Il giudice sul mulo Periodico perenne di linguaggi letterari.

martedì 13 ottobre 2009

Ingenui profeti del nulla?

Luigi Sampietro, critico letterario de "Il Sole 24 Ore", il 13 settembre scriveva un articolo in cui cercava (per l'ennesima volta) di smitizzare gli idoli della cultura beat. Nello specifico:

"Ma mentre in America i beat sono passati e tornati di moda più di una volta, in Italia si direbbe che si sono italianizzati. [...]Classici senza esserlo per niente. [...]Nel rivolgere un rispettoso pensiero al ricordo della Nanda Pivano che il loro mito ha mantenuto in vita con il proprio respiro, ci permettiamo di dire [...] che è venuto il momento di tornare a leggere i poeti veri."

Come diceva mia nonna, colonna del Marcantonio Colonna (storico liceo di Roma, era una professoressa di lettere), anche lei scomparsa nell'anno della Pivano: apriti cielo. La settimana seguente un lettore interessato protesta e chiede conto di codeste affermazioni.
Qui riportiamo la polemica che ci ricorda tanto le belle querelle di una volta tra Neoclassici e Romantici, Impressionisti e Modernisti, Riveristi e Mazzolisti.


Caro Sampietro, confesso di essere rimasto molto stupito nel leggere il suo articolo Crepuscolo degli idoli, per diversi motivi. Intanto perché sostiene che i poeti e gli scrittori beat siano trattati come dei classici in Italia, ma io la sfido a trovare dei licei il cui programma di letteratura preveda il loro studio, così come sono pochissimi i corsi universitari nelle Facoltà italiane di Lettere ad interessarsene. Un secondo motivo che mi lascia perplesso è la mancanza di argomentazione ad accompagnare le sue affermazioni quando scrive che sono sopravvalutati e che bisognerebbe tornare ai “veri” poeti. E chi sarebbero i veri poeti? Che cosa li rende tali?
Io credo che la poesia si fondi sulla ricerca della bellezza nelle sue forme più diverse e credo che la poesia beat (e la scrittura beat in generale) sia stata prodotta da persone animate da questo spirito, seppur con mezzi molto lontani dall’abusato lirismo nostrano.
Sono convinto che la grandezza di quegli uomini sia stata proprio il cercare la bellezza per strade lontane da quelle normalmente battute dai “classici” poeti. Hanno avuto il coraggio di uscire dai percorsi panoramici della lirica e di avventurarsi “in strade di negri all’alba in cerca di droga rabbiosa”, a raccontare vite sull’orlo del baratro e a estrarne la bellezza della disperazione. Ci hanno insegnato che la letteratura non è solo il viaggio mentale di un intellettuale inetto e stereotipato ma che la scrittura può nascere sulla strada, ed essere ugualmente bella.
Certo, sono d’accordo che la loro vita in ultima istanza è stata un vicolo cieco, un percorso impossibile da continuare al di fuori del loro contesto, se non pagando il prezzo del ridicolo. Ma questo non vuol dire che la loro opera esplorativa sia stata inutile e sopravvalutata; al contrario la loro opera è forse, almeno dal mio punto di vista, la massima espressione letteraria di quella precisa epoca e di quel luogo che era l’America di allora. Grazie. (Giovanni Scavino)


* * *


A mio parere, caro signor Savino, il suo stupore è la prova indiretta che i nostri beat, in prosa e in versi, sono stati imbullonati a un basamento in pietra, neanche si trattasse di tanti piccoli Garibaldi a cavallo. Sono stati importanti, come no? Ma non è parlarne male se dico che non sono granchè come scrittori. Sono stati oggetto di periodici revival in tutto il mondo, ma da noi, come ho scritto, sono diventati “di ruolo”. […] Il fatto è che quando si nomina la poesia americana, sembra quasi che non ci sia altro. O che, comunque, si tratti di giganti. E così non è.
I beat hanno aperto la strada a un cambiamento epocale nella storia del costume, e sono un “mito”, sissignore, ma non sono un mito letterario, anche se i giornali hanno continuato a parlarne come fossero dei classici. Lei, caro Savino, mi chiede giustamente quali sono i poeti americani che sarebbe stato meglio leggere. Al loro livello, millanta che tutta la notte canta. Meglio di loro, per limitarci ai coetanei, ne cito solo quattro: Elizabeth Bishop, Robert Lowell, Richard Wilbur e A. R. Ammons. Non ho lo spazio per dire perché lo siano, e me ne scuso, ma la invito a riflettere sul fatto che due giganti fuori discussione come W. H. Auden e Robert Frost siano, da noi, di gran lunga meno noti dei signori beat.
Non bisogna confondere la bravura, che è un fatto tecnico, con l’importanza di uno scrittore.
I beat hanno segnato un’epoca, così come da noi, tanto tempo fa, il sullodato Garibaldi e il suo di lei quasi concittadino Silvio Pellico. Ma per l’uno e per l’altro – il Garibaldi autore di un romanzo-strazio come Clelia e il Pellico della Francesca da Rimini (un drammone che è comunque assai meglio dell’opera del Generale) – non è detto che si debba trovare il tempo per leggerli. L’importanza di quei due signori esula dalla letteratura.
Ora, lasciando da parte la letteratura (che è il loro punto debole), penso che i beat siano stati oltretutto dei cattivi maestri: non nel senso in cui lo sono grandi artisti come Neruda (stalinista), Pound (fascista) o Céline (antisemita), ma perché furono gli ingenui profeti del nulla. Kerouac si mise sulla strada, come un picaro, alla ricerca di sensazioni; e Ginsberg, con la scusa che il mondo era “fuori di sesto”, cominciò col tessere l’elogio della follia – quella vera – per passare più tardi a sostenere altre forme (stupefacenti) di “beatitudine”.
L’uno e l’altro indicarono nella trasgressione la via maestra verso la libertà assoluta – qui e anche altrove, nel mondo e nel cosmo – e sono stati, proprio per questo, cattivi maestri. Perpetui adolescenti. La trasgressione eretta a modus vivendi altro non è, infatti, che una forma di dipendenza da un’autorità – un ostacolo, un muro – cui appoggiarsi per reggersi in piedi. Altra cosa è la libertà, che non è mai tale se non è concepita come pura e semplice responsabilità.
(Luigi Sampietro)

Foto: "Ode to Jack Kerouac" trovata su Flickr. ©
Olivander.

E tu che ne pensi, lettore? Scrivici.

1 commento:

Unknown ha detto...

Devo dire che sono d'accordo con Luigi Sampietro: quel poco che ho letto della poesia beat non mi ha per niente impressionato sul piano esclusivamente artistico..
))
Alessio Liberati