Il giudice sul mulo Periodico perenne di linguaggi letterari.

domenica 20 gennaio 2008

Ogni santissimo venerdì - seconda parte

di Ezechiele Lupo

E così tra un momento di piacere ad un altro la donnaccia cominciò, oltre che a recitare quelle parole, anche ad ascoltarle. Le prime volte, quella liturgia, le parve un banale peana dedicatorio, un ode alla grandezza di Dio. E la cosa la disturbò persino un po’, sentendosi in soggezione. Poi cominciò a vedere quelle parole come un racconto: il racconto di una vita in pochi versi, una vita meravigliosa e straordinaria, la vita che da ultraterrena si fa terrena per tornare celeste. Quello che descriveva la preghiera era un viaggio fantastico: il dio era sceso fino nell’inferno degli uomini in terra, aveva compiuto un percorso molto umile, pensò la donnaccia, e solo per conoscere meglio, davvero, chi aveva creato. Qualche venerdì dopo queste scoperte, la donnaccia, quando ancora aveva le gambe aperte supina con lo sguardo fisso sul soffitto rosso, gridò al pretaccio, che si stava lavando le mani in bagno: “Sa vescovo ho fatto come mi ha detto lei. Ho pensato su quelle parole, e ho capito che raccontano di un viaggio. Sì, un viaggio. Una partenza, un'esperienza e un ritorno. Ho pensato anche che c’è grande umiltà nel percorso compiuto dal dio. Lei cosa ne pensa?” Il vescovo di T****** tornò in camera con il volto serio, si poteva dire corrucciato, e cominciò a parlare in questi termini: “Lei si stupisce dell’umiltà di Cristo. Non deve. Però apprezzo molto questa sua interpretazione. Manca solo una cosa: il messaggio di salvezza. Lei ignora questo. Non lo vuole vedere. E non lo vuole sentire. Il viaggio di Cristo avviene non per conoscere gli uomini, ma per salvarli. Il viaggio di Dante è un percorso conoscitivo, egli è un uomo, ha desiderio di conoscere, di capire il senso della propria vita. Ma Cristo no. Cristo dà il senso alla vita, nel momento in cui entra in comunione con l’umanità. Eh… cara mia… andiamo male. Lei è superba. Lo sa che la superbia è un peccato capitale? E uno dei più gravi. Alla prossima settimana.” E dette queste cose, se ne uscì. La donnaccia rimase per molti minuti sdraiata nella posizione in cui il pretaccio l’aveva lasciata, nella stessa posizione in cui lui era entrato dentro di lei, con la solita sgraziata goffaggine, con l’usuale imperizia e soprattutto con la costante mancanza di virilità. Io superba? Io? Ma se sono mesi che lui viene qui, e ancora non ha imparato nulla. E non si sente per niente in colpa il pretaccio. Se non fosse per quel peso notevole che scarica sulla mia pancia liscia e bianca, non mi accorgerei nemmeno di avere un uomo sopra di me. Ma forse non è un uomo. Lui non sembra pensarci. Ma che uomo è, un uomo che, non solo non fa godere la propria donna, ma neanche se ne preoccupa? Nemmeno sembra darsene il pensiero. Invece di pontificare sulla religione, che non capisco, su Dante, che non conosco, sulla fede, che non ho e non avrò, e che beato lui ha, pensi a far tesoro dell’esperienza che gli offro, e impari come maneggiare una compagna di letto. Ebbe appena il tempo di concludere i suoi pensieri, che sulla porta tre colpi annunciavano il successivo appuntamento. Ecco, pensò lei, il pretaccio mi ha fatto distrarre e non ho avuto neanche il tempo per recitare la mia preghiera. La figura alta, slanciata e aitante del figlio di un medico condotto comparve nella stanza. Era un giovane che la donnaccia ben conosceva: era uno dei suoi preferiti, uno di quelli che sapeva stare tra le lenzuola, che conosceva quei piccoli trucchi, era in grado di azionare quei meccanismi capaci di elevare una donna, di farla sospirare, sorridere, di far risplendere lo specchio di fronte al letto di luminosa felicità e appagamento. Ora sì che avrebbe compiaciuto la propria carne, e perché no, anche la propria anima. Da quell’angolatura vedeva il suo viso riflesso nello specchio, i capelli sempre più annodati le cadevano sulle spalle, lungo tutta la schiena, (aveva capelli lunghissimi) le sue braccia la reggevano saldamente, mentre in secondo piano poteva adorare le rotondità appena accennate dei suoi glutei, che spuntavano parzialmente superato l’inarcato della schiena; e appiccicato, eccolo, si ergeva sacrale il busto potente dell’amante giovane, bello, che tanto piacere le infondeva. La donnaccia pensò che non c’era altro mestiere al mondo, che l’umanità avesse mai considerato mestiere di cui vivere, che avrebbe voluto svolgere, e soprattutto nel quale sarebbe stata più brava, più completa, più richiesta. E mentre quello splendido rito, così pieno di consuetudine, così perfetto per dimestichezza, così naturale, quel continuo colmare e svuotare, concedere e privare, offrire e ritirare, scacciare ed inseguire, si concludeva inondandole la mente, lasciandole spazio solo per un’intuizione, pensò: l’uomo ha dovuto trasformare il piacere in mestiere per conferirgli un senso pratico, una ricompensa materiale. Ma non c’è guadagno concreto nel volgere il proprio corpo al piacere, se non il piacere stesso, che, pensava la donnaccia, diventa quindi il fine e il mezzo, solo di se medesimo. Poi un infinito formicolio la prese dappertutto, e cadde: come corpo estatico cade.
(continua...)

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