazzo, mio dio, il suo pene era attaccato al resto del corpo grazie ad un sottile lembo di pelle sgualcita; penzolava inerte, era diventato grigio e toccava con la punta il pavimento insanguinato.
Alla vista di cotal scempio Andrea vomitò il latte marrone di cioccolato solubile che aveva da poco ingerito. Questo, misto ad una buona dose di succhi gastrici, inondò la ferita del fratello in un trionfare di schifo batterico. E non si fermò qui. Cominciò a grugnire come un porco e la sensazione che provò fu come ricevere un pugno nello stomaco da un peso massimo mentre un ferro da maglia gli trapassava il cervello. E svenne a sua volta, testa nel vomito, in mezzo alle gambe di Tommaso.
Fu solo allora che Rigetto il folletto sanguinario, il primo di una serie di mostri assassini che per un certo periodo invasero il Paese, si decise a mettere la testa fuori dalla tazza del cesso.
“Bel lavoro ho fatto - pensò nella sua pelle verde e squamata, compiacendosi di avere denti più grandi del proprio cervello - bel lavoro, ma posso fare di meglio.”

Mi chiamo Rigetto
non scrivo, non penso, non leggo i giornali.
Secondo gli uccelli io sono uno scemo
ché vivo del male e non creo la poesia
di un cinguettio quieto nel fresco mattino.
Non so se lo sanno
ma sui rami degli alberi
e sui davanzali
non ci si arriva
senza le ali.
(continua...)

3 commenti:

Anonimo ha detto...

Non c'è che dire il tuo racconto fa proprio schifo. Nel senso etimologico del termine. Buona fortuna per una brillante carriera che, date le premesse, si annuncia inevitable.

Anonimo ha detto...

Mi sembra evidente che il nostro autore si sia fermato alla fase anale. Quando raggiungerà la maggiore età mentale - quella anagrafica temo, ahimè, l'abbia già raggunta - magari sarà in grado anche di confezionare qualcosa di gradevole, tipo i pensierini a piacere che si scrivono in prima elementare. Ma per ora sarebbe prematuro. O sono troppo ottimista? Ditemi voi.

Guido Micheli ha detto...

Hey! Vanno bene le critiche ma qui si tratta di insulti! Prima di augurare ai signori Morini e Marroni di diventare le prossime vittime di Rigetto il folletto tenteró un'autodifesa: quelli pubblicati sul giudice sono solo estratti di un racconto molto ampio e allegorico in cui una serie di mostri appaiono a sconvolgere lo status quo du un paese di provincia parallizzato in una cupa normalità. Senza l' escalation di episodi tragici che catatterizza il racconto forse il tutto perde di efficacia.Marroni e Morini hanno giudicato quindi solo una parte di una parte. L'ironia del signor Morini è, peraltro, facile e convenzionale. Da parte mia ritengo utile, dal punto di vista emozionale, tornare, ogni tanto, alle nostre pulsioni primitive (anali, orali o falliche che siano). A questo proposito vi rimando a un quadro di Picasso che ritrae un oumo intento a defecare, masturbarsi, e mangiare un pollo allo stesso tempo. È un po' come il mio personaggio che fuma mentre sta sul cesso (chi non ha mai provato non sa com'è bello!)