Il giudice sul mulo Periodico perenne di linguaggi letterari.

martedì 6 gennaio 2009

Apocalisse secca - seconda parte

di Norberto Giffuri

Riaprì gli occhi. La stanza era buia, le persiane serrate. Tastò il comodino alla ricerca della sveglia, l'afferrò e la portò a pochi centimetri degli occhi cisposi: le quattro e quaranta. Troppo tardi per continuare il gioco del sonno. Corse in bagno. Aprì il rubinetto. Niente acqua.

Bestemmiò. Il lavabo vibrò, colpito dal suo pugno isterico. Lo specchio gli mostrò un volto pallido e una corona di capelli arruffati. Andò in cucina. Aveva circa un ora per prepararsi. Alle sei doveva ritirare l’auto aziendale. Nervosamente girò e rigirò attorno alla tavola. “Ragiona” si disse, “ragiona” e troverai una soluzione. Il pavimento freddo perseguitava i suoi piedi scalzi. “Massì, posso usare i bagni della ditta…ci sono le docce e sicuramente dall’altra parte della città l’acqua ci deve essere”. Corse in camera, si infilo un paio di jeans e una felpa nera. Pescò una valigia da dietro l’armadio e ci infilò dentro il completo elegante, le scarpe costose, un deodorante, un asciugamano, shampoo, una spugna, un pettine e una saponetta. Trascinò la valigia nell’andito. Meccanicamente valutò lo stato della casa, se tutte le luci erano spente, se le persiane erano chiuse. Tutto in ordine. Rientrò in cucina e vide lo spazzolino abbandonato dalla sera prima accanto ai fornelli. Prese la bottiglia di acqua minerale per lavarsi i denti ma era vuota. Vuota? Era certo di averne conservata un po’. Forse la sua memoria vacillava. Ma non c’era tempo per le constatazioni. Mise spazzolino e dentifricio in tasca, prese le chiavi dell’auto, la valigia e l’isteria, e si precipitò per le scale del palazzo.

La porta del vicino era spalancata, la luce del corridoio accesa. Aveva tempo per una tale stranezza? Indugiò sulla soglia esitante. “Signor Maifredi”, chiamò una volta, con voce bassa, poi ripeté con maggior convinzione. Nessuna risposta. Avanzò per il corridoio, fino al salotto. Un tavolo laccato nero, un divano dal colore indefinibile, quadri di pessimo gusto e una cornice di tende verdi alquanto ottenebranti: questo fu ciò che vide. Pensò che la sua curiosità era avanzata più del dovuto. Tornò sui suoi passi. Probabilmente i vicini erano dovuti uscire con urgenza e avevano dimenticato la porta spalancata. Si convinse che poteva essere andata in questo modo. Scese le scale e si ritrovò in strada.

Non fu il silenzio che lo colpì. E neppure la visione della strada deserta. Non furono le due fugaci figure che correndo sparirono in un vicolo, quasi fossero animali braccati, che attirarono la sua attenzione.
Fu invece il cielo che lo catturò: altissimo, bianco, irreale, un sudario che avvolgeva la città tutta. L'aria era immobile, secca. Raschiò la gola e tentò un respiro profondo: non ebbe sollievo. Indugiò ai limite del marciapiede, lo sguardo rivolto all'insù. Si sentiva atterrito, impotente di fronte all'immensa morsa del cielo.
Cominciò a camminare, nel centro della strada, trascinando la valigia dietro di sé, senza una meta precisa. Ogni parvenza di lucidità si era dissolta sotto quel cielo impossibile. Aveva la fronte madida di sudore, sentiva freddo, sebbene la temperatura fosse piuttosto mite – ma dov'era il sole, dov'era? Pareva che la luce avvampasse da ogni direzione. Si sentiva nudo, inerme, come se quella luce rivelasse i più intimi risvolti della sua anima al mondo intero.
I suoi passi divennero sempre più incerti, brancolò varie volte, la maniglia della valigia gli scivolò dalle mani e preferì abbandonare quel peso morto. Annaspò appoggiandosi alla serranda di un negozio. Avanzò, trascinandosi quasi, fino all'imbocco di uno stretto vicolo che scendeva zigzagando fino al porto. Si acquattò nell'ombra del carruggio e subito gli parve di riprendere vigore.
La sua ragione era confusa dal ventaglio di sensazioni provate in un così rapido tempo: sbigottimento, terrore, meraviglia, smarrimento. Non c'era un nesso logico nei vari pensieri che si susseguirono nella sua testa mentre, immobile, rifiatava in quel vicolo. Si sollevò e prese a scendere le ampie gradinate che conducevano verso il mare. La visione del porto gli era preclusa, doveva percorrere tutto il budello di pietra e cemento, aggirare gli edifici e attraversare vari porticati prima di giungere sulla banchina. Il vicolo si allargò in una piccola piazza squadrata, dove un bambino accucciato giocava in un angolo. La visione di una creatura umana sembrò dargli una nuova fiducia. Si avvicinò al ragazzino forzando un sorriso di circostanza. Il bambino continuò nella sua occupazione: con il rametto stava distruggendo un formicaio costruito in un punto dove il pavimento lastricato lasciava spazio a pochi centimetri quadrati di terra. Lentamente, assaporando con piacere il gesto, tracciava linee nella terra fresca, rimestando e squassando. Le formiche si agitavano tutto attorno, disperate e impotenti. D'un tratto il bambino sollevò lo sguardo e lo fissò negli occhi con complicità. C'era qualcosa di maligno in quel volto. Un brivido freddo gli corse lungo la spina dorsale. Si allontanò indietreggiando e si infilò sotto un porticato.
Trasse un profondo respiro e proseguì poi la sua discesa. Una svolta, un arco, un altro porticato, una nuova svolta e...ciò che vide gli fece sussultare il cuore in un infinito istante di sgomento.
Là dove il mare bagnava la costa ora vi era una sterminata arida pianura grigiastra che digradava dolcemente verso l'orizzonte. Nel porto i pescherecci giacevano con lo scafo affondato nella sabbia. Alcuni erano adagiati su un fianco, con l'albero maestro spezzato. Altri erano incagliati in punti dove il fondale presentava una depressione, sicché avevano la prua o la poppa sollevata e il resto sepolto nella sabbia. Tutta la costa, o meglio, quella che una volta era stata una costa, brulicava di figure umane che si affannavano e girovagavano nel territorio riarso che aveva preso posto al mare.
Scese sulla banchina e si fermò terrorizzato per qualche secondo. Poi si sedette sul molo di cemento e si lasciò cadere sul fondale, circa un metro più in basso. Le scarpe affondarono nella sabbia, sollevando una polvere secca. Cominciò a camminare, tra rifiuti di ogni genere, lattine, sacchetti di plastica, relitti di legno e acciaio. Poi vennero i corpi morti dei pesci, migliaia, coi loro occhi vitrei che quella luce bianca e fredda rendeva vividi e inquietanti, e dunque i cespugli di alghe, neri, rinsecchiti, schiacciati al suolo. Avanzò fino a incrociare alcune figure umane che si allontanarono senza proferire parola. Poi le figure divennero tante e tutte si aggiravano cercando un volto amico, chiamando sottovoce, perché in quel deserto di sabbia pareva che nessuno osasse gridare, quasi che fosse imposto un tacito accordo. Proseguì fino al centro della baia, dove un centinaio di persone sedute in cerchio pregavano ondeggiando il capo. Passò oltre, e si fermò nel cono d'ombra proiettato dall'enorme scafo di un traghetto.
Fu allora che vide Anna. Si aggirava ad una cinquantina di metri di distanza, avvolta in una coperta azzurra. Un lembo della coperta strisciava nella sabbia tracciando una scia irregolare. La raggiunse correndo e la abbracciò forte guardandola negli occhi con immenso struggimento.
Poi, stringendosi, atterriti, insieme alzarono lo sguardo al cielo.
Fine

1 commento:

Anonimo ha detto...

Signor Giffuri o meglio E.G. lei ci delizia sempre con le sue perle. i miei complimenti