Il giudice sul mulo Periodico perenne di linguaggi letterari.

venerdì 26 gennaio 2007

L'esame di latino (ultima parte)

di Ezechiele Lupo

Ordinammo tre cioccolate con panna, due ventagli di pasta sfoglia e un cornetto. Per me un the al limone era bastato. Non si era nemmeno levato il paltò, e le briciole gli si attaccavano sul davanti inzuppato di pioggia.
“Non ti levi il cappotto? Non hai caldo?” Dissi io. Mangiava e beveva con stile, cioè, normalmente, non come mi aspettavo mangiasse un barbone.
“Non sono abituato a togliermi le cose. Dove sto io fa freddo, o se ti togli qualcosa te la rubano. A me è successo, ma non ero ancora pratico.”
“Dove vivi?”
“Dove dormo vorrai dire? Perché io vivo in strada. E’ importante, sai. Ormai per noi vivere è un sinonimo di abitare. Anche per me era così, ma poi ho perso la casa e ho capito che dormire al coperto è già vivere con dignità. Dormo in via B******** al ricovero Madre Adriana. Ma non è sempre facile trovare il posto. A volte si rimane fuori e così, per dirla bene, il cielo ti fa da lenzuola.”
“Avevi un terranova e te ne sei sbarazzato. Perché costava troppo? avevi una casa, e ora non ce l’hai più: cosa ti ha rovinato? Il gioco?” Lui mi guardò serio; aveva dei grandi occhi verdi, lucidi sembravano di valore. Rispose: “Il latino. Mi ha rovinato il latino.”
“Cos’è un vostro modo da barboni per chiamare il destino baro?” ironizzavo, chissà perché. “No. La lingua latina: l’esame di latino all’università. Ero giovane, poco più di te, frequentavo lettere e filosofia e mi stavo laureando, solo che mi mancava latino. Vivevo in casa dei miei: due persone dignitose, borghesi e democratiche. Avevo una macchina con la quale facevo dei viaggi e stavo in compagnia della mia fidanzata: ci amavamo. Anche lei studiava e si stava preparando per entrare nel mercato della ricerca. Arriva il giorno dell’esame di latino. Ero preparato e fiducioso di superarlo; avevo assimilato con difficoltà ma esattezza la materia. Il destino volle che quel giorno non superassi l’esame di latino, e che in quel giorno segnassi la fine della mia giovinezza.”
Forse aveva caldo ma non si tolse il cappotto, anche se era sicuro, credo, che io non gliel’avrei mai rubato. Continuò a raccontare: “Con quella bocciatura avevo perso un anno, a causa di una serie di scadenze, dovute per lo più ad una burocrazia fessa, nel senso di stanca, e restia più che mai ad applicare il buon senso. Ma la cosa non finisce qui. La stessa sera dell’esame fallito, la mia fidanzata mi comunica la notizia, relativamente la migliore o la peggiore di una vita, dell’attesa di un figlio. Esclusa la possibilità di un aborto, lei e lui furono talmente puntuali da concludere un dottorato di ricerca, e nascere, nello stesso mese. Io con l’assicurazione di poter sostenere ancora l’esame di latino e terminare gli studi, mentre la mia fidanzata lavorava con un contratto di sei mesi in sei mesi, mi preparavo per ritentare l’esame. Come spesso accade, non per nostra volontà, ma per noia verso l’iterazione prolungata di un’azione, lo studio risultò poco proficuo e ancora una volta non riuscii a laurearmi. Dato che il tempo passava, il figlio cresceva e non ce la facevamo con un solo stipendio a sostenere, anche se con l’aiuto delle famiglie, la nostra vita insieme, mi obbligai a cercare un lavoro non conforme ai miei studi incompleti; convinto di poter fare ambo le cose: studiare e lavorare. Ma difficile e aspro si sarebbe presentato il futuro. Per l’incertezza di una condizione economica distante quanto mai dalle aspettative, e per il logorio dei sentimenti, causa di rancori e di rimproveri nascosti, che, una volta scoperti, per caso o per scelta, devastano anche la più solida delle unioni, mi ritrovai a dover abbandonare totalmente gli studi, al fine di, impegnandomi a fondo in un lavoro senza qualità, procurare cibo e attenzioni alla mia famiglia impaziente. Quando alla mia fidanzata non fu più rinnovato il già striminzito contratto, io ebbi la responsabilità completa delle nostre sorti. Arrivò il mese in cui l’auto diventò uno sfizio, il mese del pagamento dell’assicurazione, e la vendetti forse al peggior offerente. Arrivò anche il mese in cui pure il mio contratto non fu più rinnovato: capita, sono cose normali, non è un licenziamento, è la flessibilità, basta rimboccarsi le maniche e un lavoro si trova; si diceva. Ma intanto come facevamo a pagare l’affitto, il vitto, la vita da bambino di un bambino? Per un po’di tempo i soldi della macchina ci bastarono; ma giunse il giorno in cui anche la casa diventò uno sfizio: e per la mia fidanzata lo diventai anche io. Ed è così che lei se ne andò col bambino e mi ritrovai senza lavoro, auto e casa. Sebbene già questa potesse sembrare il limite invalicabile di una sorte avversa, accadde una cosa paradossale: l’università mi chiamò e mi chiese duemilacinquecento euro: i soldi della retta. La mia colpa fu quella di aver dimenticato di comunicare l’abbandono e, non avendo pagato quando loro si attendevano, ero stato automaticamente promosso a dover elargire il massimo delle spese. Senza prospettive, beffato da quella stessa università alla quale avevo dedicato l’impegno maggiore nei miei anni giovanili, chiesi una dilazione del pagamento che mi fu accordata. Ora dormo al ricovero Madre Adriana e vendo questi opuscoli dove scrivono i senza tetto della comunità. Finirò un giorno di pagare le tasse universitarie.”
Detto questo si alzo di scatto, mi porse la mano. Io pensai che non aveva mai avuto un cane. Ma forse avrei dovuto capirlo prima. Mentre usciva col suo pacco di giornali sotto il braccio, la sera già compariva dalle vetrine. Anni prima fui bocciato anche io all’esame di latino.
Fine

2 commenti:

Anonimo ha detto...

Questo mini-racconto mi è piaciuto tanto. E' ben scritto, tranne la parte finale che diventa un po' troppo sincopata - anche se è intenzionale secondo me infrange il modo fluido in cui il racconto entra nella coscienza del lettore. Comunque, mi è piaciuto molto leggerlo e ho apprezzato sia il contenuto che la forma (sovrapposti molto bene), e soprattutto le descrizioni di atmosfera e le piccole note ironiche. Complimenti!

Anonimo ha detto...

Ringrazio Beatrice per le buone parole, le quali sono apprezzate soprattutto per franchezza, schiettezza; inoltre anche per la pazienza di aver dedicato del tempo alla lettura di queste righe. Un sincero arrivederci.