Il giudice sul mulo Periodico perenne di linguaggi letterari.

venerdì 18 gennaio 2008

Ogni santissimo venerdì

di Ezechiele Lupo

Il vescovo di T****** stava sudando le sue solite sette camicie per riuscire a far godere la sua abituale compagna del venerdì. Dopo sarebbe andato a lavarsi le mani e avrebbe appoggiato sul comodino laccato bianco due banconote da 100, che rappresentavano il pattuito con la donnaccia. Povera donnaccia. Cosa faceva di male per essere trattata in questo modo? 200 pezzi per portare il peso di un flaccido prete che ancora aveva voglia di fare il ragazzino. Forse da ragazzino non aveva mai avuto il coraggio di sdraiarsi sopra una donna. O una donnaccia. La donnaccia pensava che almeno gli altri clienti erano belli e magri. Perché questo prete aveva scelto proprio lei? Poi il prete paga una certa mancanza di abitudine, diciamo così, una discreta imperizia, una goffaggine che colma la misura del ridicolo. Tra le colleghe della casa la donnaccia non chiamava mai per nome il vescovo di T******: lo chiamava “il pretaccio”. Il pretaccio e la donnaccia, come detto, si congiungevano il venerdì alle 10.30 del mattino; che fosse inverno o primavera, il pretaccio esigeva il mantenimento degli accordi. La donnaccia esaudiva sempre i desideri del vescovo di T******. In fondo, pensava la donnaccia, non si può avere tutto dalla vita: il pretaccio aveva avuto in dono la fede, chiedere che gli fossero concesse anche bellezza e vigoria fisica era forse troppo.
Lo specchio si trovava appoggiato alla parete di fronte al lettone sul quale la donnaccia riceveva i clienti e, nella maggior parte dei casi, il piacere. Le era capitato spesso di vedersi riflessa durante i mille e più amplessi che, da quando era arrivata in città, aveva consumato con tanti avventori. Insieme ad un qualche compiacimento per la propria bellezza ancora fresca, per rotondità lievemente abbondanti, per la pelle bianca e liscia, nello specchio vedeva sempre la stessa immagine: una camera di velluto, un letto mai completamente sistemato ed un’icona della vergine che sovrastava, enorme, la spalliera del lettone. Imparare a pregare alla fine di ogni “lavoretto” era l’unica cosa che le aveva insegnato il pretaccio. Un giorno le aveva detto: “Non ti penti mai di condurre una vita tanto lontana dal Cristo?”; lei, che di fede non ne possedeva, aveva risposto: “Caro vescovo, io non credo in alcuna divinità: sorrido all’idea che un giorno verrò giudicata per la mia vita; anche perché sono giudicata ogni giorno per quello che faccio e tali giudizi sono sempre positivi.”. Il pretaccio, a quel punto le aveva detto: “Per me non è concepibile che tu non sia credente. Voglio un’altra ragazza dal prossimo venerdì. Trovami una giovane, bella come te, ma che abbia quella fede che tu ridicolizzi con le parole.” Allora la donnaccia, che non voleva perdere un cliente così importante, gli promise che si sarebbe convertita: “Farò sì che il mio spirito venga destinato anche a Dio”. Il vescovo di T****** quella volta le aveva lasciato sul comodino, oltre ai pezzi di denaro, anche una preghiera, chiedendole di recitarla ogni volta che si trovava sola nella camera, nello spazio di tempo tra un avventore ed un altro. La donnaccia aveva ubbidito. Non le costava nulla. I primi tempi la leggeva sul foglio del pretaccio, poi la imparò a memoria e, a guisa di un esercizio di rilassamento, la pronunciava ad occhi chiusi, ancora sdraiata sul letto. Aveva scoperto che quella cantilena la tranquillizzava e quasi la rinfrancava. Quella recitazione le serviva per sgomberare la mente, l’aiutava a concentrarsi meglio, di più, in modo più completo. Quando arrivava il cliente successivo, la donnaccia era totalmente rigenerata e pronta, sempre fresca, per rimettersi al lavoro, con più gioia di prima, con più calore, e ogni volta si vedeva, in quello specchio più bella, più bianca, più gentile e aggraziata nei movimenti. Questo accadeva quasi sempre, ad eccezione di quando andava col pretaccio: in quei momenti, tutta la sua levità e il suo biancore sparivano, sottomessa com’era alla volgarità e all’imperizia dell’andare e venire del vescovo di T******. Un venerdì lei gli aveva detto: “Lo sa che la sua preghiera l’ho imparata a memoria? Ogni volta la recito. Mi infonde una grande calma. Forse non arriverò mai ad avere la sua fede, ma ci metto molto impegno”. Il pretaccio le aveva risposto mentre infilava il cappotto: “Ci credo. Lo so che lei recita ogni volta a memoria la preghiera. Ma non basta. Deve riflettere su quello che dicono le parole. Lei è ancora senza fede. Di questo mi dispiaccio molto, e non so quanto potrò sopportarlo ancora.” Non si accontenta mai, aveva pensato la donnaccia. Com’è possibile che non abbia un minimo di umiltà? Che non capisca quanto lui sia inesperto, goffo, ridicolo. Eppure io non glielo faccio pesare, non gli dico: non so quanto potrò sopportare ancora il tuo flaccido e pesante ventre gelato. Forse dovrei dirglielo una buona volta; ah se ci mettesse la metà dell’impegno che io ci ho messo per imparare la sua preghiera. Queste cose aveva pensato, la donnaccia.
(continua...)

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