Il giudice sul mulo Periodico perenne di linguaggi letterari.

venerdì 20 aprile 2007

Stanotte

di Dylan Iato

Audienda:
1) Yulunga – Lisa Gerrard
2) Now We Are Free – Lisa Gerrard
3) Dies Irae Dies Illa (vers di Wendi Carlos)
4) Dies Irae Dies Illa
5) John Mayer – Waiting On the World To Change
Stanotte. Stanotte si è spenta mia zia. 94 anni. Era ormai un albero. Piantumato in una casa di riposo a Barlassina, Como.
Era oramai completamente cieca. Mangiava pochissimo e quel poco, che le veniva imposto dai pazienti infermieri, la faceva sopravvivere.
Fino a stanotte. Ho visto un numero strano apparire sul telefono di casa. Era un 0362 alle undici di sera. Non ho risposto. Ho atteso che mio padre prendesse la telefonata. Poi è venuto da me, con gli occhi già lucidi e mi ha comunicato la notizia.
Stanotte pensavo di passarla come al solito. Tra una videata di Word, una mail e il telefonino che suona. Pensavo di ascoltare il nuovo disco di Lisa Gerrard, quella della musica del Gladiatore.
Non farò nient’altro che pensare alla zia. Per lei provavo una specie di lontano affetto misto a pena e compassione per la sua condizione. Ma no. Non era amore.
I suoi occhi piccoli e nascosti dietro alle lenti da fondo di bottiglia mi impaurivano quando ero piccolo e mi facevano sorridere fino a poche ore fa.
Ora penso alla sua morte. Penso alla sua esistenza, vissuta in punta di piedi là nella clinica geriatrica. Un dolore, il suo, così accennato e così lontano. Così orgogliosamente umano. Io ho solo da imparare da quel dignitoso portamento di donna consapevole di essere al proprio crepuscolo.
Io che rifuggo la morte. Io che ne rifuggo anche il solo pensiero.
Dovrei pensarci, invece.
Dovrei riuscire a baciare i morti, durante i funerali.
Almeno così si faceva pochi decenni fa, nelle società italiche e contadine, per dimostrare rispetto e deferenza. Si faceva così quando il mio bisnonno è morto. Roba da anni 60 o 50 al massimo. Me l’ha detto mio padre. Era terrorizzato all’idea di dover baciare il nonno morto. Eppure ha preso il coraggio dalle zolle della terra. Dalla forza di quei semplici valori, forse sbagliati, ma condivisi che rendevano la società contadina impaurita, ignorante, ma unita.
Mia madre ha visto morire in casa i suoi nonni. Ha visto il soffio vitale abbandonare la carne. Ha visto gli occhi spegnersi. Il cuore arrestarsi. Ha visto sputare sangue. Ha visto le cure risultare inefficaci. Ha visto la paura muovere labbra, devastare visi, muovere al pianto.
Io ho visto il bianco degli ospedali. L’odore dei camici sterilizzati. Dei guanti di lattice.
Un dolore, quello ospedaliero, declinato allo stesso modo, ci mancherebbe. Ma che i “sani” e i “vivi” tentano di allontanare. Nessun bacio alla morte. Solo qualche sguardo furtivo, quasi a lavarsi con un battito di ciglia occhi e coscienza.
Non si muore da oggi (ma repetita iuvant, anche stasera, suvvia)
Penso al “dies irae dies illa” che Kubrick ha usato in Shining e in Arancia Meccanica. Non ha più nulla a che fare con la versione originale e medievale del canto. E’ altro. In quest’interpretazione fatta dalla compositrice Wendy Carlos, una singola nota è fatta suonare per interi, interminabili minuti, nella medesima intensità sonora. Il risultato, diciamo così, è una pazzoide decostruzione dell’originale, inconfondibile melodia. Una decostruzione spinta fino alla completa distruzione della melodia medesima. Quando si studia canto o strumento ti insegnano, guarda caso, che prescindendo dalla melodia si finisce per procurare un’inafferrabile ma percepibile senso di angoscia. Nel caso della rivisitazione della Carlos c’è ben più di angoscia. C’è paura, terrore, mistero, incomunicabilità, morte.
Questo Dies Irae, nell’intenzione della compositrice, si proponeva di rappresentare l’allungamento artificioso della vita dell’individuo moderno. Che rifugge spiritualità, oltre all’idea di assoluta privazione, di buio senza forma né misura.
Un individuo moderno e ovviamente occidentale, così angosciato dalla morte e dalla fine che è disposto ad accantonare i propri vecchi. La propria memoria storica.
La propria enciclopedia (nel senso Saussuriano del termine).
Pur di non vedere, pur di non parlare, pur di non baciare. Morte.
Mi è arrivata una mail. Rispondo, faccio una telefonata e vado a letto.
Il cd della Gerrard spacca. Mi riascolto solo Now We Are Free.
Penso alla pietistica e plasticacea pubblicità della Barilla, al Gladiatore, che tutto sommato è un bel film, alla voglia di farmi un narghilè bello allegro.
E alla voglia di fermarmi. Di non scappare.
Verso l’una mi capita tra i tasti (del maus) un file mp3 veramente commovente. Sarà la situazione, sarà la stanchezza, sarà l’allegria da narghilè, non so, le lacrime vengono da sole.

6)Blind Boys Of Alabama – Old Blind Barnabas

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