Il giudice sul mulo Periodico perenne di linguaggi letterari.

domenica 5 ottobre 2008

Variazione sulla corda di Ludwig

di Norberto Giffuri

Stillò la prima lacrima arrivato giusto all'ultima scena di Manhattan, Woody Allen, 1979. La domenica pomeriggio invadeva il mondo, sonnolenta e densa, come una melassa esistenziale colata dalla monotonia di un cielo tutt'altro che effetto favonico, tutt'altro che blu intenso. Sembrava piuttosto che una coperta di lino fosse stata tirata tra i quattro punti cardinali. Nel suo appartamento, sotto la coltre appena descritta e sopra la coltrice, Sebastian affondò il capo nel cuscino mentre il televisore sputava le note di Gershwin a volume smodato. Seguitò a singhiozzare, con ritmo incerto, poi si girò di scatto, allargò le braccia e si ritrovò nella posizione di un Cristo crocifisso. E così rimase, in balia dei suoi fantasmi.

La sua sofferenza tutta intellettuale non era certo più intensa e lacerante d'altre: apparteneva soltanto ad un piano di consapevolezza differente. Traeva origine da oscuri riflussi del pensiero meno semplicisti di quelli, per fare un esempio senza volontà di denigrare, di una soubrette della domenica pomeriggio o di un incolto magazziniere palestrato. Ma a lui piaceva sentirsi il più infelice di tutti, considerarsi l'estrema avanguardia di un reggimento di intellettuali spediti a morire sulla Linea Gotica del dolore.

Dovete sapere, cari lettori, che il malessere di Sebastian non aveva origini tanto bizzarre: non era un segreto rimorso a consumarlo, né un generale sconforto per le cose della vita...si trattava invece dei consueti patemi d'amore o meglio della mancanza di amore: condizione, ahimè, nella quale languiva da tempo immemore.

Era successo, circa una settimana prima, che una sera si trovasse disgraziatamente buttato in una di quelle feste di un partito sinistrorso, tutte sentimenti briosi verso la classe operaia, tutte slogan e buona volontà, almeno a parole. Non voglio dire ora che Sebastian non nutrisse una simpatia per il comunismo. Ne era affascinato come si è affascinati da un quadro di Pollock: non si capisce cosa voglia significare ma sembra che funzioni grazie ad una logica forte sottostante.

C'era andato trascinato dall'entusiasmo di Giulio, suo eterno compagno di serate di questo tipo...una figura che con cadenza bimestrale si presentava nella sua vita sponsorizzando feste della birra e quant'altro. Giulio aveva l'anima del PR, chiamava, aggregava, faceva e disfaceva...era un collante sociale che si scatenava quando la settimana sembrava sfaldarsi agonizzante. Sebastian a volte partecipava alla sua smania di mondanità, altre lo seguiva di malavoglia, altre ancora lo mandava semplicemente affanculo.
Quella sera faceva parte del secondo tipo di uscite: quelle apatiche.

O almeno lo era finché non la notò. Giulio le stava appioppando uno sgraziato doppio bacio sul viso. Lei sorrideva, candida, esile. Appariva fragilissima, circondata com'era da omaccioni barbuti armati di salamella. Sebastian scattò dalla seduta di pietra del muretto sul quale si era andato a posare. Raggiunse Giulio con passo studiatamente mascolino. Se un tale linguaggio del corpo funzionasse da richiamo per il sesso debole, non ci è dato saperlo. Fatto sta che conobbe Lidia, così si chiamava la fanciulla tanto delicata quanto dispersa nel volgo.

Lei aveva occhi grigi, labbra dolcemente incurvate e non lesinava i sorrisi. Inoltre amava Woody Allen. Dopo quindici minuti di interazione vocale Sebastian le propose il matrimonio. Lei cortesemente rifiutò, ma senza convinzione. Si lasciarono con la promessa di vedersi il venerdì seguente, in altra situazione, altro luogo.

Cominciò così una penosa settimana di attesa e speranza. Sebastian passò le notti a combinare in modo rigorosamento sparso i tratti di Lidia che aveva colto nella breve loro frequentazione. In queste circostanze era solito praticare un diabolico gioco di incastri tra reminiscenze letterarie, ricordi e frammenti pescati nella dimensione del sogno.
La sua vocazione al romanticismo più bieco lo portò presto nel maelström dell'immaginifico dell'amore: e si ritrovò a stringere la sua Lidia reinventata sotto un tiglio secolare oppure a baciarle la nuca davanti all'oceano in burrasca in qualche angolo di Normandia, piuttosto che a salvarla dalle inquietudini metropolitane di un sabato sera stanco e smorto...si espletò così la lunga e deformante trafila dell'idealizzazione.

Arrivò il venerdì seguente.
Spavaldo e in preda ad uno slancio vitalistico di proporzioni titaniche si presentò sotto casa di Lidia con un ritardo studiato. Fu elegantissimo e garbato, le aprì la portiera dell'auto, la subissò di complimenti e nei primi minuti riuscì ad infilare nel discorso quelle due o tre frasi brillanti che aveva preparato per l'occasione.
Si buttarono in un cinema d'essai, c'era una retrospettiva su Resnais. Sebastian giocò con la rima, lei ridacchiò sgraziata. Lui s'accigliò perché quel modo di sorridere non le si addiceva. Ma dissipò subito la sua amarezza quando nei primi minuti di Hiroshima mon Amour lei poggiò la guancia sulla sua spalla e si strinse verso il suo bracciolo.

Non la baciò. Ritenne che sarebbe stato un gesto affrettato. Tutto giocava a suo favore: l'aveva conquistata, la strada era definitivamente in discesa, una sinuosa strada in discesa verso una valle inondata dal sole. Si abbandonò nell'infinita consolazione dell'innamoramento. Accostò la mano a quella di Lidia, lei non si ritrasse.

All'uscita del cinema Lidia si staccò improvvisamente da lui. Attraversò la strada e fermò un tipo barbuto, dal corpo che ricordava una pera. Aveva capelli lunghi e sporchi e un vocione poco rassicurante: Sebastian ne ebbe una sgradevole impressione. Fu presentato, scambiò due battute senza interesse. Lidia invece sembrava felicissima di vederlo. Rise di gusto e più di una volta lo toccò sulla spalla e sui fianchi.
Quando poi si allontanarono lei gli confidò che il vichingo leninista -così lo aveva prontamente etichettato Sebastian - era il suo ex.

Ma non fu questa notizia a farlo vacillare. Non fu l'improvvisa consapevolezza che l'oggetto dei suoi desideri si era concessa a cotanto orrore (quell'uomo pingue, abbigliato con una smunta t-shirt e dei jeans sformati, così diverso da lui, lontano dalla sua eleganza di gesti, dal suo perfezionismo, dal suo sense of humour sofisticato), no, non fu questo.

Fu quella sigaretta, fumata da Lidia davanti al portone di casa e poi spenta a terra, schiacciata con una doppia pressione del tacco, a due metri da un cestino dei rifiuti. Quella assoluta noncuranza nel soffiargli il fumo in faccia. Quella sfrontatezza da adolescente arrabbiata che sfoderò in quei cinque minuti scarsi, ad atterrirlo completamente. Si ritrovò a fissare delle pupille improvvisamente divenute estranee. Implose e crollò, in un istante di solenne devastazione, tutta la sovrastruttura di senso che in quella settimana aveva costruito attorno alla figura di lei.

Si accomiatò simulando una serenità che più non era. Era la mezzanotte di una nuova domenica.
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Quella che avete appena finito di leggere è una libera riscrittura di un racconto di Asicheraglia.

6 commenti:

Davide8 ha detto...

Manhattan,
W. Allen.
You rock

Anonimo ha detto...

Oh grazie.

Anonimo ha detto...

Stilisticamente il racconto è impeccabile, come al solito. O meglio dimostra tutta la maturità stilistica e narrativa di Giffuri - che batte di gran lunga Asincheraglia, che pure non aveva dato affato cattiva prova di sè nel racconto "ispiratore". Peccato però che la versione di Giffuri sia pervasa da un anti-tabagismo di stampo mormone abbastanza stucchevole e che la stoccata contro il vichingo leninista faccia pensare chi scrive che se l'ex-fidanzato della letteraria Lidia fosse stato un nazi sprangabambini il buon Giffuri non avrebbe avuto niente da dire. Apprezzabile invece la citazione resnesiana. Decadente e quasi dannunziana (come gran parte dell'immaginario del racconto peraltro) la decisione di chiamare Sebastian il protagonista.

Anonimo ha detto...

Le vie dell’ispirazione sono infinite, come i gineprai intellettuali di ogni essere umano. Eppure, un tale amava ripetere che un uomo labirintico non cerca mai la verità, ma sempre e soltanto Arianna. Tutti i racconti del mondo sono diagrammi delle onde sonore prodotte da quell’unica corda sulla quale vale la pena di variare. Del testo, ciò che apprezzo maggiormente è il richiamo ciclico del tempo. “La mezzanotte di una nuova domenica”. “Anticamente un racconto aveva solo due modi per finire: passate tutte le prove, l’eroe e l’eroina si sposavano oppure morivano. Il senso ultimo a cui rimandano tutti i racconti ha due facce: la continuità della vita, l’inevitabilità della morte. Ti fermi a riflettere su queste parole. Poi, fulmineamente, decidi che vuoi sposare Ludmilla.”

Per quel che concerne lo stile, i giudizi di valore li lascio fare a chi crede di saperne. Avanzo un’ultima chiave di lettura. Da padre di Ludvig, la sensazione è che Sebastian sembri essere un Ludvig con qualche anno in più.

Anonimo ha detto...

"se l'ex-fidanzato della letteraria Lidia fosse stato un nazi sprangabambini il buon Giffuri non avrebbe avuto niente da dire."

Sebastian l'avrebbe odiato con altrettanto ardore.

Anonimo ha detto...

oh beh. Si è presa questa cosuetudine di trovare decadenza in qualunque prodotto esca dalla penna di Giffuri. Ricordo a tutti che anche il granchio de "La sirenetta" della Disney si chiamava sebastian. Personaggio puntiglioso, tutto ottimi principi e rispetto delle regole. Il classico tritapalle che avrebbe avuto da ridire su ua sigaretta spenta sul marciapiede. Detto ciò mi chiedo come leonard turcomanno possa fare paragoni tra la maturità stilistica di Giffuri e quella di Ansicheraglia essendo i loro stili completamente differenti. Mi complimento con entrambi gli autori che ancora una volta non mi lasciano delusa.
"le alghe del tuo vicino, ti sembran più verdi sai.."