Il giudice sul mulo Periodico perenne di linguaggi letterari.

giovedì 6 novembre 2008

to fall

di Norberto Giffuri

venga la crisi
che venga
nella crisi avrò un alibi
per la mia inconsistenza

mi troverà sulla porta di casa
a mani vuote
che nulla potrà pretendere
da chi nulla ha conquistato

s'annuncia l'autunno
stentoreo
nella foglia che ha ceduto al vento

è così liberatorio
precipitare.

6 commenti:

Anonimo ha detto...

è divertente e vivificante pensare al - x - che fa +

Anonimo ha detto...

cazzate. smettila di fare la donnetta e combatti maledizione!

Anonimo ha detto...

avrei preferito essere chiamato "mammoletta" o "pappamolle".

Anonimo ha detto...

Venga la crisi e avrà i tuoi occhi si potrebbe anche dire.
Un broker di Wall Street l'altro giorno diceva: "Questa è una crisi dell'immateriale: quindi è una crisi esistenziale."
La crisi di cui scrive Giffuri non è economica, per quanto il soldo serva anche alla libertà, ma una caduta, un precipizio esistenziale. Che fare di fronte a questo baratro? Non ci resta che precipitare, come suggerisce in chiusura il buon Giffuri.
Ma badate bene che a me interessa l'accezione calviniana del termine. Italo Calvino diceva: "Noi guardiamo il mondo precipitando dalla tromba delle scale"; lo diceva nel '56 con i carrarmati sovietici che marciavano su Budapest, mentre il suo orizzonte politico si frantumava. Ma non mi pare che lo scrittore cubano si sia fermato lì, anzi. La lezione che l'intellettuale deve trarre dal precipitare è quella di cogliere ogni cambio di prospettiva dello spazio e del tempo, saperlo sviluppare, e possibilmente spiegarlo. Precipitare è molto liberatorio per chi ha gli strumenti. E non parlo del paracadute.

Anonimo ha detto...

La ringrazio Egregio Ezechiele e mi permetta di aggiungere che la crisi è un momento da sfruttare per far sì che nasca in Italia una sana cultura delle regole.

Insomma, precipitare si precipita, ma con stile e consapevolezza.

Anonimo ha detto...

Le Vostre riflessioni mi hanno fatto pensare ad un testo letto tempo fa. Si chiama elogio della fuga ed è stato scritto da Henri Laborit.
"Quando non può lottare contro il vento e il mare per seguire la sua rotta, il veliero ha due possibilità: l'andatura di cappa che lo fa andare alla deriva, e la fuga davanti alla tempesta con il mare in poppa e un minimo di tela. La fuga è spesso, quando si è lontani dalla costa, il solo modo di salvare barca ed equipaggio. E in più permette di scoprire rive sconosciute che spuntano all'orizzonte delle acque tornate calme. Rive sconosciute che saranno per sempre ignorate da coloro che hanno l'illusoria fortuna di poter seguire la rotta dei carghi e delle petroliere, la rotta senza imprevisti imposta dalle compagnie di navigazione. Forse conoscete quella barca che si chiama desiderio."