Il giudice sul mulo Periodico perenne di linguaggi letterari.

sabato 2 febbraio 2008

Vivere in una casa di vetro

di Ezechiele Lupo

Vivere in una casa di vetro
Lontano e ben visibile
Una musica d’uscita e un vade retro
Mentre riparo un vinile

Il vinile che m’hai regalato
Si è crepato
Ora è attutito, disarticolato
Povero me così visibile

Mi faccio una doccia
Mi bagno la faccia

Vivere un una casa vetro
Andare d’accordo e non accorgersene

Non conosco la mia casa di vetro
E sono capace di tutto

2 commenti:

Anonimo ha detto...

Ancora una volta lei ci stupisce caro Ezechiele Lupo. Sceglie questo registro naif, spoglio ma carico di una valenza sematico-metaforica che nel momento in cui più ci cela più si afferma. E allora certe rime infantili, certo accorato gusto del gioco letterario fine a se stesso, certo intelletualismo parafiabesco si riscattano in questa duplicità di livelli intersecantisi. Ed ecco allora che la sua lirica assurge a penosa metafora della nostra condizione umania precaria e fragile esattamente come il vetro. Ed allora si gusta la perfezione metrica, sintattica, lessicale, oligodinamica e forse metonomica del suo breve componimento. Oh ce ne fossero tanti di cesellatori di parole, di costruttori di piccoli marchingegni poetici inattacabili quale lei è. E invece no, assistiamo sempre penosamente alla diffusione di una scrittura sbracata e volgare. Davvero invece la sua genialità si riversa e si spande in ogni sua parola ed in ogni suo concetto, nella sua aggettivazione sobria, nel suo lessico moderato e fintamente semplice o volutamente ingenuo (che è lo stesso), nel suo tono eloquente e misterioso a un tempo, nel suo calibrato uso delle congiunzione. Finanche gli avverbi dove ci sono non smarriscono mai la loro funzione organolettica. Ancora complimenti Dott. Lupo.

Anonimo ha detto...

La funzione organolettica dell'avverbio è sempre stata una caratteristica del mio linguaggio.