Il giudice sul mulo Periodico perenne di linguaggi letterari.

domenica 18 luglio 2010

Due diaframmi - seconda parte


di Ezechiele Lupo


Peter si volta e va verso la cucina: sulla sua strada incontra Diana che prepara la tavola del piccolo salotto: sei sedie, una bella tovaglia bianco ghiaccio, tovaglioli in tinta e piatti blu, blu scuro. Peter la guarda dirigere il traffico delle posate, con il viso coperto dai capelli lunghi. Sempre così Diana: il perfetto mix degli amori della sua giovane vita. Diana, la persona più lontana dall’essere un amore per lui. La persona più adatta ad apparecchiare la tavola per una cena tra amici. La perla dell’intelletto. I
l regalo più bello che questa nuova città potesse dargli. Diana, che mentre pensa a lei gli si inzuppano gli occhi, gli si stringono le palpebre. Diana, la scusa perfetta per ogni sera andata storta. Diana, “non ho più sonno”. Diana, “immagino la mia vita tra le tenebre”. Diana, “leggi qualcosa che non sia un classico”. Diana, il verde dei suoi occhi vispi. Diana, con il suo lavoro perfetto. Diana, col suo sorriso che ti fa ridere.
Non ce l’avrebbe mai fatta Peter senza Diana. Ma per fortuna un giorno l’ha trovata: come si trova il giusto portachiavi. Diana gli ha spiegato come si vive in una città come quella, come si fa a relazionarsi con le donne di quella città, tanto che ora Peter colleziona ogni week end brunette e biondine che perdono capelli sul cuscino accanto al suo e spesso se ne vanno nel cuore della notte. Peter passa il tempo a parlare di come si devono fare le cose, specula tutta la sera su un comportamento, su una reazione mancata. Diana lo ascolta e gli mesce del vino bianco ghiacciato. Poi lo coccola, e lui è come un gatto che si lecca: a Peter piace essere egoista e Diana gli consente di esserlo. A Peter piace parlare e Diana ascolta. Peter parla sempre di identità: di chi si è, di chi si crede di essere, e alla fine pensa sempre che la colpa dell’inferno identitario in cui si vive è di chi non si preoccupa di definirsi, di delimitare la propria “area di esistenza”: la chiama così.
A Diana non importa molto di tutto questo. A lei importa che Peter stia bene. A lei importa più che gli piaccia il vino: che sia sempre fresco e fruttato. Diana sa che se Peter parla, non parla per meno di due ore e mezza. Sa anche che a volte c’è bisogno di un sacco di vino. Diana sa chi è: trent’anni, single e un’indiscreta passione per la fotografia di guerra. Le piacciono le immagini dei cadaveri straziati. Peter lo sa e un po’ ne ha paura. Diana sa che Peter ha paura: è per questo che vorrebbe coccolarlo di più. Peter e Diana non si amano. Non si piacciono: non sarebbero mai una coppia. Non si sono mai svegliati nello stesso letto. La saliva che si sono scambiati stava sul cucchiaino del gelato all’amarena: punto. Diana e Peter hanno passato decine di serate insieme a passeggiare per le strade del centro. Diana raccontava a Peter tutte le cose che quelle strade le dicevano: a Peter non interessava molto, ma era entusiasta che lei condividesse con lui quelle cose. Peter non poteva stare senza parlare con Diana.
Peter aveva dei problemi insuperabili: talmente totalizzanti che il più delle volte non si ricordava quali fossero. Molto più spesso credeva di essere così: identificato esattamente col suo male, col il suo problema. Questo svuotava tutto di senso. Peter spesso non riusciva a cogliere le differenze, ogni cosa era essenziale, ogni incontro imprescindibile, ogni occasione, anche la più insignificante, assolutamente imperdibile. Un giorno aveva detto a Diana: ‹‹Diana, ormai per me parlare con te o con l’ultimo degli inservienti della libreria è uguale: è come se avessi un messaggio precostituito. Finisco per dire sempre le stesse cose, per parlare sempre allo stesso modo. Non c’è più privato per me, non c’è più il personale, l’intimo. Ogni cosa va detta e io la dico, senza importanza per la confidenza. A me interessano solo le reazioni delle persone rispetto alle mie affermazioni: come un regista e il suo pubblico››. Diana, che stava scrivendo una lista di cose da fare, alzò lo sguardo e gli rispose: ‹‹Ogni regista ha il suo critico più feroce››. Peter aveva abbozzato.
Diana talvolta si fermava a guardare Peter e muoveva la testa su e giù in un modo impercettibile e frenetico. Peter non se ne accorgeva. Diana aveva imparato a guardarlo come fosse sempre parte della sua visuale: c’era Peter in ogni campo che riusciva a mettere a fuoco. Per Diana lo sguardo, l’atto del guardare, era tutto: passava ore a guardare le cose, fino a che queste non diventavano uniche. Quelle e solo quelle: come si fa con i propri figli, immagino. Una sera Peter era tornato a casa e l’aveva trovata addormentata sul divano in reggiseno e mutandine con il primo volume de L’uomo senza qualità di Musil rivolto sulla pancia. L’aveva svegliata per chiederle se doveva accompagnarla a casa sua o preferiva continuare a “leggere” sul divano. Diana rispose che voleva leggere sul divano. La mattina dopo lei fece il caffè e glielo portò in camera: gli scrisse un bigliettino e se ne andò, dopo essersi rivestita. Quando Peter si svegliò trovò scritto: “il caffè senza qualità”. Quella bevanda era davvero senza qualità, dopo l’esame del gusto: Diana era sempre trasparentemente sincera. E oggettiva. Diana era l’oggettività del mondo, il quale era così perché così lo vedeva Diana. Tutti possiedono soggettività tranne Diana, pensava Peter. Ogni pensiero
è soggettivo, ma quelli di Diana non sono pensieri: sono giudizi. Diana inverava e avverava solo col pensiero. Era il pensiero del mondo: il pensiero del reale. Era per questo che Peter non poteva prescindere da lei. Perché si fidava. E, come dicono nei film americani, “dio solo sa” quanto avesse bisogno di fidarsi di qualcuno. Per fortuna aveva incontrato Diana.
Per Peter la città accadeva ogni giorno. La città era un evento, un accadimento: non è che lui non ne fosse parte, ma aveva sempre la sensazione che nulla dipendesse da lui. Quotidianamente nasceva e moriva mentre questa si rappresentava da sé, senza bisogno di lui. Diana lo guidava appena poteva: a Peter sembrava che la facilità di Diana nel girare la città dipendesse dal controllo che riusciva ad esercitare sull’ “evento-città”. Controllo ipotetico s’intenda bene.
(continua...)

2 commenti:

elisabetta ha detto...

Articolo pregnante, veramente piacevole da leggere.

Anonimo ha detto...

succhia