Il giudice sul mulo Periodico perenne di linguaggi letterari.

martedì 29 gennaio 2008

Opacità

di Tobia Deruna

L’ultimo bicchiere rovescia il piano dei sogni,
la notte annulla la polvere di mille chilometri,
un sorriso mancato è la dannazione del mondo
cinque minuti ti separano dal nulla o dal sole.

Cataste di parole inutili, luci al neon, acqua
che scivola alla terra, complesse architetture
di gesti decantati, imbalsamate posture
di ospiti dimenticati in forme di cristallo.

Il funerale del sole dura pochi minuti,
non lava i peccati di nessun mondo,
ne darà scampo ai vagabondi illusi,
sospesi nel limbo delle buone intenzioni.

Ammaccati da falsità prodotte in serie,
i giovani guerrieri riposano in cerchio,
hanno sguardi plastificati e di smalto,
corrono verso un mondo che gli si è arreso.

martedì 22 gennaio 2008

Ogni santissimo venerdì - ultima parte

di Ezechiele Lupo

Il pretaccio era in bagno e quando uscì per infilarsi il cappotto e pagare la donnaccia, ella era pronta per riferirgli ciò che aveva pensato: “Caro vescovo le dirò quello che ho pensato in questa settimana. Le voglio premettere che ho rinunciato a recitare e a capire la sua preghiera. Non la potevo comprendere, non ne afferravo il senso, e cercare mi dava noia. Prima almeno mi rilassava, quella serie di parole così musicali… erano proprio belle. Ma poi lei con i suoi discorsi me le ha rese odiose. Mi dispiace molto se questo sarà il nostro ultimo momento insieme, ma io della religione non me ne faccio niente. Vorrei parlarle di quello che facciamo ogni volta io e lei il venerdì mattina. Vede vescovo, il mio mestiere è questo, e non c’è nulla di più gratificante per me al mondo. Ma con lei ho qualche problema. Non so se se ne è accorto e per timidezza, o imbarazzo, non me lo ha mai detto. Lei non è molto esperto, lo capisco, ma con tutta la pratica che le ho fatto fare… insomma speravo che qualcosa si riuscisse ad ottenere. Invece mi parla della mia superbia, del mio peccato capitale. Lei fa bene, perché questo è il suo lavoro, e probabilmente io sarò anche superba, non lo nego. Ma la cosa non mi interessa. Sa, ho capito una cosa: lei trova il senso delle cose nella fede, io nel piacere. Solo che io ci guadagno anche. Lei avrà pure la fede, ma non l’hanno ancora inventato un mestiere per il quale basti essere un credente per farci su dei soldi. La sua posizione è chiaramente perdente, rispetto alla mia. Ecco perché non voglio più sentirmi giudicata e comandata da lei. Ecco l’ho detto. E se crede non si faccia più vedere.”
Il vescovo di T****** aveva ascoltato in silenzio e ad un certo punto si era seduto con il cappotto in grembo sulla poltrona di velluto dove reggicalze e guepiere trovavano posto. Al termine del discorso della donnaccia, il pretaccio sorrise. La donnaccia se ne stupì incredibilmente. Poi egli parlò così: “Lei, carissima, ha più che ragione: la mia posizione è in perdita perenne, sono costretto a vivere in Cristo perché solo la fede risarcisce l’uomo della propria incompletezza. Il piacere non è un risarcimento, diceva qualcuno. Ma nella fede c’è una grande illusione: è l’illusione che io chiamerei “di risposta”. La fede manca di risposte. Allo stesso modo il piacere: solo che al piacere mancano anche le domande. Lei sceglie il piacere perché non chiede nulla. Io mi domando continuamente una cosa. Sa qual è? Vuole saperlo? Glielo dico: perché nessun uomo capisce che il senso delle cose sta nella costruzione di un rapporto, uno e uno solo, che raggiunga il massimo grado di empatia? In questo rapporto l’uomo è un Creatore. La creazione di un universo è la creazione di un amore. Il senso non sta nella completezza, e nemmeno nel piacere, che trova significato in se stesso. Una domanda per mille risposte, o mille domande per una risposta. Ecco perché io vengo da lei, e solo da lei. A venerdì cara.”
La porta si richiuse dietro alla figura un po’ barcollante del vescovo di T******.
La donnaccia era nuda davanti allo specchio e pensava al suo bel seno, così alto, così bianco e così rosa. Se lo accarezzava e volgeva la testa indietro, mentre, senza accorgersene, piegava il ginocchio sinistro. Già intuiva che fede, piacere ed amore erano le tre parti di un racconto bellissimo ed infinito, circolare e perfetto: il racconto di un amplesso.
(Fine)

domenica 20 gennaio 2008

Ogni santissimo venerdì - seconda parte

di Ezechiele Lupo

E così tra un momento di piacere ad un altro la donnaccia cominciò, oltre che a recitare quelle parole, anche ad ascoltarle. Le prime volte, quella liturgia, le parve un banale peana dedicatorio, un ode alla grandezza di Dio. E la cosa la disturbò persino un po’, sentendosi in soggezione. Poi cominciò a vedere quelle parole come un racconto: il racconto di una vita in pochi versi, una vita meravigliosa e straordinaria, la vita che da ultraterrena si fa terrena per tornare celeste. Quello che descriveva la preghiera era un viaggio fantastico: il dio era sceso fino nell’inferno degli uomini in terra, aveva compiuto un percorso molto umile, pensò la donnaccia, e solo per conoscere meglio, davvero, chi aveva creato. Qualche venerdì dopo queste scoperte, la donnaccia, quando ancora aveva le gambe aperte supina con lo sguardo fisso sul soffitto rosso, gridò al pretaccio, che si stava lavando le mani in bagno: “Sa vescovo ho fatto come mi ha detto lei. Ho pensato su quelle parole, e ho capito che raccontano di un viaggio. Sì, un viaggio. Una partenza, un'esperienza e un ritorno. Ho pensato anche che c’è grande umiltà nel percorso compiuto dal dio. Lei cosa ne pensa?” Il vescovo di T****** tornò in camera con il volto serio, si poteva dire corrucciato, e cominciò a parlare in questi termini: “Lei si stupisce dell’umiltà di Cristo. Non deve. Però apprezzo molto questa sua interpretazione. Manca solo una cosa: il messaggio di salvezza. Lei ignora questo. Non lo vuole vedere. E non lo vuole sentire. Il viaggio di Cristo avviene non per conoscere gli uomini, ma per salvarli. Il viaggio di Dante è un percorso conoscitivo, egli è un uomo, ha desiderio di conoscere, di capire il senso della propria vita. Ma Cristo no. Cristo dà il senso alla vita, nel momento in cui entra in comunione con l’umanità. Eh… cara mia… andiamo male. Lei è superba. Lo sa che la superbia è un peccato capitale? E uno dei più gravi. Alla prossima settimana.” E dette queste cose, se ne uscì. La donnaccia rimase per molti minuti sdraiata nella posizione in cui il pretaccio l’aveva lasciata, nella stessa posizione in cui lui era entrato dentro di lei, con la solita sgraziata goffaggine, con l’usuale imperizia e soprattutto con la costante mancanza di virilità. Io superba? Io? Ma se sono mesi che lui viene qui, e ancora non ha imparato nulla. E non si sente per niente in colpa il pretaccio. Se non fosse per quel peso notevole che scarica sulla mia pancia liscia e bianca, non mi accorgerei nemmeno di avere un uomo sopra di me. Ma forse non è un uomo. Lui non sembra pensarci. Ma che uomo è, un uomo che, non solo non fa godere la propria donna, ma neanche se ne preoccupa? Nemmeno sembra darsene il pensiero. Invece di pontificare sulla religione, che non capisco, su Dante, che non conosco, sulla fede, che non ho e non avrò, e che beato lui ha, pensi a far tesoro dell’esperienza che gli offro, e impari come maneggiare una compagna di letto. Ebbe appena il tempo di concludere i suoi pensieri, che sulla porta tre colpi annunciavano il successivo appuntamento. Ecco, pensò lei, il pretaccio mi ha fatto distrarre e non ho avuto neanche il tempo per recitare la mia preghiera. La figura alta, slanciata e aitante del figlio di un medico condotto comparve nella stanza. Era un giovane che la donnaccia ben conosceva: era uno dei suoi preferiti, uno di quelli che sapeva stare tra le lenzuola, che conosceva quei piccoli trucchi, era in grado di azionare quei meccanismi capaci di elevare una donna, di farla sospirare, sorridere, di far risplendere lo specchio di fronte al letto di luminosa felicità e appagamento. Ora sì che avrebbe compiaciuto la propria carne, e perché no, anche la propria anima. Da quell’angolatura vedeva il suo viso riflesso nello specchio, i capelli sempre più annodati le cadevano sulle spalle, lungo tutta la schiena, (aveva capelli lunghissimi) le sue braccia la reggevano saldamente, mentre in secondo piano poteva adorare le rotondità appena accennate dei suoi glutei, che spuntavano parzialmente superato l’inarcato della schiena; e appiccicato, eccolo, si ergeva sacrale il busto potente dell’amante giovane, bello, che tanto piacere le infondeva. La donnaccia pensò che non c’era altro mestiere al mondo, che l’umanità avesse mai considerato mestiere di cui vivere, che avrebbe voluto svolgere, e soprattutto nel quale sarebbe stata più brava, più completa, più richiesta. E mentre quello splendido rito, così pieno di consuetudine, così perfetto per dimestichezza, così naturale, quel continuo colmare e svuotare, concedere e privare, offrire e ritirare, scacciare ed inseguire, si concludeva inondandole la mente, lasciandole spazio solo per un’intuizione, pensò: l’uomo ha dovuto trasformare il piacere in mestiere per conferirgli un senso pratico, una ricompensa materiale. Ma non c’è guadagno concreto nel volgere il proprio corpo al piacere, se non il piacere stesso, che, pensava la donnaccia, diventa quindi il fine e il mezzo, solo di se medesimo. Poi un infinito formicolio la prese dappertutto, e cadde: come corpo estatico cade.
(continua...)

venerdì 18 gennaio 2008

Ogni santissimo venerdì

di Ezechiele Lupo

Il vescovo di T****** stava sudando le sue solite sette camicie per riuscire a far godere la sua abituale compagna del venerdì. Dopo sarebbe andato a lavarsi le mani e avrebbe appoggiato sul comodino laccato bianco due banconote da 100, che rappresentavano il pattuito con la donnaccia. Povera donnaccia. Cosa faceva di male per essere trattata in questo modo? 200 pezzi per portare il peso di un flaccido prete che ancora aveva voglia di fare il ragazzino. Forse da ragazzino non aveva mai avuto il coraggio di sdraiarsi sopra una donna. O una donnaccia. La donnaccia pensava che almeno gli altri clienti erano belli e magri. Perché questo prete aveva scelto proprio lei? Poi il prete paga una certa mancanza di abitudine, diciamo così, una discreta imperizia, una goffaggine che colma la misura del ridicolo. Tra le colleghe della casa la donnaccia non chiamava mai per nome il vescovo di T******: lo chiamava “il pretaccio”. Il pretaccio e la donnaccia, come detto, si congiungevano il venerdì alle 10.30 del mattino; che fosse inverno o primavera, il pretaccio esigeva il mantenimento degli accordi. La donnaccia esaudiva sempre i desideri del vescovo di T******. In fondo, pensava la donnaccia, non si può avere tutto dalla vita: il pretaccio aveva avuto in dono la fede, chiedere che gli fossero concesse anche bellezza e vigoria fisica era forse troppo.
Lo specchio si trovava appoggiato alla parete di fronte al lettone sul quale la donnaccia riceveva i clienti e, nella maggior parte dei casi, il piacere. Le era capitato spesso di vedersi riflessa durante i mille e più amplessi che, da quando era arrivata in città, aveva consumato con tanti avventori. Insieme ad un qualche compiacimento per la propria bellezza ancora fresca, per rotondità lievemente abbondanti, per la pelle bianca e liscia, nello specchio vedeva sempre la stessa immagine: una camera di velluto, un letto mai completamente sistemato ed un’icona della vergine che sovrastava, enorme, la spalliera del lettone. Imparare a pregare alla fine di ogni “lavoretto” era l’unica cosa che le aveva insegnato il pretaccio. Un giorno le aveva detto: “Non ti penti mai di condurre una vita tanto lontana dal Cristo?”; lei, che di fede non ne possedeva, aveva risposto: “Caro vescovo, io non credo in alcuna divinità: sorrido all’idea che un giorno verrò giudicata per la mia vita; anche perché sono giudicata ogni giorno per quello che faccio e tali giudizi sono sempre positivi.”. Il pretaccio, a quel punto le aveva detto: “Per me non è concepibile che tu non sia credente. Voglio un’altra ragazza dal prossimo venerdì. Trovami una giovane, bella come te, ma che abbia quella fede che tu ridicolizzi con le parole.” Allora la donnaccia, che non voleva perdere un cliente così importante, gli promise che si sarebbe convertita: “Farò sì che il mio spirito venga destinato anche a Dio”. Il vescovo di T****** quella volta le aveva lasciato sul comodino, oltre ai pezzi di denaro, anche una preghiera, chiedendole di recitarla ogni volta che si trovava sola nella camera, nello spazio di tempo tra un avventore ed un altro. La donnaccia aveva ubbidito. Non le costava nulla. I primi tempi la leggeva sul foglio del pretaccio, poi la imparò a memoria e, a guisa di un esercizio di rilassamento, la pronunciava ad occhi chiusi, ancora sdraiata sul letto. Aveva scoperto che quella cantilena la tranquillizzava e quasi la rinfrancava. Quella recitazione le serviva per sgomberare la mente, l’aiutava a concentrarsi meglio, di più, in modo più completo. Quando arrivava il cliente successivo, la donnaccia era totalmente rigenerata e pronta, sempre fresca, per rimettersi al lavoro, con più gioia di prima, con più calore, e ogni volta si vedeva, in quello specchio più bella, più bianca, più gentile e aggraziata nei movimenti. Questo accadeva quasi sempre, ad eccezione di quando andava col pretaccio: in quei momenti, tutta la sua levità e il suo biancore sparivano, sottomessa com’era alla volgarità e all’imperizia dell’andare e venire del vescovo di T******. Un venerdì lei gli aveva detto: “Lo sa che la sua preghiera l’ho imparata a memoria? Ogni volta la recito. Mi infonde una grande calma. Forse non arriverò mai ad avere la sua fede, ma ci metto molto impegno”. Il pretaccio le aveva risposto mentre infilava il cappotto: “Ci credo. Lo so che lei recita ogni volta a memoria la preghiera. Ma non basta. Deve riflettere su quello che dicono le parole. Lei è ancora senza fede. Di questo mi dispiaccio molto, e non so quanto potrò sopportarlo ancora.” Non si accontenta mai, aveva pensato la donnaccia. Com’è possibile che non abbia un minimo di umiltà? Che non capisca quanto lui sia inesperto, goffo, ridicolo. Eppure io non glielo faccio pesare, non gli dico: non so quanto potrò sopportare ancora il tuo flaccido e pesante ventre gelato. Forse dovrei dirglielo una buona volta; ah se ci mettesse la metà dell’impegno che io ci ho messo per imparare la sua preghiera. Queste cose aveva pensato, la donnaccia.
(continua...)

sabato 12 gennaio 2008

La sera, prima del sonno

di Nepomuceno Sadda

Avrei sognato
Occhi come i tuoi
Che guardassero i miei
La sera, prima del sonno
Se non avessi avuto te.

Invece,
Sogno occhi
Diversi dai tuoi
Che guardano i miei
La sera, prima del sonno.

E m’ammalo d’una insoddisfazione
appagante e quieta.


domenica 6 gennaio 2008

Il sonetto di Easton

La mia Australia è il cappello
di quel tipo nel nulla immerso.
Porge una birra e lo sgabello;
eppur licenziato son, e disperso.

Il solo Pub della sua cittadina,
considerato storica dimora:
guardando il footy alla mattina
il resto dell’ostello che lavora.

Vento da outback spazza la calura
dal fish & chips il ritorno apprendo;
l’unico pullman ahimè tardivo.

Il fiume smeraldo gran diversivo?
Faccio ritorno al bar, intendendo
affogar dentro una Toohey’s scura.

mercoledì 2 gennaio 2008

a little detached

di Selvaggia Borsieri

Siamo nel due zero zero otto
Hai ragione, Mary Jane
Al chiodo le romanticherie.

Hai già imparato il pessimismo ironico?
Hai imbracciato il fucile della postcultura?
Spara proiettili di disincanto
Che non uccidono nessuno
Ma che frastuono quando
Deflagrano tra la tv e il divano.

Hai ragione, Mary Jane
Detonazioni innocue.

Siamo tutti a little detached
Come i reduci di Hemingway
Ma non abbiamo conosciuto mai
La trincea,
Il fronte,
Il filo spinato.