Il giudice sul mulo Periodico perenne di linguaggi letterari.

mercoledì 14 aprile 2010

Alla periferia - parte ultima

di Norberto Giffuri

La strada stretta sale per il bosco. L'ex soldato ricordava bene. La strada stretta costeggia le siepi regolari e le inferriate barocche di una decina di ville e termina col un belvedere. L'ex soldato ha consigliato bene. La città è distesa nella luce di miele del mattino. La capocchia del Gherkin si alza tra le fronde del parco. Sì, la prima cosa che vedo è un parco. Scende dolcemente la collina con le sue braccia verdi sopra prati diversamente verdi. All'orizzonte la città si sveglia: la St Paul's, la ruota panoramica, la Bt Tower fanno da estrema avanguardia verso il fronte del cielo. Sotto di loro tutto un brulicare di tetti grigi, tetti ocra, tetti azzurri.
Da un lato del belvedere c'è una ripida scala che scende al parco. La prendo e le mie scarpe affondano presto nell'erba umida di rugiada. C'è una panca e sulla panca una signora anziana. Porta un cappello di tela a fiori anacronistico, tanto anacronistico da sembrare saltato fuori da una ucronia dove l'impero coloniale britannico detiene il controllo di tre quarti delle terre emerse.

La signora mi saluta e non posso che ricambiare.
“Buongiorno.”
“Buongiorno.”
“Vedo che ho trovato un altro amante delle periferie...viene qui spesso?”
“In realtà è la prima volta...ma capisco che una periferia bella come questa ti fa assumere ben presto il ruolo di habitué...”
“Le periferie sono tutte uguali.”
“Guardi, io non credo molto nelle generalizzazione. Certo, è necessaria per poter esercitare la facoltà di giudizio...ma in questo caso mi sembra un po' forzata...”
“Capisco. Ma mi segua nel ragionamento. Non guardiamo all'apparenza perché ci sono periferie fatte di alveari di cemento, periferie su colline con ville annesse, periferie di case rabberciate e smorte, periferie polverose che si perdono nel deserto, periferie chiassose e sovrappopolate, periferie di uffici e palazzi di vetro, periferie da film noir, fumiganti e grigie, periferie dove corrono auto di lusso, periferie di strade e crocevia, periferie di bidonville dagli aromi dolciastri e dalle facce sporche, periferie di ferro e amianto, periferie marine, salmastre, di petrolio e sale, periferie di rifiuti, di abusivi e di mafie, periferie che si perdono nella macchia, nella nebbia, nella laguna, e potrei continuare l'elenco per ore ma il punto è che tutte queste periferie sono fatte della medesima sostanza.”
“Quale sostanza?”
“Non esiste un preciso significante nel linguaggio per descriverla ma se osserva, se semplicemente osserva e tace... e riflette forse la può comprendere questa sostanza, può averne cognizione e sentimento. Sieda”.
Mi siedo.
La signora si accomoda al mio fianco, lo sguardo fisso nella città, e tace. La imito. Il sole compie il suo semicerchio, i colori mutano, la signora sempre immobile ed io con lei. D'un tratto, quando già i primi lampioni hanno acceso la loro testa d'argento, sono consapevole. Volto la testa verso la signora e le dico che ho capito, ho capito tutto. Lei annuisce e sorride. La saluto con cordialità e scendo da Parliament Hill, imboccando un sentiero che attraversa un bosco di castani. Dall'altra parte del bosco c'è una fitta nebbia, l'aria è umida e le luci della città appaiono opache e distanti.

Una tangenziale appare dalla coltre grigia e un cavalcavia mi è compagno di attraversata. Milano allunga le sue ultime case in direzione della campagna. Costeggio una serie di palazzi di nuova costruzione, prendo il ponte della ferrovia, giro nella prima via a destra, entro da un cancelletto sempre aperto, salgo sei piani di scale, apro la porta del mio appartamento, mi tolgo le scarpe, mi levo la t-shirt e la lancio sul divano, con una molletta - viola - fisso il lembo della zanzariera all'orecchio – sinistro - di un grosso leone di peluche, il centro del lembo lo puntello con un'altra molletta -una rossa- all'applique posizionata sopra il mio letto, poi alzo la una cassa dello stereo, quella sulla mensola alta lato sinistro della stanza e ci infilo sotto il lembo opposto, dunque lascio cadere la zanzariera di modo che copra interamente il mio giaciglio. Mi infilo sotto, guardo il soffitto attraverso le sottili maglie verdi e chiudo gli occhi.

La notte è stata clemente, dopotutto.

Fine

1 commento:

Bruno Orso ha detto...

E ma che noia sto blog, viene aggiornato una volta ogni morte di pope. I suoi post son più radi delle comparse dell'araba fenice, delle idee intelligenti nella testa del nostro premier (o dei suoi capelli al netto di trapianti e riporti). Che tedio, penso che mi abbonerò a sky, per non soccombere. Si tornerò all'inazione e alla passività coltivata in anni di mass-media. Lo farò certamente.