Il giudice sul mulo Periodico perenne di linguaggi letterari.

sabato 10 marzo 2007

Michele Mari - Cento poesie d'amore a Ladyhawke

di Ezechiele Lupo

Michele Mari pubblica per Einaudi il suo primo libro di poesie. Considerato il fatto che “libro di poesie” non è la giusta denominazione per una raccolta di poesie (non stiamo parlando, si badi, di ricette), e che “raccolta di poesie” fa già troppo campionario di stoffe, chiameremo il libello (corto, di libello si tratta) servendoci del numero dei componimenti presenti nelle poche pagine: cento poesie. Mari sceglie un titolo che non lascia dubbio alcuno sulla paternità dei componimenti: Cento poesie d’amore a Ladyhawke. Già nel titolo c’è gran parte della sua scia tortuosa e spiazzante, della sua vocazione letteraria alla letterarietà, intesa in senso dogmatico: nella cristallizzazione della parola, del lessico, sta la vera libertà aurorale, nell’accostamento di semplicità, leggerezza e riferimenti (parodistici) a mondi altri, o meglio, fuori dalla pagina.
Ne Il portaborse di Luchetti, il Ministro Botero, interpretato con perizia e fantasia da Nanni Moretti, sostiene irridente di non aver mai letto un libro fino alla fine, e si stupisce che i libri di poesie si leggano ancora. Anche a me è capitato di stupirmi su quest’ultimo punto. Mi sono spesso chiesto cosa fosse fare poesia oggi; avvenute tutte le decostruzione, persa quella verginità letteraria di cui parla Eco. Che vuol dire scrivere un verso? Non sono un amante della poesia e forse mai lo sarò; la poesia mi dice poco o nulla, qualsiasi. Ho letto per intero solo pochi libri di poesia tra cui le Lyrical Ballads (e ne vado fiero, cari miei!), e non posso dire di conoscere la contemporaneità del genere, ma Mari è un nome che accostato alla poesia fa sorridere. O perlomeno incuriosisce. Nei suoi romanzi e racconti, e anche nel suo modo di parlar semplice, (chi ha assistito alle sue lezioni lo sa) c’è una ricerca del registro alto, quasi tragico, nel quale non è raro imbattersi in spie testuali di un linguaggio basso, satiresco talvolta. Sarei quasi portato a dire che riesce a cristallizzare contenuti opposti in identiche forme, ma banalizzerei. Ad esempio tra le cento poesie ci imbattiamo in questa: Il mio amore è un trapano tremendo/Con punte/Al tungsteno/Al molibdeno/Al vanadio/Che fanno paura soltanto a vedersi/Il guaio è che da ragazzo/Mi han fregato il mandrino/E ancora/Lo sto cercando; la forma è evidentemente liberissima e l’amore come trapano è una similitudine fuori dal lessico poetico. Ma non bisogna fermarsi alle parole, dobbiamo guardare l’insieme del discorso: incredibilmente i tecnicismi, che non sono materiale poetico, vengono imbrigliati in una forma poetica che, se pur affatto che canonica, si canonizza. E’ quello a cui la lingua di Mari punta: creare un canone, o meglio, farsi canone letterario. Le cento poesie sono percorse da un’ironia a tratti irresistibile e fulminea, che può ricordare quella degli epigrammi latini: vi è il gusto per il mottetto, il particolare lascivo, la svisata erotica. E’ il percorso di un amore che si conclude con la morte: una fine impossibile e leggendaria, forse la morte delle parole, l’impossibilità di riferirsi all’esperienza amorosa, conclusasi come una mancata partita di poker. Non mancano tra i componimenti banalissime dediche da baci perugina come Centoundici, e versi fulminanti che versi non sono: Come un serial killer/faccio pagare alle altre donne/la colpa/di non essere te; poesia-non-poesia totalmente inutile, che se un merito possiede, è quello di illudere che essa sia davvero una poesia. La poetica di Mari recupera il medioevo italiano e lo ripropone senza gusto per la citazione colta: non attualizza temi e forme, ma restituisce testo e contesto, così come sono, comunicando ingenuità e sorpresa. Ci viene da chiederci: è poesia questa? Il linguaggio poetico ha recuperato la sua verginale ingenuità? O è solo l’ennesima maschera post-moderna di un narratore estremamente abile? Come dice Pasolini forse questa è una delle “enigmatiche correlazioni” che non ci è dato di sciogliere. Per me, che poco o nulla so di poesia, vale solo il piacere (sì, il santo piacere) di leggere versi come questi:


Nella mia testa
c’è sempre stata una stanza vuota per te
quante volte ci ho portato dei fiori
quante volte l’ho difesa dai mostri

Adesso ci abito io
e io mostri sono entrati con me



Michele Mari, Cento poesie d'amore a Ladyhawke, Einaudi, Torino, 2007, p. 112, euro 11,50.

1 commento:

Anonimo ha detto...

il libro e il suo arraffazzonarsi sarebbero belli se non posseddessimo un desiderio di bellezza. Un'invocazione: o cacofonico Mari cerca la tua punta al tungsteno da un'altra parte.