Il giudice sul mulo Periodico perenne di linguaggi letterari.

lunedì 5 maggio 2008

Messaggio poetico e letterarietà in “Il mio nome è rosso”

di Ezechiele Lupo

“Il mio nome è rosso” è forse il più celebre ed importante romanzo di Orhan Pamuk, intellettuale turco, vincitore del premio Nobel per la letteratura nel 2006. Al fine di una maggiore comprensione della piccolissima analisi proposta, vengono riportate le informazioni basilari per farsi un’idea, anche vaga sulla trama, i personaggi e la storia. Nella Istanbul del 1591, Nero, un giovane innamorato di Sekure, la bella figlia di un maestro miniaturista, viene incaricato di scoprire il responsabile di una serie di delitti. Le indagini si svolgono tra i membri del laboratorio di miniatura del Sultano. Solo una volta scoperto il colpevole Nero potrà consumare il matrimonio con Sekure. Il libro è diviso in brevi capitoli, in cui i vari personaggi narrano, in prima persona, una parte della vicenda.
L’analisi si concentra sul “messaggio poetico”, inteso come portatore di “letterarietà”.

Prima di tutto centriamo il punto: di cosa parla il romanzo? Di scrittura. La miniatura non è altro che la scrittura. Penso non sia esauriente sostenere soltanto che la tensione dialettica del messaggio si dibatte tra due poli: la rappresentazione, e quindi la referenzialità alla realtà, e la realtà rappresentata secondo un codice (per la miniatura è il codice persiano, per esempio). Credo che il punto sia un altro: il dibattito si svolge all'interno del mondo letterario, della concezione stessa di "testo" letterario, e del ruolo dei singoli attori di questa comunicazione: l'autore, il lettore, il mondo (anche come rappresentazione) e lo stile. E in questo dibattito Pamuk, l'autore reale del romanzo, ci entra giocando con finezza, attraverso il problema dello Stile, connesso strettamente col Punto di Vista. La domanda dell'autore reale è: il linguaggio letterario possiede in sè uno stile, che è dato dal punto di vista dei vari narratori all'interno del testo? Ma anche: il lettore coglie le variazioni dello stile indipendentemente dal fatto che gli si dica che il narratore cambia? In poche parole: Farfalla, Cicogna, Oliva, i tre miniaturisti che tanto anelano ad essere riconoscibili, ad avere uno stile, non sono forse, parte di uno stesso discorso? Il loro possedere uno stile non è sinonimo di personalità autorale, ma semplice scarto minimo rispetto ad una norma codificata. I narratori che si alternano nel libro sono portatori di un punto di vista diverso: questo è chiaro, ed è anche quello che l'autore reale, Pamuk, ci invita a credere. Salvo poi spiazzare il lettore alla fine, quando Sekure racconta il finale, e ci viene svelato che il narratore è unico (il figlio di Sekure, Orhan, che tra l'altro è un personaggio del racconto, quindi intradiegetico), che ha mentito, e ha cambiato il punto di vista semplicemente inventandosi che il disegno di un cane, un colore, il disegno di un albero etc., siano in grado di dare al lettore una visione del mondo: ognuno alla ricerca di uno stile. Nero è quel personaggio un po' pavido e fessacchiotto (talvolta), innamorato pazzo di Sekure? Sekure è davvero così bella e intelligente? Ovviamente non è importante saperlo o no. Pamuk gioca con i punti di vista, con i narratori, con la rappresentazione fallace della realtà, ingannando continuamente il suo lettore ideale, costruendo finti orizzonti d'attesa, per dimostrare che autore, narratore, stile, punto di vista e rappresentazione di una realtà, e quindi referenza, non sono altro che minime variazioni di uno stesso discorso. L'intenzione autorale, che è quella di avere uno stile, appare a Pamuk un'illusione: come la miniatura non doveva avere firma, così nella scrittura l'unica discriminante dev'essere quella del messaggio poetico. Orhan, il figlio di Sekure, narra una storia di intrighi, di amore, di morte, raffigurando un mondo di grande violenza, fatto anche di superstizioni e maldicenze, impossessandosi dei punti di vista dei personaggi. Ma la cosa essenziale da tenere in conto è che a punto di vista differente, non corrisponde narratore differente: questo è importante per capire il grado di finzione del discorso autorale. Il romanzo è corale fino a prova contraria, ovvero fino alle ultime righe dell’ultima pagina, quando il lettore si accorge che il progetto dell’autore reale (costruire un romanzo a più voci), è un finto scopo: poiché il narratore è unico, e, per sua stessa ammissione, ambiguo. Allora il lettore di Pamuk, il suo lettore ideale, dovrà chiedersi: ma che storia ho letto? Di cosa parla il romanzo? La risposta potrebbe essere che il romanzo parla di miniatura, cioè di scrittura. Se i fatti raccontati sono inattendibili, e poco ci importa del contesto storico, l’unica cosa importante da considerare è la scrittura. “Il mio nome è rosso” sembra essere, secondo quest’analisi, un saggio sulle possibilità del discorso finzionale, di fiction, e una confutazione di quella referenzialità che vorrebbe che la letteratura parlasse del mondo, scordando che il linguaggio, al massimo, parla di altri linguaggi. Come dice Maestro Osman, infatti, lo stile non è altro che il ricordo sopito e riaffiorato di un particolare già esistente. Ma questa non è una perfetta definizione di intertestualità? Il minaturista-scrittore crede di possedere uno stile, perché, con la propria intenzione, rappresenta uno spicchio di realtà: Maestro Osman-Pamuk ci invita a considerare che la minuatura-scrittura di finzione, rappresenta solo se stessa, con l’aiuto di altri sottotesti. In ultima analisi la destrutturazione operata da Pamuk confuta tutta la catena della comunicazione letteraria. L’intenzione autorale, che si esprime attraverso lo stile, non è altro che uno scarto rispetto ad una norma, già presente nell’orizzonte d’attesa del lettore, il quale viene messo in scacco dal finale, in cui si svela il narratore unico intradiegetico. Lo stile appare quindi il vero demone del discorso, perché implica un’intenzione rappresentativa: la letteratura di finzione non rappresenta nulla al di fuori di questo universo finzionale. Insomma la letterarietà sta nello svelamento dei meccanismi del discorso, per confutarli, e mostrare lo scheletro oltre la carne.

6 commenti:

Anonimo ha detto...

Tutto molto interessante pe' carità d'iddio...ma du' cojoni! A Ezechiè da' retta amme, lascia sta' Pamuk e la lettattura, scenni dal porchettaro sotto casa e fatti un panino con la sarsiccia e vedi che poi te sente mejo...ma molto mejo

Anonimo ha detto...

Lei è proprio uno zotico signor Salsiccioso!
E già che c'è ci chiarisce che cos'è la "lettattura"? Che gentaglia che c'è in giro.

Anonimo ha detto...

Lasciando perdere le zuffe da cortile e la grevità degli interventi che mi hanno preceduto, caro Ezechiele Lupo, desidererei chiederle se di Orhan Pamuk ha avuto modo di leggere anche "La casa del silenzio" e, nel caso, cosa ne pensa. La ringrazio molto.

Anonimo ha detto...

No. Non l'ho letto. Ma ho letto "Il castello bianco", che ho apprezzato molto, forse più de "Il mio nome è rosso". Caro Ugonotti, parlacene tu: apriamo un dibattito, al limite, un confronto.

Anonimo ha detto...

Ce tengo a ddire che il primo intervento nnun è der vero salsicciaro. Di sarsicciaro ce n'è uno, comprate solo origginale

Anonimo ha detto...

No caro Ezechiele Lupo, è proprio perchè ancora non lo ho letto che le chiedevo ragguagli. La ringrazio comunque dell'invito al dibattito. Cordialmente.