Il giudice sul mulo Periodico perenne di linguaggi letterari.

venerdì 26 giugno 2009

Non siamo pronti forse? - terza parte

di Ezechiele Lupo

La sortita al baretto aveva avuto l’effetto di ristorare T******, e calmare G*****. Ora G***** vedeva remota l’eventualità di possedere in qualche modo il ragazzo sulla spiaggia: si sorprese persino di averlo solo pensato. L’indissolubilità di quel rapporto sarebbe stato lo scudo contro cui le sue lance di seduzione si sarebbero infrante. Ma le possibilità della storia rimangono sempre valide, prima che il discorso le scremi, scegliendone una sola e seguendo quella fino ad un termine arbitrario, contro il quale ogni lettore dovrà scontrarsi, volente o nolente.
L’aria si fece più opprimente, le nubi coprirono gran parte della volta e, piano piano, cominciò a cadere la pioggia. Lui si mise seduto e guardando dritto davanti a sé, oltre gli occhiali da sole, pensò e disse: “Piove… porca vacca…” In pochi minuti si scatenò un violento acquazzone e molti corsero a ripararsi, teli-mare sulla testa e zaino in spalla, sotto la tettoia del piccolo bar, nel patio coperto. Ben presto i più rapidi presero posto ai tavoli e approfittarono per mangiare qualcosa. C’era un tavolo con quattro sedie all’estrema sinistra della piccola terrazza e lei si precipitò, con i capelli bagnati e sorridendo per la situazione, ad occupare con la borsa e l’asciugamano, due sedie. Lui la vide scattare: le sue gambe si muovevano veloci tra i tavoli e scivolavano come dita lungo una tenda di seta. Appena lui raggiunse il tavolo per sedersi, lei alzò la mano in direzione dell’entrata del baretto come per salutare qualcuno: stava effettivamente salutando T******. Lui e lei furono immediatamente raggiunti da T****** e G*****: “Che fortuna che siete riusciti a trovare un tavolo, noi non siamo stati altrettanto veloci… comunque ci sediamo anche noi?” chiese T******, giunto senza maglietta e con i capelli fradici.
“Certo, perché no… Ciao io sono…” lui disse il suo nome, che risuonò distintamente e grandioso nelle orecchie, nello stomaco e nell’utero di G*****. Ora G***** conosceva il nome del “ragazzo che ama”, e quel ragazzo sarebbe stato suo.
G***** cominciò a parlare del suo lavoro: era una gallerista e pittrice a tempo perso. Tre o quattro anni fa, e chi se lo ricordava?, aveva esposto qualche schizzo, proprio nella città di lui e di lei:
“Sì, non so se avete presente? No? Comunque è poco importante. Per me è un hobby, forse anche meno di una passione?”
“Perché?” chiese la ragazza amata tagliando la piadina al prosciutto crudo.
“Come perché?” ribattè sorridendo G*****, torcendosi le mani sotto il tavolo.
“Ah… no niente… intendo dire: perché è meno di una passione?”
“Non lo so, forse perché non credo di avere il fuoco sacro dell’arte. Voglio dire: mi piace. Infatti il mio lavoro consiste nel vivere con gli artisti, parlare con le gallerie, ma… come dire? Potrei fare questo, ma anche altro… viviamo in un'epoca così frammentaria: scegliamo sempre tutto e mai nulla, insomma...”
Mentre diceva queste cose gesticolava leggiadra usando le proprie sinuosità come naturale accompagnamento alle parole: la musica era il suo corpo. Aveva piena coscienza delle sue mosse, e se T****** era indaffarato a non pensare, G***** studiava meticolosamente le reazioni del “ragazzo che ama” ai suoi continui richiami. Ogni tanto faceva cadere una spallina del costume, lasciando intravedere una porzione soddisfacente di pelle bianca; contraeva la nuda pancia piatta e si rilassava contro lo schienale della sedia, in una posizione di accoglienza, come in attesa di qualcosa che le venisse incontro.
La conversazione scivolò veloce su altri interessantissimi argomenti. Poi smise di piovere. La temperatura non si era per nulla rinfrescata, anzi il temporale aveva lasciato una cappa d’afa molto noiosa. In più il sole era coperto e il mare un po’ mosso. Lui era leggermente irritato per la situazione: non trovava particolarmente piacevole la compagnia, anche se percepiva una sorta di pulsione nei confronti di G*****: non ne conosceva il motivo, ma la fisicità di G***** era una specie di refugium peccatorum. Ad un tratto si volse verso la sua ragazza e le prese la mano: era fresca. Lei lo guardò strabuzzando gli occhi e fece una delle solite facce buffe. Lui sentì come un irrefrenabile benessere e sollievo, qualcosa per cui commuoversi davvero sotto le lenti scure. Alla vista della mano di lui in quella di lei, una stretta forte come anelli di una catena di titanio, G***** capì di non poter resistere all’eccitazione.
In quell’istante iniziò a rotolare una biglia di vetro verso un terrificante baratro: il telefono di lei cominciò a squillare. Lei sospirò, lui lasciò la sua mano, ma solo per accarezzarle la nuca, cercando di scioglierle un nodo tra i capelli.
“Scusa ma devo rispondere…”, prese il cellulare e disse: “Pronto… ok, ora basta… no, ascoltami tu… è tutta colpa mia…”
Sì lui lo sapeva bene. Era tutta colpa sua. Sua era la colpa di aver incontrato un folle, di lei la responsabilità di averlo fatto entrare nel loro contesto, e sempre sua la colpa… beh di quello che aveva fatto. Lui cominciò a pensare che nulla più gli sarebbe davvero importato dopo di lei, che dopo di lei avrebbe disperso la propria tenerezza in milioni di piccole briciole, come schegge infrante di schegge infrante di altre schegge infrante: il suo cuore di sarebbe sfilacciato, lasciando il posto al nulla affettivo.
Ora lei alzava sempre più la voce. T****** e G***** fingevano molto bene di non ascoltare: G***** finse di far capitare per sbaglio la caviglia sottile contro quella di lui. Lui ebbe freddo: la caviglia di G***** era caldissima e liscia. Ora G***** si stava accarezzando la coscia con un movimento ipnotico del corpo. Lui era stanco di ascoltare e dimenticare: “Stai un po’ urlando…” disse all’improvviso alla propria ragazza.
Lei si voltò di scatto, ma oltre gli occhiali da sole di lui non vide nulla: “Hai ragione, mi alzo, vado in spiaggia e ti giuro: sarà l’ultima volta.” Gli posò la mano sulla guancia, lo baciò sulla bocca e si alzò. Si diresse verso la spiaggia con il cellulare all’orecchio e le lacrime negli occhi.
Lui fu tentato di rincorrerla più volte nei minuti che seguirono, ma G***** cominciò a parlargli frastornandolo: dietro gli occhiali da sole vedeva il seno di G***** procedere sempre più verso di lui. Le loro ginocchia si scontravano e si strusciavano. T****** era una figura in lontananza, un commensale assente, un invitato alla performance. Ma ad un tratto disse: “Chi viene a farsi un bagno?” Lui lo guardò alzarsi, vide i suoi addominali palestrati, rise dentro di sé e rifiutò. Avrebbe voluto essere con lei, voleva raggiungerla, abbracciarla, sentire le sue mani sui suoi occhi; ma rimase solo con G*****.
(continua...)

1 commento:

Anonimo ha detto...

strabella la terza parte EzLup